Il caso Rosarno e la malapolitica che «delega» alle mafie il controllo del territorio
I nuovi schiavi figli del Mezzogiorno
L’ANALISI: GIUSEPPE GIARRIZZO 19 gennaio 2010
Il dramma di Rosarno è la conferma della miseria culturale di una classe politica irresponsabile e impotente, che ormai rincorre i propri slogans nella illusione che valgano a esorcizzare i fantasmi in ressa della «emergenza». Da almeno 20 anni la questione meridionale, che a 100 anni dell’unificazione politica Saraceno e La Malfa affidarono alla politica, con l’obiettivo storico della «unificazione economica», restituisce alla pietà devota i resti di un naufragio senza superstiti.
La grande industria sussidiata si prese le migliori pietanze della corvée della Cassa per il Mezzogiorno, poi si ritirò persino dall’edilizia: e lasciò alle mafie il controllo del territorio. Quando la marea montante ebbe lasciato negli anni ’80 l’area sommersa, le piccole imprese provarono a sopravvivere nelle isole meno esposte al rimorchio degli aiuti pubblici: e quelle che sono rimaste in vita si costruirono nicchie di lavoro nero e presto, soprattutto in agricoltura, fecero ricorso al lavoro schiavile. Via via che, con la cornucopia regionale, l’impiego pubblico dilagava e l’uomo «meridionale» si ritraeva da servizi «bassi», si fece ricorso all’immigrato - per il servizio domestico (fu la stagione dei filippini), per il piccolo commercio dei vu cumprà (senegalesi prima e dopo che i cinesi entrassero in proprio), per l’agricoltura (in particolare la raccolta, dei pomodori, delle ulive, delle arance - non meccanizzata come altre parti di quel lavoro). Ma quando il libero mercato e la concorrenza del Magreb nella produzione dei primaticci ebbero ristretto vieppiù i margini del profitto, e la grande distribuzione «impose» una nuova logica del prezzo, e la forza lavoro schiavile rese irrilevante il lavoro femminile, la schiavitù divenne l’ultimo rifugio di una società condannata al «terziario improduttivo». La politica neo-razzista della Lega fece il resto: la Bossi-Fini com’è, e come è stata gestita, ha rappresentato il maggiore aiuto alla esistenza prima, alla strutturazione poi di un’imponente forza lavoro servile. La scoperta prima, il controllo amministrativo poi degli immigrati ha gonfiato a dismisura il gran ventre della clandestinità che è occupato tutto e solo da schiavi. Appare cinica e stupida la reazione di Maroni ai fatti di Rosarno quando imputa al lassismo dei poteri locali la responsabilità dell’orrendo lager che gli schiavi avevano, tenuti a bada da caporali «mafiosi», costruito in tutte le sacche del Mezzogiorno «ricco» o nelle banlieu delle città meridionali.

E’ in corso in Sicilia la rivolta delle zucchine.
E non è di ora il boicottaggio tedesco alle arance rosse di Sicilia. Ma non è questo il solo motivo di interesse. Da anni chiedo che si guardi con un diverso approccio al «povero» Mezzogiorno: le statistiche reiterate sul nostro reddito medio inferiore a quello del Centro-Nord, la polemica (a vuoto) sulla fuga dei cervelli, etc. puntano su un’immagine del Sud che è quella disegnata dalla meridionalistica degli anni ’60-70. Una immagine del Mezzogiorno che non c’è più, e che la vulgata politico-mediatica si ostina a custodire perché fa comodo - per motivi che ho più volte esaminato, e che non serve qui riprendere - ignorare il cambiamento che c’è stato, ma è andato per vie differenti da quelle previste nei progetti della Svimez, del Formez e delle agenzie meridionalistiche. Negli anni ’90 l’analfabetismo non c’era più (e un ruolo decisivo hanno svolto la media unificata, e la diffusione dei linguaggi multimediali), si è chiusa la parabola dell’emigrazione «povera», si è di molto
ridotta la povertà strutturale, l’incremento dell’età media è ai livelli europei (anche grazie alla diffusione della sanità pubblica), la cultura religiosa ha qui caratteri «moderni» (diffusione del protestantesimo e di sette minori, ma anche impatto del Vaticano II presso clero e laicato cattolici) e l’italiano regionale tiene a bada ogni artificioso tentativo di «ritorno al dialetto», dialetto che nondimeno permane e ha vitalità non solo nel linguaggio colloquiale ma anche nell’espressione letteraria. E le tradizioni popolari, il folklore sono stati da tempo promossi ad antropologia culturale, etc. Più bassa che in altre parti del paese, che pur ristagna nelle bassure della «transizione», è nel Sud la cultura politica - assai condizionata dalla composizione e dai caratteri del nuovo medio ceto, di modesto profilo e appagato dall’impiego pubblico - ove non si chiedono competenze, non si misura la produttività, non esistono responsabilità e trasparenza.  Altro che fannullonismo! Lo strato alto è occupato da quanti lucrano pubblici stipendi, ma si spendono poi nel secondo lavoro - che a volte si identifica con la fascia automatica del «premio di progetto», o conosce le tentazioni della corruzione accanto al servilismo clientelare. Ora questo ventre molle appare in grado di sopportare il peso della malattia che gli è cresciuta dentro, l’inoccupazione dei figli - vale a dire l’esistenza di almeno due generazioni di giovani, demotivati dalla «cultura»  al tempo stesso scettica e cinica dei padri. Sono anni che da queste stesse colonne provo a definir questo male, vale a dire il mancato ingresso di generazioni nel mondo del lavoro, come il vero cancro dell’organismo meridionale. Se n’è accorto persino il mago Brunetta, che vuole una legge per tagliare il cordone ombelicale ai diciottenni. E di tutto ciò le mafie, che sono ancor esse molto differenti anche nelle gerarchie rispettive dalla «vecchia mafia», sono l’espressione piuttosto che la causa. La crisi presente, che la cultura non solo politica si è dichiarata impotente a interpretare, e la classe politica a governare, ha mescolato materiali incendiari di varia provenienza: le sacche di schiavitù che consentono al Sud di produrre a costi competitivi son cresciute per l’ignavia dei governi che sono intervenuti in modo maldestro, mutandone dimensioni e carattere, sono come ricadute su sé stesse - vesciche sgonfie - appena il crollo dei consumi, e la conseguente ristrutturazione del mercato hanno colpito la parte non delocalizzabile del sistema, l’agricoltura. Già alla fine degli anni ’90 in Francia come in Germania, in Gran Bretagna come in Olanda o Danimarca l’unico prodotto agricolo meridionale presente nei supermercati era l’uva Italia: a fornire gli agrumi (non solo del Magreb, ma anche dell’America meridionale) era in particolare la Spagna che faceva da tramite; e quanto ai vini la maggiore minaccia veniva al mercato non protetto dell’Europa dal Sud-Africa e dagli Stati Uniti, non certo dal buon vino siciliano pugliese o campano. Conseguenza scontata e prevedibile era un’ulteriore pressione sugli schiavi «immigrati clandestini»: e qui era la mafia dovunque a fornire i caporali. Quando la pressione si è fatta disumana, e contagiosa la disperazione del piccolo produttore, quel che è accaduto a Rosarno (dove erano aggiunti elementi che avevamo visto svilupparsi, nel corso della modernizzazione e della realizzazione del porto canale di Gioia Tauro) poteva accadere, e accade magari in forme attenuate altrove in tutto il Mezzogiorno agricolo.