Marina di Melilli, una brutta storia
E VENNERO A DISTRUGGERE IN NOME DEL PROGRESSO
Da: L’EUROPEO / 2003 / n°4
Il paese, Marina di Melilli, col suo mare, era un posto baciato da Dio.
Oggi è un luogo abbandonato da tutti. Gli insediamenti industriali lo hanno ridotto a un cumulo di scorie.
di Roselina Salemi

L’ hanno trovato legato mani e piedi, incaprettato si dice dalle mie parti, dentro il bagagliaio di una vecchia Alfa Romeo verde,
ai margini della strada sterrata che costeggia il mare.
C'era stata la solita telefonata anonima, altrimenti nessuno sarebbe andato a cercarlo, in quella ventosa mattina di giugno,
piena di nuvole inseguite dal fumo delle ciminiere.
Marina di Melilli era morta già da molto tempo, persino i fantasmi se ne erano andati, non trovando più rovine da abitare.
Era rimasto soltanto lui, il vecchio, ostinato Salvatore Gurreri, occhio d'aquila, faccia antica, come scolpita nella pietra.
Gurreri, l'ex rappresentante di forni Tibiletti, l'ex deputato dell'Uomo qualunque, che si vantava di aver dato uno schiaffo a Togliatti,
l'ex liberale che aveva letto Moby Dick a 52 anni e aveva deciso: voglio essere la balena. Non sembrava un delitto di mafia,
non in senso stretto, almeno.
L’ incaprettamento, diceva il giudice, era stato una necessità: gli assassini (due) dovevano infilarlo nel bagagliaio e non avevano altra scelta. Salvatore Gurreri era morto prima, strangolato. Si era difeso disperatamente, come si può difendere un uomo che ha superato gli 80 anni. Era solo,
la moglie era andata a trovare i parenti. In casa, lì vicino, c'erano i segni dell'aggressione: sedie rovesciate, stoviglie rotte, un vaso con tre dalie caduto sul pavimento. I cassetti però erano in ordine, segno che non si trattava di ladri.
Fine delle notizie ufficiali. Ho ascoltato in silenzio la voce lontana che mi raccontava i particolari raggiungendo il mio ufficio di Milano
dove giugno era un po' meno luminoso e senza vento.
E all'improvviso ho visto sparire gli oggetti del mio presente, il tavolo, l'armadio pieno di libri, il computer, la stampante.
Qualcuno aveva riavvolto all’indietro il nastro del tempo. Ero più giovane.
Ero in piedi davanti al mare ferito, eppure indifferente, sulla spiaggia dove, trent'anni fa, è cominciata la storia che sto scrivendo. Ero immobile, di fronte a una casa diroccata, dove la vernice nera, ancora carica di rabbia, gridava: "Marina di Melilli, risorgerai".
Ho sentito negli occhi il bruciore dell'ammoniaca, ho tossito per il fumo che arrivava con il libeccio attraversando gli oleandri polverosi, mentre Salvatore Gurreri, perdendo continuamente il filo, mi raccontava una storia, antica come il mondo, di denaro e di potere, il cui seme è stato piantato
a cinquanta metri da dove l'hanno trovato morto, nel punto preciso della spiaggia dove lui giurava ostinatamente di aver visto una sirena
il giorno del suo decimo compleanno.

Ero arrivata a Marina come ci arriva una giornalista affamata di lavoro.
Leggevo i quotidiani locali, cercavo, dietro notizie di poche righe, una storia da offrire al mio capo (ero corrispondente di la Repubblica dalla Sicilia). Mi avevano detto che al direttore, Eugenio Scalfari, piaceva la cronaca raccontata e mi andava benissimo, perché piaceva anche a me.
Così, setacciando avevo trovato lo strano caso del fornaio che faceva le pagnotte con l'acqua di mare e degli irriducibili che vivevano in un paese
di macerie, capitanati dall'ex Uomo qualunque Salvatore Gurreri. Abbastanza per dare un' occhiata. Era la fine di febbraio, una di quelle giornate
che sembrano finte, i fiori già sbocciati, il cielo dipinto, la luce ardente come una fiamma. Mi vedo camminare verso la casa costruita quasi sul mare con un terrazzo che sembra la prua di una nave, l'unica visibilmente abitata, con lenzuola stese ad asciugare, l'Alfa Romeo verde parcheggiata sotto una tettoia invasa dai rampicanti, mi vedo bussare alla porta, sorridere al signore sospettoso che apre: Salvatore Gurreri.
