Così la P3 teneva in mano i magistrati
La rete di "Cesare" in 66mila pagine.
La P3, la P4 e quei milioni regalati
La pista del denaro porta al Cavaliere:
Sei procure, sei filoni d'indagine, migliaia di pagine agli atti.
Tutte le inchieste che negli ultimi mesi hanno intrecciato il mondo della politica
hanno un filo conduttore comune, fatto di bonifici, assegni e faccendieri

Le carte dell'inchiesta sull'associazione segreta svelano un'enorme rete di complicità che coinvolge politici e magistrati.
Il fascicolo in mano al  procuratore Capaldo e al sostituto Sabelli. Per gli indagati Berlusconi era "Cesare".
E alla fine del 2010 entra in scena anche la P4 con l'inchiesta dei pm Woodcock e  Curcio.
Tra i protagonisti il deputato del Pdl Alfonso Papa, che poi finirà in carcere. "Metteva le mani dappertutto"
30 agosto 2011 ELENA LAUDANTE, FABIO TONACCI E MARIA ELENA VINCENZI

ROMA - Dalle pressioni sui giudici, agli affari per l'eolico in Sardegna. Dai condizionamenti sulla politica, ai legami con la malavita e con il mondo dello spettacolo e le sue eminenze grigie, una su tutte Lele Mora, l'agente dei vip. La P3 non conosceva confini. Come testimoniano le sessantaseimila pagine, massacrate dagli omissis, depositate dal procuratore aggiunto Giancarlo Capaldo e dal sostituto Rodolfo Sabelli per la chiusura delle indagini sulla P3.

Un metodo già descritto ma che trova ulteriori e schiaccianti conferme nelle nuove informative dei carabinieri del nucleo investigativo del comando provinciale di Roma e del nucleo speciale di polizia valutaria della Guardia di finanza.

L'ONNIPRESENTE "CESARE"
Che dietro alle attività della loggia ci fosse Berlusconi è sempre stato più che un sospetto. Che fosse lui il "Cesare" di cui parlano gli indagati, quello a cui riferire tutto, è un'ipotesi che ha trovato conferma, l'estate scorsa, in una nota a piede di pagina di una richiesta di proroga di intercettazioni che per un errore non fu cancellata. Cesare, quello che veniva nominato decine e decine di volte.

Una su tutte quella del 10 febbraio 2010. Carboni chiama Martino: "Ecco, informeremo Cesare solo domani perché non c'è". Poi, ancora, un'altra telefonata del 22 settembre 2009. Martino e Carboni discutono su come guadagnare il favore dei giornali e pensano addirittura al Wall Street Journal, "giornale di diffusione mondiale", oppure a Le Figaro. Martino dice: "Ottimo, io l'ho anticipato questo fatto qua. Gli ho anche detto, gli ho fatto capire che su questa cosa qua ti stai muovendo solo tu". Carboni risponde: "Sì, ecco io". Martino chiarisce: "Con Cesare... Con Cesare".

Ma non mancano le citazioni dirette del suo nome. Come quando Pasquale Lombardi, giudice tributarista, parla con Gaetano Santamaria, all'epoca sostituto procuratore generale della Corte d'Appello di Milano, uno dei tantissimi alti magistrati intercettati nell'inchiesta. E' il 19 dicembre 2009 quando Santamaria chiama Lombardi, e lo saluta in tono confidenziale: "Pasqualino, sono Gaetano, come stai?". Dopo convenevoli sulle rispettive consorti, Santamaria chiede all'interlocutore se ha sentito le "dichiarazioni di Fini". E Lombardi risponde: "Sì, per quello stronzo di Fini. E' un uomo di merda, non ci sta niente da fare". Santamaria concorda: "Eh sì, si sta montando la capa". E l'altro gli risponde: "Siiiii... mi ha detto Berlusconi o dentro o fuori, non posso più perdere tempo appresso a te".

