Caso Belpietro, 30 settembre 2010 Uno strano attentato:
È buio sul misterioso malvivente, volatilizzato senza lasciare tracce. Nessuna rivendicazione
D’Ambrosio «Strani anche quei tre colpi sparati a vuoto». In tre giorni neanche un indizio.
5 ottobre 2010, Ancora mistero sul fallito attentato a Maurizio Belpietro.
A tre giorni dal fatto, nessuna traccia è stata trovata, nemmeno una rivendicazione credibile.
Molte stranezze, mille interrogativi. Anche quelli di D’Ambrosio.
 - La magistratura indaga sul presunto attentato del 30 settembre scorso,
ma i politici e i giornali di destra hanno già trovato il colpevole: Internet e  i social network.

La magistratura sta indagando sul presunto attentato a Maurizio Belpietro del 30 settembre scorso, e il "Corriere della Sera" scrive che «tra i poliziotti circola il convincimento che l'agente di tutela del direttore di "Libero" si sia inventato tutto».

Insomma, si tratta di un caso ancora abbastanza oscuro, ma è già bastato perché sulla bocca dei politici di destra e sulle colonne dei loro giornali tornasse lo spettro dei «brigatisti da social network», con una criminalizzazione a tratti incredibile della rete ("fabbrica dell'odio") non dissimile a quella che nel dicembre del 2008 fece seguito alla stuetta lanciata da Massimo Tartaglia a Berlusconi.

È una storia che ritorna, ciclicamente, su giornali e telegiornali. Ritorna così spesso che ne ho potuto scrivere un libro intero, intitolato, per l'appunto, Ti odio su Facebook. Come sconfiggere il mito dei "brigatisti" da social network prima che imbavagli la rete.

Spuntano dei gruppi che inneggiano a Totò Riina e vogliono santificare Bernardo Provenzano? Ed ecco apparire, immediatamente di seguito, un emendamento per chiudere Facebook firmato Gianpiero D'Alia. Uno squilibrato aggredisce il presidente del Consiglio? Non può che essere «vicino agli ambienti dei social network», parola di Bruno Vespa. I siti sociali, del resto, sono «pericolose armi» in mano a chi incita «alla violenza, all'odio sociale, alla sovversione», afferma Gabriella Carlucci, Pdl. «Peggio dei gruppi extraparlamentari degli anni Settanta», conclude Renato Schifani. Di conseguenza vengono ipotizzate misure «molto severe» da parte del ministro dell'Interno Roberto Maroni, si parla addirittura di un filtro preventivo ai contenuti che si possono inserire online. Fino al "capolavoro" di Raffaele Lauro, che ipotizza la creazione di un reato ad hoc, l' "istigazione ed apologia dei delitti contro la vita e l'incolumità della persona con l'aggravante per coloro che utilizzano il telefono, internet e social network". La pena va dai tre ai dodici anni di reclusione, e l'uso di Facebook è una aggravante di reato.

Fortunatamente, di tutte queste proposte si sono (faticosamente) perse le tracce. Non sorprende dunque leggere, dopo l'attentato a Belpietro, che la Rete sarebbe, secondo Stefano Zurlo de "Il Giornale", un «magma che distrugge», una «catena di montaggio della violenza in piena produzione», il cui linguaggio «echeggia quello degli anni Settanta». Insomma, «dal volantino ciclostilato al post». O ancora, che quanto si legge su Facebook, rincara il vicedirettore di Libero Franco Bechis, non è poi così diverso da quanto si leggeva «nei tazebao e nei foglietti della sinistra extraparlamentare negli anni in cui confinava e diveniva spesso serbatoio delle Brigate Rosse».

L'analogia è fumosa, ma il concetto è chiaro: abbiamo un colpevole, Internet. Allo stesso modo non stupisce la reazione della politica. Maroni torna a puntare il dito contro la Rete, perché «certe accuse, che si leggono magari su alcuni siti internet, possono dare a qualche mente malata lo spunto per fare queste cose». Maurizio Gasparri, a "L'Ultima Parola", teorizza connessioni tra le parole di Antonio Di Pietro alla Camera durante la votazione della fiducia, quelle abituali di Beppe Grillo e Facebook.