Succede che lui non mi vuole parlare. Quando capisce chi sono e che cosa voglio, mi riempie le braccia di scartoffie annotate da una scrittura tremolante e mi chiede di leggerle tutte. Dopo, se ancora la cosa mi interessa, parlerà (forse). Mi siedo fuori, su una panca di pietra, comincio
a prendere furiosamente appunti. La sintesi è questa. All'inizio degli anni Settanta qualcuno decide che questo angolo di Sicilia, cantato dai poeti latini, terra magica, baciata dalla grazia degli dei, ha un solo futuro possibile: la Grande Industria. Montedison, Isab, Enel, Cogema.
Centrale elettrica. Petrolchimico. Industria Siciliana Asfalti e Bitumi. Magnesio.
La Grande Industria ha bisogno di spazio e la politica glielo trova. Sono i tempi della Democrazia cristiana, di uomini potenti e chiacchierati come
il senatore Graziano Verzotto, dell'accordo ecumenico con le sinistre in nome dei posti di lavoro, della ricchezza per tutti.
L'operazione si chiama "tabula rasa”: significa che il Progresso avanzerà a spese di Marina di Melilli, ex borgata di pescatori, paese semiabusivo
e disordinato cresciuto tra la strada provinciale per Siracusa e il mare, dove la gente tiene la barca "parcheggiata” davanti alla casa.
Sembra facile: si indennizzano i proprietari, si butta giù tutto, si spiana, si costruisce. Chi partecipa al progetto riceverà dalla Grande Industria segni concreti di gratitudine. Sembra facile: con l'Isab alle spalle l'aria è già irrespirabile: chi insisterà per restare lì? Nel 1973 una fuga di gas intossica mezzo paese e un centinaio di persone finisce in ospedale. Strani incidenti si moltiplicano: malattie ai polmoni, reazioni allergiche, vomito.

La gente comincia ad andare via. Non ci sono espropri, solo cessioni bonarie, discreti indennizzi oppure offerte di appartamenti nei paesi vicini, Priolo, Floridia, Melilli. Ma quando, il 17 febbraio del 1973, cominciano le demolizioni, l'operazione "tabula rasa” è ancora molto indietro,
anche se finanziata per dieci miliardi dalla Cassa per il Mezzogiorno.
A Marina ci sono 182 famiglie, mille abitanti, panificio, macelleria, merceria, alimentari, bar, telefono pubblico, ricevitoria per giocare al totocalcio, tabaccaio, elettricista, trattoria De Simone con specialità zuppa di cozze, scuola elementare, una chiesa: Santa Maria Stella del Mare.
E qualcuno rilascia ancora licenze per costruire altre case.
A questo punto, nasce la resistenza. La maggior parte vuole soltanto alzare il prezzo, ma Salvatore Gurreri no. Lui vuole il mare, il suo mare.
Non vuole le industrie e non gli interessano i soldi. Ha deciso che non se ne andrà. Altri la pensano allo stesso modo, pochi per la verità,
ma bastano a inceppare il meccanismo faticoso della burocrazia. Non ci sono soltanto muri da abbattere, ci sono delibere da approvare,
varianti di progetto, consigli comunali pieni di gente capricciosa. Montagne di carta bollata e stormi di avvocati.
Un mese dopo le prime ruspe, la gente inferocita occupa gli uffici dell'Area di Sviluppo Industriale di Siracusa, volano tavoli e portacenere,
un impiegato scivola e batte la testa, commozione cerebrale, partono sette inchieste e il pretore di Augusta Nino Condorelli, uno tosto,
uno di quelli definiti "d'assalto", ferma le demolizioni. Cominciano le minacce.
Arriva un mafioso di Altofonte a convincere la gente che non è il caso di discutere e che lui farà, come nei film, un'offerta difficile da rifiutare. L'offerta è questa: amico mio, vedo che hai una casetta simpatica, una bella moglie, complimenti, un cane, tre bambini piccoli e una gabbia
con i pappagalli, allora ti vorrei ricordare che tutte queste cose ,e persone sono, disgraziatamente, combustibili. Salvatore Gurreri lo denuncia.