Poi rivela dei suoi incontri con "Giacomo", presumibilmente Giacomo Caliendo, il sottosegretario alla Giustizia finito nell'inchiesta per violazione della legge Anselmi, la cui posizione è al vaglio dei pm. Santamaria chiede: "Questo te l'ha detto Giacomo che ci sta la crisi di governo?". "Sì sì, Giacomo ha fatto le varie combinazioni. Mò oggi è andato subito al Senato, ha mangiato qualcosa con me e poi è andato subito al Senato perché ci stava la discussione sulla cosa breve". E l'alto magistrato risponde: "Ah sul processo breve, ho capito. E quindi è critica la situazione?". L'altro ammette di sì.

COSÌ CONDIZIONAVANO I GIUDICI
La familiarità di Pasquale Lombardi con le toghe è ulteriormente confermata da altre intercettazioni con alti magistrati, che pur non coinvolti direttamente nell'inchiesta, dimostrano la capacità della presunta nuova loggia di arrivare al potere giudiziario. Lombardi ha la capacità di alzare la cornetta e dare del tu a giudici del calibro del procuratore capo di Napoli, Giandomenico Lepore.

Come nella comunicazione del 4 febbraio 2010, di primo mattino, alle 7,40. "Uè procuratò come andiamo? Sono Pasqualino". Identico il tono del magistrato: "Uè Pasqualì. Dove stai? Io sto in ufficio", è il saluto di Lepore. "State solo? e mo' vi vengo a fare un po' di compagnia, allora dai", propone Lombardi, che spiega: "Sono a Carinaro, dove sta il cardinale".

E non può trattenersi dal raccontare l'aneddoto sull'alto prelato, il cardinale Crescenzio Sepe, arcivescovo di Napoli ed ex presidente di Propaganda Fide, originario della provincia di Caserta: "Mi dette un bacio il cardinale Sepe, chi ce lo disse, ce lo disse. Bonaiuti? Guardate Eccellè... Eminè questo è un uomo che fa bene a tutta l'umanità. Acchiappò e mi baciò, lo sai".

LA P3 E LA P4 SI INCONTRANO
Il 29 novembre 2010, i pm Henry John Woodcock e Francesco Curcio, titolari del fascicolo napoletano sulla P4, sentono come testimone Umberto Marconi, allora presidente della Corte d'Appello di Salerno. Il magistrato si sfoga con i pm: "Per quanto riguarda la mia vicenda personale riferita alla P3, ritengo di essere stato vittima di quello che a mio parere non stento a definire come un complotto ordito dai carabinieri che hanno occultato il contenuto di ulteriori mie telefonate intercettate... Non sono a conoscenza di eventuali rapporti tra il generale Tomasone (Vittorio, allora comandante provinciale dei carabinieri di Roma delegati alle indagini sulla P3, ndr), ma sono personalmente convinto che sia Alfonso Papa (deputato del Pdl finito in carcere proprio per l'inchiesta P4) il "regista" della vicenda che mi ha riguardato".

Insomma, secondo Marconi, Papa aveva le mani in pasta un po' ovunque. "Ritengo che abbia partecipato e sia stato tra i protagonisti anche dell'attività di dossieraggio svolta a danno di taluni magistrati tra cui Paolo Mancuso e Gianni Melillo ad opera del Sismi nell'ambito della quale fu anche sequestrato uno scritto riguardante un'indagine su Pio Pompa e Niccolò Pollari".

DALLA CRIMINALITÀ ALLO SPETTACOLO
L'indagine sulla P3 nasce da un'inchiesta della procura distrettuale antimafia di Roma, guidata da Capaldo, sulla criminalità organizzata. E, tra le attività di indagine, sbuca il nome di Flavio Carboni. Tutto inizia così. Risale alle origini dell'inchiesta il contatto tra l'imprenditore Carlo Maietto, il pregiudicato Pasquale De Martino (ritenuto il referente del clan camorristico "Sarno" del quartiere napoletano di Ponticelli) e l'uomo d'affari sardo.

