Le mille Genova senza giustizia
postato da Daniele Biacchessi il 06.11.2011, nella categoria I temi di Italia in controluce
Il dramma di Genova, frutto di anni di speculazione edilizia:
cementificazione selvaggia e di malaffare, che porta alla luce storie antiche, dimenticate nel tempo.
Storie di malambiente che non hanno avuto alcuna giustizia. Storie che iniziano da molto lontano.

Tarda sera del 9 ottobre 1963. I programmi televisivi si interrompono. Sullo schermo appare un giornalista che legge le prime righe di agenzia.
Notizie grame giungono da Longarone, Nordest d’Italia: «Poco fa, il monte Toc si è sbriciolato, la terra è caduta sulla diga del Vajont provocando un’onda lunga
che ha travolto alcuni paesi. Longarone, il più popolato, ora non c’è più». Basta uno sguardo e nelle case, nei bar, piomba il silenzio. Gli italiani guardano
la televisione, ma le immagini in bianco e nero dell’incontro di calcio Rangers Glasgow-Real Madrid quasi svaniscono davanti all’enormità di quella notizia.
Solo il giorno dopo, emerge con forza tutto il peso del l’olocausto del Vajont: 1.917 vittime stimate, 1.450 solo a Longarone, in soli quattro minuti.
Una strage di Stato, iniziata trentacinque anni prima.

Il 4 agosto 1928, il professor Giorgio Dal Piaz presenta la prima relazione sul bacino artificiale del Vajont.

È convinto che la struttura della conca non presenti particolari problemi:
«Le condizioni non sono peggiori di quelle che si riscontrano nella maggior parte dei bacini montani del Veneto».

E così, nel gennaio 1929 la Società Idroelettrica Veneta devia il torrente Vajont per produrre energia elettrica. Arriviamo al 1940: scoppia la seconda guerra mondiale, ma il progetto non viene interrotto. La Sade, Società Adriatica di Elettricità, vuole costruire una diga alta 200 metri e un serbatoio dalla capacità di 50 milioni di metri cubi di acqua. E il 24 marzo 1948, il presidente della Repubblica, Enrico De Nicola, firma la concessione. Un anno dopo, il consiglio comunale di Erto-Casso vende alla Sade i terreni in Val Vajont, ma per un errore catastale concede anche terreni di proprietà privata.

Nel 1957, la Sade non possiede la concessione definitiva, con tutte le varianti necessarie ai progetti, ma inizia comunque i lavori per la realizzazione della diga. Modifica perfino le dimensioni dell’invaso: secondo i tecnici può raggiungere 266 metri di altezza, mentre il serbatoio può arrivare a contenere almeno 150 milioni di metri cubi di acqua. Costo lordo: 15 miliardi di vecchie lire. Un terzo dei finanziamenti proviene da contributi governativi. Il 17 aprile 1957 il governo concede l’autorizzazione, ma la Sade, come si è visto, è già al lavoro da quattro mesi.

I giochi sembrano dunque fatti, anche se da Roma giungono segnali contrastanti: alla Sade viene concessa la possibilità di realizzare la diga e al contempo si tenta di imbrigliare il progetto con indagini sulla stato idrogeologico del terreno, sulla sicurezza degli abitanti e delle opere pubbliche. E tuttavia, tali indagini, richieste dal Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici, non vengono per molto tempo nemmeno prese in considerazione.

Nel 1959 giunge il primo segnale di avvertimento: 3 milioni di metri cubi di roccia si staccano precipitando nell’invaso del Vajont e provocando la morte di un operaio. Nel 1960 il secondo: una frana di 700.000 metri cubi di roccia si stacca dalla parete del Monte Toc e cade nel bacino. Sul versante sinistro della valle compare una fessura di 2 chilometri e mezzo a forma di emme. La storia è già scritta.

