L’ hanno trovato legato mani e piedi, incaprettato si dice dalle
mie parti, dentro il bagagliaio di una vecchia Alfa Romeo verde,
ai margini della strada sterrata che costeggia il mare.
C'era stata la solita telefonata anonima, altrimenti nessuno sarebbe
andato a cercarlo, in quella ventosa mattina di giugno,
piena di nuvole inseguite dal fumo delle ciminiere.
Marina di Melilli era morta già da molto tempo, persino i
fantasmi se ne erano andati, non trovando più rovine da abitare.
Era rimasto soltanto lui, il vecchio, ostinato Salvatore Gurreri,
occhio d'aquila, faccia antica, come scolpita nella pietra.
Gurreri, l'ex rappresentante di forni Tibiletti, l'ex deputato dell'Uomo
qualunque, che si vantava di aver dato uno schiaffo a Togliatti,
l'ex liberale che aveva letto Moby Dick a 52 anni e aveva deciso:
voglio essere la balena. Non sembrava un delitto di mafia,
non in senso stretto, almeno.
L’ incaprettamento, diceva il giudice, era stato una necessità:
gli assassini (due) dovevano infilarlo nel bagagliaio e non avevano altra
scelta. Salvatore Gurreri era morto prima, strangolato. Si era difeso disperatamente,
come si può difendere un uomo che ha superato gli 80 anni. Era solo,
la moglie era andata a trovare i parenti. In casa, lì vicino,
c'erano i segni dell'aggressione: sedie rovesciate, stoviglie rotte, un
vaso con tre dalie caduto sul pavimento. I cassetti però erano in
ordine, segno che non si trattava di ladri.
Fine delle notizie ufficiali. Ho ascoltato in silenzio la voce lontana
che mi raccontava i particolari raggiungendo il mio ufficio di Milano
dove giugno era un po' meno luminoso e senza vento.
E all'improvviso ho visto sparire gli oggetti del mio presente,
il tavolo, l'armadio pieno di libri, il computer, la stampante.
Qualcuno aveva riavvolto all’indietro il nastro del tempo. Ero più
giovane.
Ero in piedi davanti al mare ferito, eppure indifferente, sulla
spiaggia dove, trent'anni fa, è cominciata la storia che sto scrivendo.
Ero immobile, di fronte a una casa diroccata, dove la vernice nera, ancora
carica di rabbia, gridava: "Marina di Melilli, risorgerai".
Ho sentito negli occhi il bruciore dell'ammoniaca, ho tossito per
il fumo che arrivava con il libeccio attraversando gli oleandri polverosi,
mentre Salvatore Gurreri, perdendo continuamente il filo, mi raccontava
una storia, antica come il mondo, di denaro e di potere, il cui seme è
stato piantato
a cinquanta metri da dove l'hanno trovato morto, nel punto preciso
della spiaggia dove lui giurava ostinatamente di aver visto una sirena
il giorno del suo decimo compleanno.
Ero arrivata a Marina come ci arriva una giornalista affamata di
lavoro.
Leggevo i quotidiani locali, cercavo, dietro notizie di poche righe,
una storia da offrire al mio capo (ero corrispondente di la Repubblica
dalla Sicilia). Mi avevano detto che al direttore, Eugenio Scalfari, piaceva
la cronaca raccontata e mi andava benissimo, perché piaceva anche
a me.
Così, setacciando avevo trovato lo strano caso del fornaio
che faceva le pagnotte con l'acqua di mare e degli irriducibili che vivevano
in un paese
di macerie, capitanati dall'ex Uomo qualunque Salvatore Gurreri.
Abbastanza per dare un' occhiata. Era la fine di febbraio, una di quelle
giornate
che sembrano finte, i fiori già sbocciati, il cielo dipinto,
la luce ardente come una fiamma. Mi vedo camminare verso la casa costruita
quasi sul mare con un terrazzo che sembra la prua di una nave, l'unica
visibilmente abitata, con lenzuola stese ad asciugare, l'Alfa Romeo verde
parcheggiata sotto una tettoia invasa dai rampicanti, mi vedo bussare alla
porta, sorridere al signore sospettoso che apre: Salvatore Gurreri.