Scrivono i carabinieri di via In Selci in un'informativa del 30 luglio 2009: "Tramite Carlo Maietto, De Martino ha instaurato rapporti con i noti Lele Mora e Flavio Carboni e dal tenore di molte conversazioni intercettate tali contatti sembrano essere finalizzati a realizzare iniziative importanti verosimilmente nel settore dei casinò, i cui contorni devono essere ancora delineati".

Le indagini, però, sono complicate. "I soggetti hanno l'abitudine di non parlare esplicitamente al telefono, rinviano tutte le discussioni sugli affari in incontri effettuati sistematicamente in luoghi pubblici al fine di eludere eventuali intercettazioni". In una conversazione intercettata il 18 marzo del 2009, Maietto e De Martino parlano di un incontro con Lele Mora e altri personaggi tra cui Flavio Carboni. "La conversazione è molto interessante - scrivono i carabinieri - in quanto rivela come Maietto, Carboni e De Martino stiano avviando insieme dei non meglio definiti affari. Maietto è soddisfatto: "Stiamo facendo delle cose straordinarie".


La P3, la P4 e quei milioni regalati
La pista del denaro porta al Cavaliere
Sei procure, sei filoni d'indagine, migliaia di pagine agli atti.
Tutte le inchieste che negli ultimi mesi hanno intrecciato il mondo della politica hanno
un filo conduttore comune, fatto di bonifici, assegni e faccendieri
29 agosto 2011 CONCITA DE GREGORIO

QUELLO CHE abbiamo smesso di chiederci è perché, per conto di chi. Assuefatti all'omeopatico dilagare della corruzione che ha trasformato l'Italia nel paese del "che male c'è, così fan tutti", tutti colpevoli nessun colpevole, scivoliamo distratti sui resoconti di giornata dei giornali, tanto si sa come va il mondo.

Sei Procure, sei filoni di indagine, migliaia e migliaia di pagine agli atti. Berlusconi ha regalato a Dell'Utri dieci milioni di euro? Un uomo generoso, beato lui che ce li ha. Angelucci ha estinto il mutuo da otto milioni di Denis Verdini? Ah. Walter Lavitola, curatore testamentario della un tempo gloriosa testata L'Avanti! paga uno stipendio mensile al procacciatore di protesi e di prostitute Tarantini, rimborsato dal presidente del Consiglio? Era prevedibile, Tarantini del resto ("le donne e la cocaina favoriscono gli affari", un maestro del pensiero) in qualche modo doveva essere messo in salvo. Meglio soldi che un seggio in parlamento, in fondo.

Fu Verdini ad avvisare Caldoro, allora candidato alla presidenza dalla regione Campania, che c'era un dossier "tipo Marrazzo" sul suo conto? Gentile. Del resto fu Berlusconi in persona ad avvisare Marrazzo. Voleva aiutarlo, certo. Un gruppo di faccendieri scambia le sorti politiche di Cosentino con la legge sull'età pensionabile dei giudici. Normale. Si attiva per far pagare alla Mondadori solo il 5 per cento di quel che deve alla Agenzia delle entrate? Gianni Letta segue la vicenda di persona? Vabbè, se è per pagare di meno, chi non lo farebbe, potendo.

Ecco, bisognerebbe ritrovare lo stupore, almeno. Se non l'indignazione la consapevolezza dell'enormità di ciascuna di queste notizie. Ricominciare a chiedersi: ma perché? Per conto di chi? Il Grande Corruttore ha comprato ogni cosa, persone e beni, ha disinnescato alla fine l'unica arma per lui davvero letale: l'intelligenza, la capacità di ciascuno degli italiani di darsi risposte in proprio, senza delegare.

Eppure non è difficile, basterebbe riportare tutto alla dimensione propria e ragionare sui soldi. Come se fossero i nostri, i vostri. Può una persona che guadagna 4000 euro al mese, come dice di sé uno degli indagati P3, spenderne 1000 per invitare ogni giovedì a cena degli amici? Non può, voi non potreste.

Dunque chi lo ripaga, per conto di chi lo fa, e perché? Quando qualcuno vorrà scrivere finalmente in chiaro la storia di come affondò nel pantano da lui stesso progettato l'impero di Silvio B. dovrà raccontare non di donne e di magio e, il collante del ricatto che tutti ammutolisce. Vediamo.