Arriva un portaborse democristiano e promette soldi a chi non pianterà grane, altrimenti chissà, può succedere qualsiasi cosa. Salvatore Gurreri lo denuncia. Arriva un sottopancia romano che, a nome di un ministro, assicura indennizzi extra a chi firmerà la cessione della sua proprietà entro sessanta giorni. Salvatore Gurreri lo denuncia. All'inizio del 1980 il bollettino dell'ottimismo dichiara: «Gli immobili da espropriare sono 184 abitazioni e 182 lotti di terreno. Complessivamente sono state pagate e quindi espropriate 89 ditte, di cui 80 fabbricati e 9 terreni. L’importo ammonta a quasi tre miliardi. Tutto sarà fatto nel più breve tempo possibile».
Tempo, tempo. Seduta sulla pietra scomoda, non nell'ufficio di Milano, attraverso gli anni, avanti e indietro, vedo la mia posta, vedo le carte
di tanti anni fa, chiare come se le avessi consultate ieri. Il vento le fa svolazzare, confonde le date, la rigida cronologia che,oggi ha perso valore.

Volano le dichiarazioni del ministro Michele Di Giesi che promette la rinascita di Marina altrove, forse sulla collina, miliardi, bonifica, città giardino. Volano le dichiarazioni di Nino Musumeci, ex sindaco di Melilli, che pubblicizza la sua grande "esperienza-dedizione-dedizione" su un volantino
per le elezioni del 26 giugno 1983: «Da sindaco di Melilli si è preoccupato dei grandi problemi (inquinamento atmosferico e marino, centrale termoelettrica, stabilimento Anilina) non trascurando ovviamente le "piccole cose". Nino Musumeci, il melillese che ama il suo paese».
Bella rima, grande poeta, annota Salvatore Gurreri ai margini del foglio. Intanto vanno via tutti. La salsedine fa scoppiare le lampadine.
La Sip ,cancella Marina di Melilli dal distretto telefonico. il servizio postale è sospeso, anche se il buon Carmelo con la sua bicicletta continua
a consegnare le lettere al paese perduto. il fornaio non ha più l'acqua e per non perdere la licenza impasta il pane con il mare,
che consegna alla farina il suo colore malato.
Il 15 dicembre 1984, con il settimo decreto di demolizione, le ruspe trovano solo otto famiglie, ma, sorpresa,
la burocrazia dei tribunali ha fatto il suo corso. Una sentenza dichiara che dopo il 1980 non è più possibile buttare giù quello che resta:
ogni intervento è illegittimo.
Naturalmente ci sono anche dispositivi diversi, la giustizia si contraddice, le interpretazioni sono tante, così tante che i processi, civili e penali,
si intrecciano paralizzandosi.
Per l'Isab viene fuori una storia di tangenti che spiega la determinazione nel sacrificare Marina di Melilli, le sue case, la sua baia dorata nella luce dell' alba, per il Petrolchimico vengono fuori storie di inquinamento (l'acqua dei rubinetti è rossastra) e una dottoressa incosciente scrive un rapporto dove confronta la percentuale dei cancri, delle leucemie e dei bambini malformati con la media nazionale giungendo alla conclusione che sono troppi. La dottoressa sparisce misteriosamente.
Nel 1985 il Petrolchimico entra in crisi. Non solo abbandona il sogno di espandersi testimoniato da un plastico futuribile con tante ciminiere
in miniatura, ma riduce i posti di lavoro. Dovevano essere 15 mila e sono sempre meno. Parte la cassa integrazione per 2000 operai,
si parla di chiusura.
Domandona: a che cosa è servito sacrificare Marina? Salvatore Gurreri manda cento fra lettere, denunce e telegrammi, dal presidente della Repubblica in giù, chiedendo di essere ascoltato. Non riceve risposte, ma minacce. A quel punto, arrivo io con la mia "126" bianca,
leggo le carte che mi ha consegnato e mi convinco che ho tra le mani una storia straordinaria, una di quelle che diventano film hollywoodiani,
la storia che mi farà assumere da la Repubblica.
Ero innocente, deve essersene accorto anche Salvatore Gurreri. Gli sono piaciuta, ha trovato in me la stessa passione per le cause perse
che aveva lui, la stessa irragionevole dedizione a battaglie gloriose, ma inutili.

Così ha messo da parte la diffidenza e ha disegnato nell' aria la mappa del paese scomparso con le case, gli orti e i giardini,
mi ha portato nello spazio vuoto dove sette anni prima c'era una villa di ricchi e ha spazzato via la sabbia con le mani per farmi vedere il poco
che era rimasto, un pavimento di ceramica di Caltagirone decorato a gigli e foglie, mi ha trascinato verso un muretto dove si respirava un'inspiegabile fragranza di gelsomino e seriamente mi ha detto che le pietre conservano la memoria degli odori (notizia che poi ho trovato negli scritti di al-Farabi). Dovrei dire che era un pazzo, ma non lo era.