E il collega di partito Viviana Beccalossi esplicita: «E' sufficiente navigare sui blog o su Facebook per scoprire, ad esempio, gruppi con centinaia di iscritti, intitolati "Io odio Belpietro". E l'odio non può che generare quanto accaduto ieri sera a Milano». Cioè il tentato omicidio.

In effetti il gruppo c'è, "Kill Belpietro", ma quando è stato scoperto e messo in risalto dalla redazione online di "Libero" aveva poco più di trenta iscritti. Un po' poco per consentire spericolate generalizzazioni sul comportamento dei sedici milioni e più di utenti di Facebook in Italia. Tenendo anche conto che le cosiddette "hate pages" eistono in tutto il mondo, per quanto esecrabili siano, e a nessuno viene in mente di strumentalizzarle per lanciare campagne anti Web.

Fortunatamente qualcuno se ne accorge, anche nel Pdl. Roberto Cassinelli, ad esempio, il deputato a cui si deve l'abrogazione del famigerato emendamento D'Alia di cui si è detto, invita alla cautela: «E' sbagliato generalizzare considerando ciò che rappresenta solo qualche contenuto isolato come lo specchio del popolo di internet. Una tale criminalizzazione è certamente pericolosa», afferma Cassinelli raggiunto da "L'espresso", «e può soffocare lo sviluppo della rete, che va considerata come un'isola di libertà da salvaguardare e tutelare, garantendo a tutti la possibilità di accedervi e di esprimervi liberamente le proprie opinioni».

Ciò fermo restando che «su internet circola materiale che incita all'odio ed alla violenza, che viola le leggi e che noi tutti che amiamo la rete condanniamo ed emarginiamo». Anche per Antonio Palmieri, responsabile internet del partito di Berlusconi, «i social media non vanno criminalizzati in quanto tale.

Tuttavia c'è chi davanti a un monitor dà il peggio di sé, e chi», aggiunge Palmieri, «volutamente popola internet di spazi "eversivi". Bisogna distinguere». Con una legge apposita? «No, serve la legge del buonsenso e l'attenzione della forze dell'ordine verso i luoghi dove si sviluppano odio e "eversione"». Ciò che invece non serve, conclude Palmieri, è l'attenzione mediatica: «perché puntando i riflettori su questi gruppi si alimenta la sete di visibilità dei loro creatori. Richiamo dunque gli operatori della comunicazione alla responsabilità». Ergo: quaranta iscritti a un gruppo, tra provocatori di professione (in gergo, "troll") e commentatori indignati, non sono una notizia. Speriamo lo tengano a mente, anche dalle parti dei quotidiani "di famiglia". Soprattutto, speriamo lo tengano a mente i D'Alia, i Lauro e i Maroni di turno. Prima che, tra un gruppo "choc" e un allarme fasullo, non si finisca per legittimare tra gli italiani l'idea che internet sia un far west senza leggi, dove gli odiatori e gli istigatori alla violenza possono operare indisturbati, preparando il prossimo attentato (è falso: chi ha dubbi lo chieda al diciannovenne che si è visto apparire la Postale davanti all'ingresso dopo aver creato un gruppo che chiedeva di "giocare al tiro al bersaglio con i bambini down"). E che dunque sia non solo utile, ma urgente una qualche sorta di legge-bavaglio alla libertà di espressione sul web.

Il pensiero è già piuttosto diffuso tra gli elettori del Pdl, bastava porgere il microfono a uno qualunque dei presenti alla festa milanese appena conclusasi. Ma è un pensiero che porta al medioevo digitale, e non risolve i problemi che costringono persone in carne e ossa, e non fantasmi da social network, a esprimersi a insulti e minacce. Proprio come certa politica, la stessa che giudica la Rete senza minimamente comprenderla.



È buio sul misterioso malvivente, volatilizzato senza lasciare tracce. Nessuna rivendicazione.
D’Ambrosio «Strani anche quei tre colpi sparati a vuoto». In tre giorni neanche un indizio.
Ancora mistero sul fallito attentato a Maurizio Belpietro.
A tre giorni dal fatto, nessuna traccia è stata trovata,nemmenouna rivendicazione credibile.
Molte stranezze, mille interrogativi. Anche quelli di D’Ambrosio.