I PRESTITI INFRUTTIFERI
Vuol dire regalo. Non rendono niente, soldi a perdere. Abbiamo qui, venti pagine di relazione della GdF, la relazione sui soldi regalati negli ultimi tre anni da Berlusconi a Dell'Utri. Dieci milioni in tre parti: il 22 maggio 2008 attraverso il Monte dei Paschi, filiale di Segrate (la stessa che stipendiava le Olgettine), febbraio e marzo 2011 su Banca Intesa. Coprono uno scoperto di oltre 3 milioni di euro di Dell'Utri, e sette avanzano.

A cosa servono quei soldi? Perché il presidente del consiglio in carica finanzia con una somma così ingente un suo vecchio amico, certo, un uomo che in questo momento non ha altri incarichi se non la presidenza dei Circoli del Buon Governo, ironia delle parole, oltre ad una condanna per concorso esterno in associazione mafiosa? Il procuratore Giancarlo Capaldo ha chiesto lo stralcio di questa parte dell'inchiesta P3. Il resto andrà a giudizio a metà ottobre, sui bonifici si continuerà ad indagare. Capaldo si è chiesto perché, in definitiva.

Si deve lavorare ancora per spiegare perché, in cambio di cosa Berlusconi paga l'uomo che gli presentò lo stalliere Mangano. Immaginarlo, indovinarlo non basta a certificare che si tratta di un compenso. Nel faldone bonifici c'è un'altra vicenda per lo meno curiosa: villa Gucci a Firenze, comprata da Denis Verdini per 8 milioni di euro - che non aveva - e in effetti pagata in tre rate dal re delle cliniche private Angelucci, denaro transitato da una società Lussemburghese sulla filiale Roma 5 del banco di Brescia.

Perché Angelucci paga i debiti di Verdini? Non basta accertare il passaggio di denaro, bisogna "chiarire senza equivoci la natura dello scambio". In questo caso, lo scambio tra due uomini che si sono fatti da soli, proprio come il Principale. Un ex portantino del San Camillo il primo, il titolare di una macelleria divenuto presidente di banca, Credito cooperativo fiorentino, il secondo.

Un miglioramento di status, quello di Verdini, che si riverbera anche nella natura dei reati che negli anni, una ventina di procedimenti, gli sono stati contestati. Dallo stupro alla concussione, che è più elegante. Chissà quanti bei ricordi di gioventù, con l'ex barelliere Angelucci, tra un passaggio di milioni e un altro. E comunque perché corrono questi denari e favori? Nell'interesse di chi?

I LUOGOTENENTI
C'è qualcuno che comanda, qualcuno che esegue gli ordini o addirittura li indovina, addestrato a prevenire i desideri. La storia del Grande Corruttore passa per le vicende dei suoi uomini, quelli che si sporcano le mani e qualche volta le lasciano in pasta, il sentimento di impunità e di onnipotenza essendo lo spirito del tempo. Le inchieste di questa stagione passano di qui, conviene conoscerli.

Sono, dirà la storia, tre modesti faccendieri. Quello di Berlusconi si chiama Denis Verdini, era in principio un macellaio di Fivizzano, divenne infine il dominus della sorte politica del suo signore per via dei denari, ovviamente: aveva una banca, teneva i cordoni della borsa e le fila dei moltissimi famigli e questuanti, dei finanziatori venuti da lontano, dalle epoche sepolte del craxismo degli esordi, delle massonerie degli affari, dei faccendieri piduisti da cui tutta questa storia trae origine.

Poi c'è Luigi Bisignani, in stretti rapporti con Gianni Letta: era un ragazzino all'epoca di Licio Gelli, è un crocevia degli affari trent'anni dopo.

Il luogotenente di Tremonti è Marco Milanese, irpino di Cervinara, una laurea assai tardiva, ombra silenziosa e avida del ministro dell'economia.