Mi ha rivelato segreti che nessuno voleva conoscere: gli scarichi che rovesciavano in mare veleni, veleni e veleni, quelli che cambiavano il colore dell'acqua, quelli che ti facevano tossire e lacrimare. Mi ha regalato una foto vecchissima, quando a Marina c'erano ancora le dune e sulla sabbia sbocciavano minuscoli fiori blu chiamati "occhi d'angelo".
Ma soprattutto, mi ha fatto conoscere gli altri. Per prima, sua moglie Lilla, Ercolina Mori, parente del prefetto che voleva cancellare la mafia dalla Sicilia, una donna bella e inflessibile, dai capelli bianchi raccolti in un piccolo chignon alla Evita. Era stata partigiana, con l'ovvio anagramma di Nila Romi, era stata deputato di Giustizia e libertà e si era innamorata di lui, Salvatore Gurreri, della sua ostinazione e delle sue mani contadine.
Subito dopo mi ha presentato il fornaio Paolo Lombardo: gli ho chiesto di fare per me un chilo di mafalde con l'acqua presa dagli scarichi delle aniline, mollica rossa e viola, pane della disperazione che avrebbe potuto provare al di là di ogni ragionevole dubbio che cosa c'era davvero nel mare.
La famiglia Quattrocchi, proprietaria di una macelleria surreale con i ganci e il bancone vuoto, era sempre aperta. Se chiedevi un chilo di carne trita, uno dei figli partiva in bicicletta per Priolo, comprava, tornava e rivendeva allo stesso prezzo, solo per non chiudere. Giovanna Finocchiaro, la signora della casa di Conchiglie, aveva grandi occhi tristi, un marito in dialisi e tre figli.
Ho regalato una tavoletta di cioccolato alla più piccola che in cambio mi ha fatto leggere il suo tema. Cominciava così: «Sono nata in un paese che non c'è più e dove adesso abitiamo solo noi». I due fratelli giocavano fuori, in una pozza d'acqua piena di rane alimentata da un rubinetto rotto. Santino, 10 anni, era un ragazzino serissimo.
Per 500 lire portava in giro i curiosi, giù per il viottolo, sino alla macchina "acchiappapesci". Aveva battezzato così l'aspiratore della Cogema che risucchiava l'acqua di mare per il magnesio. Un popolo ignaro di gamberetti trasparenti e pesciolini finiva trascinato verso l'imboccatura, a ridosso del filtro, dove i ragazzi con il retino erano pronti a pescare un tragico fritto misto da vendere alla trattoria sulla strada di Priolo.
Santino conosceva anche la scorciatoia che portava a uno degli scarichi più nascosti, tra le canne di un acquitrino, dove l'acqua trasparente aveva
un odore aspro, tra ammoniaca e polvere da sparo, e la spiaggia era coperta da generazioni di conchiglie morte che raccoglieva per incollare sulla facciata della casa.

Poi mi sono toccati i De Simone, Luigi e Salvatore, padre e figlio, arroccati dentro una casa bunker con il muro bordato da cocci di bottiglia e una muta di cani come guardia del corpo. Mi hanno detto subito di lasciar perdere, per il mio bene del quale molto ,si preoccupavano, «perché c'erano in gioco troppi interessi, della politica e della malavita». Per ultimi, ho incontrato Giuseppe Lamina, Paolo La Pira e Orazio Rocca che ricordo mentre si ostinava a dipingere la facciata di un rosa pastello pronto a impallidire alla prima pioggia.

Quell' anno sono tornata molte volte a Marina dopo aver scavato fra strati preistorici di documenti negli archivi pubblici, nelle collezioni dei giornali, negli studi degli avvocati, dopo aver trovato una quantità di curiosi accidenti, perizie evaporate, rapporti smarriti durante i traslochi, denunce di cui avevo copia completamente smaterializzate, gente che negava di essere stata dove era stata e di aver conosciuto chi aveva conosciuto anche se c'erano le fotografie, magistrati che cinque minuti prima di firmare un rinvio a giudizio venivano promossi e trasferiti all' altro capo dell'Italia, tutte coincidenze forse, o forse no.