Per i tecnici della Enel-Sade, la mattina del 9 ottobre 1963 inizia presto.
Alberico Biadene, vicedirettore generale del settore tecnico, invia un messaggio via telex al direttore del cantiere Mario Pancini:

«In questi giorni, la velocità della frana è decisamente aumentata. Mi spiace darle cattive notizie ma deve subito rientrare dalle ferie. Che Dio ce la mandi buona».

È mezzogiorno. Alcuni operai dell’Enel si fermano a mangiare per la pausa pranzo sul coronamento della diga. Osservano, minuto dopo minuto, il movimento della montagna. Avvallamenti e alberi sradicati, inghiottono lentamente la strada che corre a mezza costa. Sulla sponda sinistra della diga si apre una crepa lunga 5 metri, proprio dietro alle baracche degli operai. La frana lavora e come un tarlo modella la terra, la plasma e la trasforma. I carabinieri dispongono un blocco stradale nella zona del Massalezza. Chiudono la statale di Alemagna, prima e dopo Longarone. A quel punto il geometra Rittmeyer telefona a Biadene:

«La montagna ha cominciato a cedere. Sono molto preoccupato per la frazione di Erto delle Spesse».

Mentre i due parlano, una telefonista di Longarone si intromette nella conversazione:

«Scusate se vi disturbo, ma c’è pericolo per Longarone?».

Dall’altro capo del telefono scende il gelo e la comunicazione viene interrotta. Nessuno deve sapere cosa accade sul Toc.

Sono le 22:39 e la frana si stacca all’improvviso. Compatta, come fosse un unico blocco, rovina sull’acqua trattenuta dalla diga: 260 milioni di metri cubi composti da rocce, strade, alberi, terra. L’onda di 50 milioni di metri cubi si divide poi in due direzioni: da una parte distrugge le frazioni di Patata, San Martino, Frassen, Il Cristo; dall’altra supera la diga e rade al suolo Longarone e i paesi limitrofi. E alla fine si riversa a valle, nel Piave.

Di chi è la colpa? E qualcuno ha pagato per le sue responsabilità?

Il 17 dicembre 1969, al tribunale de L’Aquila si conclude il processo di primo grado. L’accusa chiede, per tutti gli imputati, ventun anni per i reati di disastro colposo, omicidi plurimi e aggravati. Il tribunale infligge però condanne lievi, fino a un massimo di sei anni, di cui due condonati. E ci sono anche diverse assoluzioni. Le autorità giudiziarie non riconoscono il perno dell’accusa: quella frana era ampiamente prevedibile.

Il 25 marzo 1971 la corte di Cassazione conferma il verdetto del processo di secondo grado, ma riduce le pene ad Alberico Biadene e Francesco Sensidoni, condannati rispettivamente a cinque anni e a dieci mesi di reclusione. In seguito a Biadene verranno condonati tre anni per problemi di salute.

Il 27 luglio 2000, trentasette anni dopo – le cose in Italia funzionano così, a palazzo Chigi viene firmato l’accordo di transazione per il risarcimento dei comuni danneggiati, in primis Longarone, e delle vittime. Enel, Montedison e Stato si suddivideranno ciascuno il 33% della somma dovuta.



Dopo il Vajont, la nostra telecamera si sposta in Piemonte, nel novembre 1994.
Il sole taglia di traverso il finestrino della macchina che corre lungo quel pezzo di pianura tra Piemonte e Lombardia. Il verde dei pioppi confonde i colori sfumati del granoturco e si riflette negli specchi d’acqua delle risaie. Girano intorno uomini che guidano trattori nei campi. A ridosso dell’autostrada si scorgono, tra capannoni industriali e vecchi cascinali, stradine che il tempo consuma, canali d’irrigazione, argini. Un’anziana donna dai larghi fianchi pedala la sua bicicletta. Compie quel percorso da anni. Verso il Po, appare il Ticino, con il suo grande e attrezzato parco e le oasi naturali conservate. Un complesso sistema di piccoli corsi di fiume alimenta quella terra di mezzo: laghetti sperduti, minuscoli rigagnoli, spicchi d’acqua, sorgenti. Nella terra di nessuno, i salici fanno da contorno all’Italia dai mille campanili, con i tetti appuntiti. Più in là, una leggera nebbiolina nasconde i bricchi degli appennini. Il Po arriva poco dopo una curva. Senti la sua presenza da lontano, le attività si intensificano: cave per il setaccio di ghiaia e sabbia, industrie. I sapori diventano forti, gli argini che l’uomo costruisce contro le piene, più alti. Poco dopo, un fumo bianco, denso e maleodorante, esce da una ciminiera di un’industria chimica e rovina la poesia di quella campagna: così, in un cielo terso di mezza estate, rimane una strana nuvoletta rosa, proprio sopra il capannone. L’uomo organizza la propria esistenza, lungo i seicento chilometri del fiume, conquista ciò che l’acqua lascia ai suoi margini, aree fangose che bonifica nel corso del tempo. Come una sfida.