Le sei inchieste che nel 2011 minano come cariche di tritolo l'edificio già pericolante del Sistema si occupano di loro: i lobbisti a capo di una corte di figurine minori - Fofò, Mimì, Gegè, magistrati e presidenti, imprenditori e aspiranti scudieri - che parlando stretto dialetti di diversi entroterra si riuniscono indifferentemente tra gli stucchi di palazzo Pecci Blunt o sotto una tettoia di un'area di servizio autostradale, fanno a gara ad acquisire credenziali presso "Cesare", lo chiamano così, l'imperatore che tutto muove, per passare poi all'incasso.

Premono sulle corti di giustizia per favorire il lodo Alfano, dunque la di lui impunità; facilitano la nomina di un magistrato amico; fabbricano dossier su un candidato nemico, governano miliardi di appalti pubblici, si regalano barche, macchine e ville, se il mutuo è scoperto arriva presto un imprenditore in debito di gratitudine ad estinguerlo.

Sei inchieste: Milano, Monza, Firenze, Perugia, Napoli, Roma. E sullo sfondo la guerra per la successione: Gianni Letta e Giulio Tremonti, gli eredi naturali, si contendono da mesi, in verità da anni, l'eredità del berlusconismo. Letta è l'Andreotti del Duemila. Ecumenico, trasversale, amico di tutti, destra e sinistra, mediatore congenito fin dal tono di voce. Tremonti è l'uomo del Nord, pratico, antipatico, sodale della Lega di Bossi, la foglia di fico efficiente - a suo modo - in un governo di ventriloqui di modesta competenza. L'uomo dei conti.

E' dunque la storia, questa, della guerra fra Letta e Tremonti: una battaglia che oggi, estate 2011, li vede entrambi in ginocchio, azzoppati dalle inchieste in procinto di andare a dama. Fra settembre e ottobre le procure depositeranno le richieste di rinvio a giudizio dei loro uomini. Il pallino torna nelle mani di Silvio B., Cesare ormai diffidente di entrambi, mentre l'impero costruito negli anni Ottanta sul mattone e poi sulle tv, diventato infine politica allo scopo di mantenere intatte ricchezze e privilegi, tutto intorno si sfarina.

GLI ASSEGNI
La storia è scritta in un vortice di assegni e bonifici firmati da Berlusconi nell'arco di trent'anni. Il primo riemerge dalle nebbie degli esordi, è nelle mani dell'avvocato Stefano Gullo da Agrigento, classe 1923, biografia che incrocia quella di Sindona negli anni della P2. Gullo prestò, allora, un miliardo di lire a Flavio Carboni e Silvio Berlusconi ottenendo in cambio come garanzia assegni da non incassare. Non ha recuperato che 200 milioni, oggi reclama il resto esibendo - appunto - gli assegni firmati Berlusconi. Gli ultimi sono i bonifici di Berlusconi a Dell'Utri di cui si diceva. Prestiti infruttiferi.

Le carte sono agli atti, le fotocopie degli assegni e gli estratti conto in uno dei faldoni sulla scrivania del procuratore Giancarlo Capaldo. P4, P5, P55. Potremo andare avanti all'infinito ma la storia è sempre la stessa. Il sistema è quello, e non è neppure nuovo. Ricordate Evangelisti, "a Frà che te serve?". Era così ai tempi di Andreotti, che del resto è ancora assai presente sulla scena, è così oggi. Solo: a beneficio di un uomo solo.

Possiamo chiamarla P5 o P55 ma per capire il senso della sigla bisogna risalire alla P2, in fondo anche Licio Gelli era un impiegato della Permaflex, Berlusconi allora un giovane affiliato alla Loggia. "Dovrebbero pagarmi i diritti d'autore", disse Gelli anni fa a proposito di Berlusconi e Cicchitto. Più di recente, dei nuovi faccendieri sulla scena: "Dilettanti".