Succede che lui non mi vuole parlare. Quando capisce chi sono e
che cosa voglio, mi riempie le braccia di scartoffie annotate da una scrittura
tremolante e mi chiede di leggerle tutte. Dopo, se ancora la cosa mi interessa,
parlerà (forse). Mi siedo fuori, su una panca di pietra, comincio
a prendere furiosamente appunti. La sintesi è questa. All'inizio
degli anni Settanta qualcuno decide che questo angolo di Sicilia, cantato
dai poeti latini, terra magica, baciata dalla grazia degli dei, ha un solo
futuro possibile: la Grande Industria. Montedison, Isab, Enel, Cogema.
Centrale elettrica. Petrolchimico. Industria Siciliana Asfalti e
Bitumi. Magnesio.
La Grande Industria ha bisogno di spazio e la politica glielo trova.
Sono i tempi della Democrazia cristiana, di uomini potenti e chiacchierati
come
il senatore Graziano Verzotto, dell'accordo ecumenico con le sinistre
in nome dei posti di lavoro, della ricchezza per tutti.
L'operazione si chiama "tabula rasa”: significa che il Progresso
avanzerà a spese di Marina di Melilli, ex borgata di pescatori,
paese semiabusivo
e disordinato cresciuto tra la strada provinciale per Siracusa e
il mare, dove la gente tiene la barca "parcheggiata” davanti alla casa.
Sembra facile: si indennizzano i proprietari, si butta giù
tutto, si spiana, si costruisce. Chi partecipa al progetto riceverà
dalla Grande Industria segni concreti di gratitudine. Sembra facile: con
l'Isab alle spalle l'aria è già irrespirabile: chi insisterà
per restare lì? Nel 1973 una fuga di gas intossica mezzo paese e
un centinaio di persone finisce in ospedale. Strani incidenti si moltiplicano:
malattie ai polmoni, reazioni allergiche, vomito.
La gente comincia ad andare via. Non ci sono espropri, solo cessioni
bonarie, discreti indennizzi oppure offerte di appartamenti nei paesi vicini,
Priolo, Floridia, Melilli. Ma quando, il 17 febbraio del 1973, cominciano
le demolizioni, l'operazione "tabula rasa” è ancora molto indietro,
anche se finanziata per dieci miliardi dalla Cassa per il Mezzogiorno.
A Marina ci sono 182 famiglie, mille abitanti, panificio, macelleria,
merceria, alimentari, bar, telefono pubblico, ricevitoria per giocare al
totocalcio, tabaccaio, elettricista, trattoria De Simone con specialità
zuppa di cozze, scuola elementare, una chiesa: Santa Maria Stella del Mare.
E qualcuno rilascia ancora licenze per costruire altre case.
A questo punto, nasce la resistenza. La maggior parte vuole soltanto
alzare il prezzo, ma Salvatore Gurreri no. Lui vuole il mare, il suo mare.
Non vuole le industrie e non gli interessano i soldi. Ha deciso
che non se ne andrà. Altri la pensano allo stesso modo, pochi per
la verità,
ma bastano a inceppare il meccanismo faticoso della burocrazia.
Non ci sono soltanto muri da abbattere, ci sono delibere da approvare,
varianti di progetto, consigli comunali pieni di gente capricciosa.
Montagne di carta bollata e stormi di avvocati.
Un mese dopo le prime ruspe, la gente inferocita occupa gli uffici
dell'Area di Sviluppo Industriale di Siracusa, volano tavoli e portacenere,
un impiegato scivola e batte la testa, commozione cerebrale, partono
sette inchieste e il pretore di Augusta Nino Condorelli, uno tosto,
uno di quelli definiti "d'assalto", ferma le demolizioni. Cominciano
le minacce.
Arriva un mafioso di Altofonte a convincere la gente che non è
il caso di discutere e che lui farà, come nei film, un'offerta difficile
da rifiutare. L'offerta è questa: amico mio, vedo che hai una casetta
simpatica, una bella moglie, complimenti, un cane, tre bambini piccoli
e una gabbia
con i pappagalli, allora ti vorrei ricordare che tutte queste cose
,e persone sono, disgraziatamente, combustibili. Salvatore Gurreri lo denuncia.
Arriva un portaborse democristiano e promette soldi a chi non pianterà
grane, altrimenti chissà, può succedere qualsiasi cosa. Salvatore
Gurreri lo denuncia. Arriva un sottopancia romano che, a nome di un ministro,
assicura indennizzi extra a chi firmerà la cessione della sua proprietà
entro sessanta giorni. Salvatore Gurreri lo denuncia. All'inizio del 1980
il bollettino dell'ottimismo dichiara: «Gli immobili da espropriare
sono 184 abitazioni e 182 lotti di terreno. Complessivamente sono state
pagate e quindi espropriate 89 ditte, di cui 80 fabbricati e 9 terreni.