Non che ci fosse realmente una congiura del silenzio. Qualcosa era uscito sui giornali locali, notizie piccole, cronache scritte con il tono annoiato
di chi non ne può più: Salvatore Gurreri si incatena, Salvatore Gurreri fa lo sciopero della fame, Salvatore Gurreri accusa l'onorevole Tizio e il senatore Caio. Antonio Padalino aveva pubblicato un articolo su Panorama tirando in ballo lo scandalo petroli.
Claudio Fava aveva cercato di spiegare come stavano le cose sul mensile I Siciliani.
lo pensavo di aver ricostruito il senso complessivo dei fatti e il loro significato.
Ma la storia, vista da Roma, era troppo complicata e il mio giornale non la voleva. Non potevo raccontarla in trenta-cinquanta parole (tante me ne erano concesse) al mio caporedattore nella telefonata delle dieci, non c'era una notizia, non l'aveva il Corriere della Sera e non l'aveva La Stampa, l'avevo solo io, perciò poteva aspettare. Salvatore Gurreri mi guardava con un vago rimprovero negli occhi, non mi accusava apertamente, ma certo si chiedeva perché mai portassi regalini a Lina e ai figli di Giovanna Finocchiaro, perché continuassi a parlare con tutta quella gente dispersa, il prete operaio, l'ex giudice che aveva calcolato matematicamente il Prezzo del Progresso stabilendo che era troppo alto e non andava pagato, il mafioso pentito che con le sue offerte impossibili da rifiutare aveva semplificato l'operazione "tabula rasa".
Gli avevano contestato quattordici omicidi, ma lui ne aveva dichiarati quindici. Diceva il verbale: «Ho ammazzato anche Marinina>.  L’ho incontrato in carcere e mi ha dato il nome di un uomo molto potente al quale girare la domanda che avevo fatto a lui, una sola: perché?
Non avevo paura, anzi attraversavo le mie giornate con la grazia di chi si sente invulnerabile. Ho chiesto un appuntamento all' onorevole e l'ho ottenuto. Era un tipo bonario, sguardo paterno, abito costoso molto classico. Gli ho chiesto di Marina. L’ho sentito ridere. Risposta spiritosa:
«Mai avuto una donna con questo nome».
Non è una donna, Marina. È una terra violata, un tempo bellissima. Lagune, fenicotteri e polvere d’ambra. Schegge di corallo sparse tra le dune. Acqua verdeviolazzurra, a seconda dell'umore del cielo, tracine colorate, salpe, attinie e piantagioni di gorgonie, alghe coda di pavone e anfore romane forse,piene d'oro pescate a largo di punta Magnisi e leggende di coccodrilli portati dagli arabi: di fiori come la datura, capaci di turbare i sensi.
Tutto questo ho potuto soltanto immaginarlo leggendo cronache antiche, parlando con archeologi e ambientalisti, trovando descrizioni di pesci che non ci sono più, di stelle marine dalle lunghe braccia sottili ormai scomparse e di una minuscola lumaca rossa che può vivere soltanto dove il mare è felice. il 22 maggio 1985, otto,giorni prima di trasferirmi a Milano, ho promesso a Salvatore Gurreri che sarei tornata e avrei scritto la sua storia,
che avrei convinto "qualche giornale importante a pubblicarla «in un modo o nell'altro».
Invece non ce l'ho fatta. Sono tornata tre anni dopo la telefonata che mi informava della sua morte e non ho quasi riconosciuto la strada, mi sono persa due volte, sbucando miracolosamente davanti al rudere che conservava ancora il grido dipinto sulla pietra: "Marina di Melilli, risorgerai". Non c'era quasi niente, la casa di Conchiglie era stata demolita, il panificio era chiuso per sempre. Non c'erano neanche nuove industrie.
Una bella strada asfaltata portava alle piattaforme petrolifere Belleli-Micoperi costruite nel frattempo.

Ogni tanto passava un camion. Ho vagato un po' sulla spiaggia deserta cercando un punto di riferimento qualsiasi finché il vento non ha scoperto
un pezzo di pavimento a gigli e foglie e ho rivisto ancora una volta il percorso dei Giardini Invisibili, la bottega del panettiere con la barca capovolta davanti al cancello, il viottolo e l'Alfa Romeo verde.