Anche Berlusconi ha detto di loro "pensionati sfigati". Della sfortuna si può discutere, che siano pensionati è una menzogna. Flavio Carboni, signore di Sardegna, viene direttamente dagli anni di Andreotti e di Sindona, crocevia di morti sparizioni e misteri. Arcangelo Martino, socialista napoletano, viene dagli anni craxiani del Raphael. Fu proprio al Raphael, racconta, che presentò negli anni Ottanta a Berlusconi il suo collaboratore Elio Letizia, presente Craxi. Elio Letizia, padre di Noemi. Ricordate cosa disse Berlusconi il primo giorno? "E' la figlia dell'autista di Craxi". Non proprio l'autista, qualcosa del genere.

I soldi, di nuovo - non le donne - sono la pista. I soldi e gli affari. Soldi di antica origine, debiti e sodalizi vecchi di decenni. Le radici alle origini. I frutti, poi, sono i Tarantini di Puglia, gli imprenditori sardi dell'eolico, gli Anemone dei grandi appalti e delle case ad altrui insaputa. E' come se sulla scena delle inchieste, oggi, ci fossero la prima e la terza generazione di affaristi. I "pensionati" della Prima repubblica e i giovani affaristi rampanti dell'ultima. Un passo indietro, nell'ombra, la generazione di mezzo quella delle grandi fortune: il ragazzo sveglio di allora, anziano Cesare oggi.

UNA SOLA STORIA
Il "sistema gelatinoso" dei grandi appalti, la fabbrica del fango della P3, le pressioni sui magistrati e sulla Guardia di Finanza della P4: è una sola unica storia, la storia della corruzione eletta a sistema. Quando Caldoro dice: "Mi convocò Verdini alla Camera, mi disse che c'erano storie di sesso sul mio conto. Mi disse che si sentiva in dovere di informare Berlusconi" siamo tutti in grado di leggere il sottotesto di queste parole.

Perché, in favore di chi? E quando si incontrano poi a casa Verdini per definire la candidatura di Arcibaldo Miller, l'interessato presente, Dell'Utri e Carboni. Per conto di chi? In un interrogatorio di sette ore Verdini è chiamato a dar conto di 2 milioni e 600 mila euro transitati dalla sua banca, in seguito oggetto di un'ispezione della Banca d'Italia che ne denuncia le molte irregolarità e la condanna a pagare una multa. Soldi che arrivavano da un imprenditore romagnolo dell'eolico, Fabio Porcellini. E finivano dove? "A finanziare il Giornale", risponde Verdini. Il Giornale di Paolo Berlusconi, edizione Toscana. E perché un imprenditore dell'eolico con interessi in Sardegna, regione guidata dall'amico Cappellacci, dovrebbe pagare i debiti del Giornale. Per favorire chi, oltre a se stesso?

NELL'OMBRA
Dice Arcangelo Martino di Pasquale Lombardi, il socialista e il democristiano campani protagonisti dell'inchiesta P3: "Lombardi aveva rapporti con Gianni Letta, più volte ho sentito le loro telefonate. Disse che stava aggiustando la faccenda Mondadori perché fosse trasferita alle sezioni unite della Corte". I nomi di Letta e di Tremonti - nelle 66mila pagine di un'inchiesta, le 80mila di un'altra - compaiono così, interlocutori invisibili all'altro capo del telefono. Beneficiari sedicenti inconsapevoli di appartamenti di gran lusso, mandanti mai espliciti.

Cesare è il convitato di pietra. Quando in una nota in calce a uno dei fascicoli resta l'appunto dei Carabinieri - "Cesare è il nome in codice che gli interlocutori telefonici danno a Silvio Berlusconi" - succede la fine del mondo. Per il metodo, non per il merito. Formalmente quella postilla doveva essere secretata, è rimasta per errore.

Leggiamo dagli atti. La cricca si attiva per la riammissione della lista Formigoni in Lombardia, per il dossier sul Caldoro che intralciava Cosentino in Campania, per la nomina di Alfonso Marra e il tentativo di candidatura di Arcibaldo Miller, questi ultimi magistrati perché le carte pullulano di giudici non ascrivibili alle toghe rosse, al contrario, giudici amici e compiacenti che volentieri partecipano a convegni 'all inclusive' nei più esclusivi resort della penisola, paga Carboni, paga il presidente della regione Cappellacci. Perché, nell'interesse di chi? Chi è l'utilizzatore finale?