L’importo ammonta a quasi tre miliardi. Tutto sarà fatto nel più
breve tempo possibile».
Tempo, tempo. Seduta sulla pietra scomoda, non nell'ufficio di Milano,
attraverso gli anni, avanti e indietro, vedo la mia posta, vedo le carte
di tanti anni fa, chiare come se le avessi consultate ieri. Il vento
le fa svolazzare, confonde le date, la rigida cronologia che,oggi ha perso
valore.
Volano le dichiarazioni del ministro Michele Di Giesi che promette
la rinascita di Marina altrove, forse sulla collina, miliardi, bonifica,
città giardino. Volano le dichiarazioni di Nino Musumeci, ex sindaco
di Melilli, che pubblicizza la sua grande "esperienza-dedizione-dedizione"
su un volantino
per le elezioni del 26 giugno 1983: «Da sindaco di Melilli
si è preoccupato dei grandi problemi (inquinamento atmosferico e
marino, centrale termoelettrica, stabilimento Anilina) non trascurando
ovviamente le "piccole cose". Nino Musumeci, il melillese che ama il suo
paese».
Bella rima, grande poeta, annota Salvatore Gurreri ai margini del
foglio. Intanto vanno via tutti. La salsedine fa scoppiare le lampadine.
La Sip ,cancella Marina di Melilli dal distretto telefonico. il
servizio postale è sospeso, anche se il buon Carmelo con la sua
bicicletta continua
a consegnare le lettere al paese perduto. il fornaio non ha più
l'acqua e per non perdere la licenza impasta il pane con il mare,
che consegna alla farina il suo colore malato.
Il 15 dicembre 1984, con il settimo decreto di demolizione, le ruspe
trovano solo otto famiglie, ma, sorpresa,
la burocrazia dei tribunali ha fatto il suo corso. Una sentenza
dichiara che dopo il 1980 non è più possibile buttare giù
quello che resta:
ogni intervento è illegittimo.
Naturalmente ci sono anche dispositivi diversi, la giustizia si
contraddice, le interpretazioni sono tante, così tante che i processi,
civili e penali,
si intrecciano paralizzandosi.
Per l'Isab viene fuori una storia di tangenti che spiega la determinazione
nel sacrificare Marina di Melilli, le sue case, la sua baia dorata nella
luce dell' alba, per il Petrolchimico vengono fuori storie di inquinamento
(l'acqua dei rubinetti è rossastra) e una dottoressa incosciente
scrive un rapporto dove confronta la percentuale dei cancri, delle leucemie
e dei bambini malformati con la media nazionale giungendo alla conclusione
che sono troppi. La dottoressa sparisce misteriosamente.
Nel 1985 il Petrolchimico entra in crisi. Non solo abbandona il
sogno di espandersi testimoniato da un plastico futuribile con tante ciminiere
in miniatura, ma riduce i posti di lavoro. Dovevano essere 15 mila
e sono sempre meno. Parte la cassa integrazione per 2000 operai,
si parla di chiusura.
Domandona: a che cosa è servito sacrificare Marina? Salvatore
Gurreri manda cento fra lettere, denunce e telegrammi, dal presidente della
Repubblica in giù, chiedendo di essere ascoltato. Non riceve risposte,
ma minacce. A quel punto, arrivo io con la mia "126" bianca,
leggo le carte che mi ha consegnato e mi convinco che ho tra le
mani una storia straordinaria, una di quelle che diventano film hollywoodiani,
la storia che mi farà assumere da la Repubblica.
Ero innocente, deve essersene accorto anche Salvatore Gurreri. Gli
sono piaciuta, ha trovato in me la stessa passione per le cause perse
che aveva lui, la stessa irragionevole dedizione a battaglie gloriose,
ma inutili.
Così ha messo da parte la diffidenza e ha disegnato nell'
aria la mappa del paese scomparso con le case, gli orti e i giardini,
mi ha portato nello spazio vuoto dove sette anni prima c'era una
villa di ricchi e ha spazzato via la sabbia con le mani per farmi vedere
il poco
che era rimasto, un pavimento di ceramica di Caltagirone decorato
a gigli e foglie, mi ha trascinato verso un muretto dove si respirava un'inspiegabile
fragranza di gelsomino e seriamente mi ha detto che le pietre conservano
la memoria degli odori (notizia che poi ho trovato negli scritti di al-Farabi).