Ho cercato notizie da un sostituto procuratore e ho scoperto che Salvatore Gurreri è stato ammazzato da due ragazzotti per 300 mila lire o giù di lì
e forse stava per testimoniare in uno dei tanti processi arrivati a compimento dopo vent'anni di denunce. Ho sentito parecchi mea culpa con desiderio di assoluzione da consiglieri comunali e provinciali, associazione industriali, assessori regionali.
L'ultimo scandalo è di tre mesi fa: inquinamento da mercurio a Priolo, acqua rossa "dai rubinetti, malattie, catastrofe ambientale. Buffo, mentre l'industria va in crisi e le ciminiere si spengono, nasce il progetto di un non meglio identificato "villaggio costiero Marina di Melilli", come se la storia girasse in tondo e tutto potesse ricominciare da capo. Invece no. La strada che portava al paese perduto oggi finisce davanti a una doppia cancellata degna di una vera e propria frontiera. Off limits.
Il cantiere "Iniziativa Sicilia" ha ingoiato un bel pezzo di spiaggia rendendo irraggiungibile quel che rimane della villetta di Salvatore Gurreri. Gli operai guardano con sospettosa curiosità chiunque si avvicini, anche perché, a parte loro, nessun altro ha un motivo sensato per lasciare la provinciale e contemplare più da vicino le maestose gru che dominano la scogliera, nessun altro ha voglia di far domande. Il futuro è dietro l'angolo, nelle piattaforme petrolifere disegnate sul mare, poco lontano.
Il passato sbiadisce.
La fortezza dei De Simone è chiaramente abbandonata. Porte aperte, muri pericolanti, tracce di siringhe. La bella villa con terrazzo ha le finestre sbarrate da pesanti croci di legno, l'edera si è infiltrata ovunque. Un' anziana coppia, molto tenera, passa la domenica nella sola casa rimasta in piedi, quasi sulla spiaggia. La barca è addormentata in salotto.
Le reti sono impolverate. Esiste un divieto di pesca rigidissimo, spiega lui, nonostante il mare sia quasi vuoto, perciò la cattura di una piccola, solitaria spigola può costare multe salatissime.
L'acqua è tornata trasparente, sembra quasi quella di un tempo, anche se la parola "mercurio" rimbalza da una stanza all'altra nella Procura di Siracusa, dove si annunciano severe perizie, indagini che finalmente faranno chiarezza.
Nessun giudice però arriverà mai alla conclusione di lgnazio La Rocca, maestro elementare in pensione, che per Marina ha scritto la sua ballata alla maniera dei vecchi cantastorie. Ecco la prima strofa: «Piangete siciliani, popolo sfortunato / vi racconto la storia di un paese assassinato /  politici e affaristi l'hanno colpito a morte /  piangete siciliani su questa triste sorte /  io l'ho visto ferito, l'ho visto sanguinare / e dalle vene aperte ho visto uscire il mare / venite ad ascoltarmi, venite qui vicino / che forse tutti insieme troviamo l'assassino».
Si può trovare chi ha ucciso un paese? Forse si. Ma intanto i testimoni sono scomparsi.
Non c'è, oltretutto, materiale più deperibile dei ricordi. È stato inaugurato un depuratore (25 miliardi) e l'estate scorsa si sono visti ombrelloni e sdraio blu sulla spiaggia. I figli di Giovanna Finocchiaro sono cresciuti, i figli di Giuseppe Lamina hanno aperto una carrozzeria a Catania, nessuno ha tenuto da parte i documenti che avrebbero potuto dimostrare come Marina abbia tentato di opporsi alle ragioni, sicuramente più forti, del Progresso. Certo, non tutto deve essere per forza conservato. Sono sparite le orgogliose città della Magna Grecia, Morgantina, Petroselinon, Eraclea Minoa, figuriamoci se non può sparire Marina, infinitamente più povera, senza anfiteatri, mosaici e statue di eroi vittoriosi.
Per questo oggi mi chiedo a chi possa interessare il racconto di una vita, quella dell'Uomo qualunque Salvatore Gurreri, o di altre vite a cui il caso
ha imposto di intrecciarsi in un certo momento, in un certo pezzetto di Sicilia, anche se una di queste è la mia.
E il caso di Marina, indipendentemente dai processi e dalle sentenze che forse arriveranno, dagli atti riparatori e dai segni di una giustizia tardiva, rimane per me quasi un fatto privato.Il senso che gli posso restituire, riavvolto il nastro del tempo per tornare nel presente, di fronte al mio armadio, accanto al mio computer, è l'unico possibile perché dipende soltanto da me, il senso di una promessa finalmente mantenuta.