Lascio il Po alle mie spalle. Entro nella zona dei fiumi piemontesi, Tanaro e Bormida, ma il paesaggio non cambia. L’autostrada che da Piacenza va a Torino scivola tra i coltivi segnati dai solchi del trattore. Terre di vigna e di sudore. Tanaro e Bormida si incontrano per pochi metri e si lasciano dietro terre incolte.

Dall’alluvione del 94, nulla è come prima. I ricordi sono ancora vivi. Nel punto di congiunzione dei due corsi, l’acqua invadeva il tratto di autostrada, travolgeva ogni cosa, fino alle porte di Alessandria. Chilometri quadrati si erano trasformati in un lago di fango senza contorni: case sommerse, inutilizzabili da Ceva fino all’Oltrepò pavese. E’ un bilancio che mette i brividi: 35 persone morte, decine di dispersi, migliaia di sfollati. Caddero sessanta centimetri di acqua in sessanta ore: nell’alluvione di Firenze del 4 novembre 1966, piovve per 44 ore.

Durante l’alluvione in Piemonte molte persone vennero salvate grazie all’intervento di vigili del fuoco, soldati, volontari della Protezione civile, del Soccorso alpino e della Croce Rossa, al lavoro con mezzi anfibi, barche, gommoni, elicotteri. Altri, meno fortunati, dormirono sui tetti delle case, con l’acqua che toccava il quarto piano. L’alluvione del ‘94 lascia interrogativi ancora irrisolti, sulle colpe, sulle incertezze delle autorità competenti. Come i fax della discordia. Da un esame degli atti giudiziari tratti dalle inchieste che la magistratura ha fatto fin dal ‘94, emerge che la sciagura era prevedibile. La Protezione Civile era stata informata in anticipo ma nessun provvedimento è stato preso. Il 3 novembre 1994, alle 16,30, l’assessorato alla Difesa del suolo della Regione Piemonte inviò via fax, una nota.

Avvertiva che tra sabato e domenica si sarebbero intensificate le precipitazioni, “fino a raggiungere intensità tale da provocare possibili dissesti di carattere idrogeologico sui settori alpini centro meridionali della regione, in particolare sull’Appennino ligure-piemontese e nella valle del Tanaro”.

Un altro fax venne inviato la mattina successiva.

“La particolare situazione richiede una sorveglianza da parte di enti e amministrazioni preposte a funzioni di protezione civile, in relazione alla possibilità che si verifichino dissesti idrogeologici”.

Dalle 20 di venerdì 4 novembre e per tutta la notte un funzionario regionale della Protezione Civile instaurava collegamenti con le prefetture di Cuneo, Asti ed Alessandria ma le popolazioni non vennero avvertite del pericolo. Sabato 5 novembre, alcuni responsabili della Protezione Civile vennero precettati e richiamati d’urgenza dalle ferie in previsione di piogge di eccezionale gravità. Intanto Tanaro, Belbo e Bormida rompevano gli argini in più punti.
Ma nessuno se ne accorgeva.