Dovrei dire che era un pazzo, ma non lo era.
Mi ha rivelato segreti che nessuno voleva conoscere: gli scarichi
che rovesciavano in mare veleni, veleni e veleni, quelli che cambiavano
il colore dell'acqua, quelli che ti facevano tossire e lacrimare. Mi ha
regalato una foto vecchissima, quando a Marina c'erano ancora le dune e
sulla sabbia sbocciavano minuscoli fiori blu chiamati "occhi d'angelo".
Ma soprattutto, mi ha fatto conoscere gli altri. Per prima, sua
moglie Lilla, Ercolina Mori, parente del prefetto che voleva cancellare
la mafia dalla Sicilia, una donna bella e inflessibile, dai capelli bianchi
raccolti in un piccolo chignon alla Evita. Era stata partigiana, con l'ovvio
anagramma di Nila Romi, era stata deputato di Giustizia e libertà
e si era innamorata di lui, Salvatore Gurreri, della sua ostinazione e
delle sue mani contadine.
Subito dopo mi ha presentato il fornaio Paolo Lombardo: gli ho chiesto
di fare per me un chilo di mafalde con l'acqua presa dagli scarichi delle
aniline, mollica rossa e viola, pane della disperazione che avrebbe potuto
provare al di là di ogni ragionevole dubbio che cosa c'era davvero
nel mare.
La famiglia Quattrocchi, proprietaria di una macelleria surreale
con i ganci e il bancone vuoto, era sempre aperta. Se chiedevi un chilo
di carne trita, uno dei figli partiva in bicicletta per Priolo, comprava,
tornava e rivendeva allo stesso prezzo, solo per non chiudere. Giovanna
Finocchiaro, la signora della casa di Conchiglie, aveva grandi occhi tristi,
un marito in dialisi e tre figli.
Ho regalato una tavoletta di cioccolato alla più piccola
che in cambio mi ha fatto leggere il suo tema. Cominciava così:
«Sono nata in un paese che non c'è più e dove adesso
abitiamo solo noi». I due fratelli giocavano fuori, in una pozza
d'acqua piena di rane alimentata da un rubinetto rotto. Santino, 10 anni,
era un ragazzino serissimo.
Per 500 lire portava in giro i curiosi, giù per il viottolo,
sino alla macchina "acchiappapesci". Aveva battezzato così l'aspiratore
della Cogema che risucchiava l'acqua di mare per il magnesio. Un popolo
ignaro di gamberetti trasparenti e pesciolini finiva trascinato verso l'imboccatura,
a ridosso del filtro, dove i ragazzi con il retino erano pronti a pescare
un tragico fritto misto da vendere alla trattoria sulla strada di Priolo.
Santino conosceva anche la scorciatoia che portava a uno degli scarichi
più nascosti, tra le canne di un acquitrino, dove l'acqua trasparente
aveva
un odore aspro, tra ammoniaca e polvere da sparo, e la spiaggia
era coperta da generazioni di conchiglie morte che raccoglieva per incollare
sulla facciata della casa.
Poi mi sono toccati i De Simone, Luigi e Salvatore, padre e figlio, arroccati dentro una casa bunker con il muro bordato da cocci di bottiglia e una muta di cani come guardia del corpo. Mi hanno detto subito di lasciar perdere, per il mio bene del quale molto ,si preoccupavano, «perché c'erano in gioco troppi interessi, della politica e della malavita». Per ultimi, ho incontrato Giuseppe Lamina, Paolo La Pira e Orazio Rocca che ricordo mentre si ostinava a dipingere la facciata di un rosa pastello pronto a impallidire alla prima pioggia.
Quell' anno sono tornata molte volte a Marina dopo aver scavato fra
strati preistorici di documenti negli archivi pubblici, nelle collezioni
dei giornali, negli studi degli avvocati, dopo aver trovato una quantità
di curiosi accidenti, perizie evaporate, rapporti smarriti durante i traslochi,
denunce di cui avevo copia completamente smaterializzate, gente che negava
di essere stata dove era stata e di aver conosciuto chi aveva conosciuto
anche se c'erano le fotografie, magistrati che cinque minuti prima di firmare
un rinvio a giudizio venivano promossi e trasferiti all' altro capo dell'Italia,
tutte coincidenze forse, o forse no.