L’odio di uno solo. Il rapinatore solitario e ancheun po’ disperato, magari tossico, che tenta il colpo in quel palazzo della buona borghesia milanese.E infine anche l’ipotesi che nessuno pronuncia ma tutti pur con estremo timore e cautela
lasciano scivolare via tra le parole e le pause: la montatura. Una cosa sembra certa agli investigatori e agli inquirenti a tre giorni dal fallito attentato al direttore di Libero Maurizio Belpietro: chi ha agito giovedì sera tra le 22 e 40 e le 23 nel palazzo in via Monte di Pietà, pieno centro di Milano, difficilmente è riconducibile a un gruppo terroristico.

«Chi organizza un’azione così eclatante poi la vuole firmare, deve far sapere chi è stato. Invece in questo caso, a tre giorni dai fatti, manca ancora qualcosa che assomigli a una rivendicazione» osserva il prefetto Carlo De Stefano, fino a pochi mesi fa direttore dell’Antiterrorismo del Viminale.

L’inchiesta è affidata ai sostituti Pomarici e Pradella e coordinata dall’aggiuntoArmando Spataro, responsabile del pool antiterrorismo della procura di Milano. «Chi solleva critiche su questo non sa quello che dice» taglia corto il senatore
Gerardo D’Ambrosio (Pd), ex capo del pool Mani Pulite e a sua volta, ai tempi del pool, «protetto» dall’agente scelto Alessandro M, lo stesso che giovedì sera ha sparato tre colpi di pistola mettendo in fuga l’attentatore di Belpietro.

D’Ambrosio ce l’ha con il senatore Maurizio Gasparri (Pdl) che polemizza sulla «scelta» di affidare l’inchiesta a Spataro. Gasparri non sa, o fa finta di non sapere, che non si tratta di una scelta ma di un obbligo dettato dall’organizzazione degli uffici di procura. Una polemica gratuita, quindi, la sua, oltre che «insensata» considerata l’esperienza del pool antiterrorismo di Milano. D’Ambrosio dice qualcosa di più: «Sono molto contento che l’indagine sia affidata a Pomarici e Spataro, entrambi colleghi di grandissimo valore ed esperienza. In più, che certo non guasta, Pomarici già si occupò, anche se l’inchiesta era
affidata a Brescia, del fallito attentato del 14 aprile 1995 contro di me. E tra i due fatti ci sono curiose
analogie, nella dinamica, nell’assoluta mancanza di tracce».

Il capo scorta Alessandro M, («un giovane molto attento e impegnato nel suo lavoro, uno che lo prendeva molto sul serio» dice D’Ambrosio) è stato ascoltato nuovamente anche ieri dagli investigatori.

Quei venti minuti sono passati al setaccio, ricostruito metro dopo metro e secondo dopo secondo.
Digos e polizia scientifica anche ieri hanno continuato i sopralluoghi non solo nel palazzo di via Monte di Pietà - nei due cortili interni, nelle scale e sul pianerottolo tra il quinto e il quarto piano dove il caposcorta ha sparato tre colpi contro
lo sconosciuto a cui s’era inceppata l’arma –ma anche lungo le vie di fuga che danno su via Borgonovo.

È escluso infatti che l’attentatore sia fuggito dall’ingresso principale dove c’era il secondo uomo della scorta di Belpietro che non ha visto nulla. L’unica alternativa via di fuga passa da un secondo cortile interno, da un muro di cinta alto due metri, da altri cortili di un altro palazzo che affaccia su via Borgonovo sorvegliato telecamere e portiere.

Ma niente e nessuno ha visto qualcosa. «Un delitto perfetto» osserva un alto funzionario del Dipartimento delle pubblica sicurezza del Viminale, «in tre giorni di indagini non sembrano emergere indizi, evidenze o prove». Neppure un’impronta o un rametto spezzato, qualcosa che testimoni la fuga.

«Ma neppure - insiste il funzionario - qualcosa che dica che è stata tutta una montatura». Tutta la dinamica sembra «molto strana» riflette D’Ambrosio, «a cominciare da quei tre colpi sparati a vuoto, eppure Alessandro è uno che ci sa fare con le armi. Anche del mio attentatore non si seppe più nulla, fino a quella confidenza, anni dopo, di Pitarresi, ex picchiatore fascista poi diventato spacciatore che raccontò di essere stato incaricato di fare un attentato a uno del pool... Inchiesta di cui poi non ho saputo più nulla».