Da nord a sud, la telecamera compie il giro del paese, e ci riporta ad immagini del 1998.
Da Chiunzi, il Pizzo d’Alvano è come una minaccia.  Sta lì da sempre e convive con i suoi abitanti che lo guardano impauriti: con le sue frane di terra e fango, i dieci fronti ancora aperti è solo uno degli aspetti della vita di Sarno e delle frazioni collegate.

Dal Pizzo, una massa enorme di melma seppellisce la memoria di un paese, in quella notte tra il 5 e il 6 maggio 1998. La gente scappa via dalle case, mentre un fiume color marrone, spazza via ogni cosa, le abitazioni di Episcopio, i piccoli borghi di Quindici, in provincia di Avellino, Bracigliano, Siano. Mentre le ore passano, si contano i morti, centotrentasette e sale quello dei dispersi, travolti dalla furia della natura.

Era prevedibile? Non c’entra per caso il dissesto idrogeologico?

Il Vesuvio, mai spento da 2500 anni, ha invaso colline e montagne da una coltre composta da cenere, pomice, lapilli. Ha ricoperto le colline di Ischia, i monti Lattari della Costiera Amalfitana, i monti piacentini e il Pizzo d’Alvano che, con la sua altezza di millecinquecento metri, divide le province di Salerno e Avellino. Quella del Vesuvio è terra instabile, posta sopra una struttura di roccia di carbonati, assai friabile. Con le piogge estive e autunnali la situazione diventa più complessa. La melma si insinua nelle fessure. Forma crepacci di decine di metri, trattiene l’acqua, poi scivola a valle e crea sciagure. Nei tempi antichi, i paesi venivano costruiti in posizioni strategiche, a ridosso di colline, lontane dai canaloni dove il fango si convogliava.

I Borboni, che non erano dei geni, avevano realizzato i Regi Lagni, strutture protettive che dovevano rallentare la massa franosa e contenerle in zone pianeggianti, come laghi di scolmamento. Invece la speculazione edilizia copre con il cemento armato quel sistema di protezione e le frane dal ‘60 al ‘69 portano la distruzione di migliaia di case. Le cause sono note: strade agricole tagliate su pendenze impossibili, interi abitati sorti dal nulla in piena campagna. L’abusivismo non si è mai interrotto. In un’area con una densità abitativa tra le più popolate d’Europa, le case sono state costruite senza piani regolatori e poi sanate grazie a provvidenziali condoni edilizi. Sessanta millimetri di pioggia fanno scattare il piano d’emergenza. In quei giorni del maggio 1998 l’acqua del fiume si mischia al fango vulcanico. A valle giunge una miscela esplosiva, inquinata da nitrati, ammoniaca, in un ambiente già compromesso. Storie di Sarno, raccontate lungo le strade di fango, mentre cammini nelle piazze dei mercati, tra la gente che viene da fuori e vende la frutta e la verdura. Storie.

“Aveva gli occhi blues Mario, quella sera, e non riusciva a dormire. Spettrale Sarno, Ferragosto postatomico, irreale pomeriggio fatto di niente, di calura che toglie fiato e non fa respirare. E dove sono le Maldive e Orlando, dov’è Capalbio e Arzachena e Key West? Ferragosto amaro. E nessun dolcificante può buttar via l’amaro e rendere più dolce la sera di Mario. Che ha gli occhi blues e il cuore ferito. Nel giorno dell’Assunta. Forse perchè sua madre si chiamava Assunta. E ora non c’è più. Acqua, acqua, acqua. Fango fango fango. Che da queste parti si chiama lota. Che s’è portato via la mamma di Mario, la voglia, l’allegria”.

Per l’olocausto del Vajont, per i morti del Piemonte e di Sarno ad oggi non vi è stata alcuna giustizia. E a Genova qualcuno pagherà per le morti di persone innocenti? Qualcuno si prenderà le sue responsabilità e si dimetterà come accade in un paese normale? Per quanto tempo ancora dovremmo seppellire morti prima che in Italia nasca una coscienza civile e ambientale?