Non che ci fosse realmente una congiura del silenzio. Qualcosa era
uscito sui giornali locali, notizie piccole, cronache scritte con il tono
annoiato
di chi non ne può più: Salvatore Gurreri si incatena,
Salvatore Gurreri fa lo sciopero della fame, Salvatore Gurreri accusa l'onorevole
Tizio e il senatore Caio. Antonio Padalino aveva pubblicato un articolo
su Panorama tirando in ballo lo scandalo petroli.
Claudio Fava aveva cercato di spiegare come stavano le cose sul
mensile I Siciliani.
lo pensavo di aver ricostruito il senso complessivo dei fatti e
il loro significato.
Ma la storia, vista da Roma, era troppo complicata e il mio giornale
non la voleva. Non potevo raccontarla in trenta-cinquanta parole (tante
me ne erano concesse) al mio caporedattore nella telefonata delle dieci,
non c'era una notizia, non l'aveva il Corriere della Sera e non l'aveva
La Stampa, l'avevo solo io, perciò poteva aspettare. Salvatore Gurreri
mi guardava con un vago rimprovero negli occhi, non mi accusava apertamente,
ma certo si chiedeva perché mai portassi regalini a Lina e ai figli
di Giovanna Finocchiaro, perché continuassi a parlare con tutta
quella gente dispersa, il prete operaio, l'ex giudice che aveva calcolato
matematicamente il Prezzo del Progresso stabilendo che era troppo alto
e non andava pagato, il mafioso pentito che con le sue offerte impossibili
da rifiutare aveva semplificato l'operazione "tabula rasa".
Gli avevano contestato quattordici omicidi, ma lui ne aveva dichiarati
quindici. Diceva il verbale: «Ho ammazzato anche Marinina>.
L’ho incontrato in carcere e mi ha dato il nome di un uomo molto potente
al quale girare la domanda che avevo fatto a lui, una sola: perché?
Non avevo paura, anzi attraversavo le mie giornate con la grazia
di chi si sente invulnerabile. Ho chiesto un appuntamento all' onorevole
e l'ho ottenuto. Era un tipo bonario, sguardo paterno, abito costoso molto
classico. Gli ho chiesto di Marina. L’ho sentito ridere. Risposta spiritosa:
«Mai avuto una donna con questo nome».
Non è una donna, Marina. È una terra violata, un tempo
bellissima. Lagune, fenicotteri e polvere d’ambra. Schegge di corallo sparse
tra le dune. Acqua verdeviolazzurra, a seconda dell'umore del cielo, tracine
colorate, salpe, attinie e piantagioni di gorgonie, alghe coda di pavone
e anfore romane forse,piene d'oro pescate a largo di punta Magnisi e leggende
di coccodrilli portati dagli arabi: di fiori come la datura, capaci di
turbare i sensi.
Tutto questo ho potuto soltanto immaginarlo leggendo cronache antiche,
parlando con archeologi e ambientalisti, trovando descrizioni di pesci
che non ci sono più, di stelle marine dalle lunghe braccia sottili
ormai scomparse e di una minuscola lumaca rossa che può vivere soltanto
dove il mare è felice. il 22 maggio 1985, otto,giorni prima di trasferirmi
a Milano, ho promesso a Salvatore Gurreri che sarei tornata e avrei scritto
la sua storia,
che avrei convinto "qualche giornale importante a pubblicarla «in
un modo o nell'altro».
Invece non ce l'ho fatta. Sono tornata tre anni dopo la telefonata
che mi informava della sua morte e non ho quasi riconosciuto la strada,
mi sono persa due volte, sbucando miracolosamente davanti al rudere che
conservava ancora il grido dipinto sulla pietra: "Marina di Melilli, risorgerai".
Non c'era quasi niente, la casa di Conchiglie era stata demolita, il panificio
era chiuso per sempre. Non c'erano neanche nuove industrie.
Una bella strada asfaltata portava alle piattaforme petrolifere
Belleli-Micoperi costruite nel frattempo.
Ogni tanto passava un camion. Ho vagato un po' sulla spiaggia deserta
cercando un punto di riferimento qualsiasi finché il vento non ha
scoperto
un pezzo di pavimento a gigli e foglie e ho rivisto ancora una volta
il percorso dei Giardini Invisibili, la bottega del panettiere con la barca
capovolta davanti al cancello, il viottolo e l'Alfa Romeo verde.
Ho cercato notizie da un sostituto procuratore e ho scoperto che
Salvatore Gurreri è stato ammazzato da due ragazzotti per 300 mila
lire o giù di lì
e forse stava per testimoniare in uno dei tanti processi arrivati
a compimento dopo vent'anni di denunce. Ho sentito parecchi mea culpa con
desiderio di assoluzione da consiglieri comunali e provinciali, associazione
industriali, assessori regionali.