CADUTI SUL CAMPO
Il primo a cadere, tra gli uomini di Gianni Letta è Guido Bertolaso, inviso assai a Tremonti. Il sistema gelatinoso degli appalti, il G8 e i mondiali di nuoto, Balducci, Anemone, De Santis, Della Giovanpaola, il procuratore Achille Toro, le aragoste per pranzo e l'eolico per cena, i centri benessere e gli evviva la notte del terremoto. Bertolaso declina.

Tremonti gioisce, ma subito l'inchiesta Finmeccanica - false fatturazioni, fondi neri - in un filone secondario, Eurotec, porta in luce la strana storia del suo consigliere Milanese. Questa è la vicenda di una barca ma sullo sfondo c'è un giro vorticoso di benefici galattici, di regali stellari, una vita vissuta nello sfarzo supremo mentre il paese intero si accinge a metter mano al portafogli per risanare la voragine del debito in cui è precipitato. Il ministro dell'Economia chiede enormi sacrifici agli italiani e il suo braccio destro veleggia di regalo in privilegio.

Lui stesso, il ministro, abita un appartamento da Milanese procurato. L'inchiesta, a parte i Rolex, parla di tre milioni e mezzo di tangenti per assicurarsi appalti assai più redditizi. Letta assesta un colpo alla Rai morente - perché, nell'interesse di chi? - piazza la cattolicissima Lorenza Lei alla direzione generale piuttosto che il candidato di Tremonti, Angelo Petroni. Subito Bisignani, uomo di fiducia di Letta a Palazzo Chigi, già lobbista ai tempi del tangentone Enimont e delle vicende Ior-Vaticano, finisce nell'inchiesta napoletana P4, altro giro di corruzione altre pressioni altri regali.

Il 2 agosto l'aula di Montecitorio autorizza l'acquisizione degli atti su Milanese (corruzione, associazione a delinquere, favoreggiamento) e non per Verdini su cui pende una richiesta di rinvio a giudizio per tentato abuso d'ufficio nella ricostruzione dell'Aquila. Un colpo a Tremonti, senz'altro: Verdini salvo, Milanese no.

Il 3 agosto Capaldo lascia l'inchiesta Enav-Finmeccanica per la storia del pranzo con Tremonti e Milanese , il 4 chiude le indagini sulla P3 e stralcia la posizione Berlusconi-Dell'Utri quanto ai bonifici di cui sappiamo. Su quelli si indagherà ancora. Intorno a Ferragosto emerge che Tarantini, il procacciatore di prostitute pugliese, è pagato un tanto al mese da Walter Lavitola, direttore de l'Avanti!, a sua volta rimborsato da Berlusconi. Per cosa? "Per generosità, perché Tarantini era disperato", risponde Cesare.

Lavitola, attivissimo nel procurare documenti sul caso appartamento di Montecarlo-Gianfranco Fini nei giorni della rottura politica tra i due fondatori del Pdl, conferma che si tratta di beneficienza. "Un uomo disperato", Tarantini. I molti disperati d'Italia sanno ora a chi rivolgersi. A patto di avere qualcosa da offrire in cambio, è ovvio. "La generosità di per sé non è un reato, bisogna certificare con precisione in cosa consiste il do ut des". Immaginarlo non basta. Un assegno, un bonifico, un prestito infruttifero. Cesare paga, in questo scorcio di fine epoca. Generosamente, "disinteressatamente".

Peccato per la concomitanza con la manovra, che gli italiani pure pagheranno un conto. Che sappiano almeno con esattezza per coprire cosa, per salvare chi. Il pantano è un pozzo senza fondo, non basteranno pochi miliardi a risanarlo. Il Grande Corruttore sarà al sicuro fino al minuto esatto in cui non cominceremo tutti a chiederci perché, a favore di chi. Senza lasciare alla magistratura la supplenza, che prima del reato c'è il delitto politico. La responsabilità morale e materiale dello scempio.