L'ultimo scandalo è di tre mesi fa: inquinamento da mercurio
a Priolo, acqua rossa "dai rubinetti, malattie, catastrofe ambientale.
Buffo, mentre l'industria va in crisi e le ciminiere si spengono, nasce
il progetto di un non meglio identificato "villaggio costiero Marina di
Melilli", come se la storia girasse in tondo e tutto potesse ricominciare
da capo. Invece no. La strada che portava al paese perduto oggi finisce
davanti a una doppia cancellata degna di una vera e propria frontiera.
Off limits.
Il cantiere "Iniziativa Sicilia" ha ingoiato un bel pezzo di spiaggia
rendendo irraggiungibile quel che rimane della villetta di Salvatore Gurreri.
Gli operai guardano con sospettosa curiosità chiunque si avvicini,
anche perché, a parte loro, nessun altro ha un motivo sensato per
lasciare la provinciale e contemplare più da vicino le maestose
gru che dominano la scogliera, nessun altro ha voglia di far domande. Il
futuro è dietro l'angolo, nelle piattaforme petrolifere disegnate
sul mare, poco lontano.
Il passato sbiadisce.
La fortezza dei De Simone è chiaramente abbandonata. Porte
aperte, muri pericolanti, tracce di siringhe. La bella villa con terrazzo
ha le finestre sbarrate da pesanti croci di legno, l'edera si è
infiltrata ovunque. Un' anziana coppia, molto tenera, passa la domenica
nella sola casa rimasta in piedi, quasi sulla spiaggia. La barca è
addormentata in salotto.
Le reti sono impolverate. Esiste un divieto di pesca rigidissimo,
spiega lui, nonostante il mare sia quasi vuoto, perciò la cattura
di una piccola, solitaria spigola può costare multe salatissime.
L'acqua è tornata trasparente, sembra quasi quella di un
tempo, anche se la parola "mercurio" rimbalza da una stanza all'altra nella
Procura di Siracusa, dove si annunciano severe perizie, indagini che finalmente
faranno chiarezza.
Nessun giudice però arriverà mai alla conclusione
di lgnazio La Rocca, maestro elementare in pensione, che per Marina ha
scritto la sua ballata alla maniera dei vecchi cantastorie. Ecco la prima
strofa: «Piangete siciliani, popolo sfortunato / vi racconto la storia
di un paese assassinato / politici e affaristi l'hanno colpito a
morte / piangete siciliani su questa triste sorte / io l'ho
visto ferito, l'ho visto sanguinare / e dalle vene aperte ho visto uscire
il mare / venite ad ascoltarmi, venite qui vicino / che forse tutti insieme
troviamo l'assassino».
Si può trovare chi ha ucciso un paese? Forse si. Ma intanto
i testimoni sono scomparsi.
Non c'è, oltretutto, materiale più deperibile dei
ricordi. È stato inaugurato un depuratore (25 miliardi) e l'estate
scorsa si sono visti ombrelloni e sdraio blu sulla spiaggia. I figli di
Giovanna Finocchiaro sono cresciuti, i figli di Giuseppe Lamina hanno aperto
una carrozzeria a Catania, nessuno ha tenuto da parte i documenti che avrebbero
potuto dimostrare come Marina abbia tentato di opporsi alle ragioni, sicuramente
più forti, del Progresso. Certo, non tutto deve essere per forza
conservato. Sono sparite le orgogliose città della Magna Grecia,
Morgantina, Petroselinon, Eraclea Minoa, figuriamoci se non può
sparire Marina, infinitamente più povera, senza anfiteatri, mosaici
e statue di eroi vittoriosi.
Per questo oggi mi chiedo a chi possa interessare il racconto di
una vita, quella dell'Uomo qualunque Salvatore Gurreri, o di altre vite
a cui il caso
ha imposto di intrecciarsi in un certo momento, in un certo pezzetto
di Sicilia, anche se una di queste è la mia.
E il caso di Marina, indipendentemente dai processi e dalle sentenze
che forse arriveranno, dagli atti riparatori e dai segni di una giustizia
tardiva, rimane per me quasi un fatto privato.Il senso che gli posso restituire,
riavvolto il nastro del tempo per tornare nel presente, di fronte al mio
armadio, accanto al mio computer, è l'unico possibile perché
dipende soltanto da me, il senso di una promessa finalmente mantenuta.
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