Nostra Guantanamo di Lecce: Violenza privata e CPT
Nella serata del 21 novembre 2002 un gruppo di magrebini trattenuti in attesa di espulsione nel Centro di Permanenza Temporanea “Regina Pacis” di San Foca di Melendugno organizzavano e ponevano in essere una fuga saltando da una finestra sita al primo piano dell’edificio.
Parte di essi riusciva a superare la recinzione e a disperdersi nelle campagne circostanti.
Altra parte non riusciva nel suo intento poiché veniva bloccata dal personale militare presente in loco e riportata all’interno.
La motivazione della sentenza emessa dal tribunale di Lecce, contro coloro i quali, nei confronti di persone trattenute nel CPT e perciò sottoposte alla loro autorità o custodia, commisero atti di costrizione illecita, determinati dal solo motivo della violenza, della prevaricazione e dell'umiliazione.
Il giudice di Lecce ha ritenuto responsabili di violenza privata, in concorso con quello di lesioni aggravate da sevizie e crudeltà, il direttore, alcuni operatori di un Centro di Permanenza Temporanea e alcuni carabinieri addetti alla vigilanza sul Centro, per avere deriso e malmenato selvaggiamente alcuni immigrati clandestini, ripresi nel Centro dopo un tentativo di fuga, costringendone inoltre alcuni, con violenze inaudite, a ingurgitare pezzi di carne di maiale cruda, nella piena consapevolezza della fede musulmana di quelle persone e in periodo di Ramadan".

Nella serata del 21 novembre 2002 un gruppo di magrebini trattenuti in attesa di espulsione nel Centro di Permanenza Temporanea “Regina Pacis” di San Foca di Melendugno organizzavano e ponevano in essere una fuga saltando da una finestra sita al primo piano dell’edificio. Parte di essi riusciva a superare la recinzione e a disperdersi nelle campagne circostanti. Altra parte non riusciva nel suo intento poiché veniva bloccata dal personale militare presente in loco e riportata all’interno.

Le scene successive descrivono un clima di grande concitazione e subbuglio per il gran numero di cittadini stranieri che avevano aderito al progetto di fuga e, soprattutto, per le modalità di repressione adottate dal personale dei Carabinieri distaccato presso il Centro e dagli operatori dipendenti dalla fondazione.

La riproduzione processuale degli episodi oggetto di esame non avviene in questo caso attraverso l’ausilio del personale della polizia giudiziaria o di rappresentanti delle forze dell’ordine presenti sul luogo ove i reati sono stati consumati perché, evidentemente, sono stati gli stessi rappresentanti delle forze dell’ordine, chiamati a garantire l’ordine pubblico ed il rispetto della legge, a violare l’obbligo, discendente direttamente dalla legge e loro affidato, della tutela dei diritti dell’individuo e della collettività.

Le deposizioni più significative sono state assunte dal Giudice per le indagini preliminari nel corso dell’incidente probatorio. Sono le dichiarazioni dei cittadini marocchini bloccati al momento della fuga o rintracciati nelle ore e nei giorni successivi.

Una breve considerazione va rivolta alla questione di inutilizzabilità, sollevata dalla Difesa degli imputati carabinieri, relativa ai verbali di incidente probatorio.

Sostiene la Difesa che le persone offese sentite in qualità di testimoni, con tutte le conseguenze sul piano della valutazione della prova, erano suscettibili di sottoposizione ad indagine per fatti connessi a quelli per cui si procede, motivo per cui avrebbero dovuto essere sentiti nel corso dell’incidente probatorio in qualità di persone indagate di reato connesso o collegato ai sensi dell’art. 210 c.p.p.
.......

Sentito nel corso dell’incidente probatorio all’udienza del 3 marzo 2003, Ben Slama Lofti, ospite del centro, ha riferito che stanco dei maltrattamenti subiti, decideva, insieme ad altri ospiti, di fuggire dal centro attraverso la finestra di una stanza del primo piano calandosi dal balcone. Riusciva a superare la recinzione e a disperdersi nelle campagne circostanti. ...

I militari lo costringevano a stendersi sul pavimento iniziando così a colpirlo ai piedi. A quel punto Natasha e Luca partecipavano al pestaggio schiaffeggiandolo al volto – “le forze dell’ordine mi hanno steso a terra e hanno incominciato a colpirmi con il bastone ai piedi e mentre stavo a terra cercavo di coprirmi il viso; subito sono arrivati Luca e Natasha e con la mano mi hanno colpito al viso” (pagina 19 verbale incidente probatorio udienza 3.3.03).

Assisteva alla scena Abedhadi Mohamed, anch’egli rintracciato e ricondotto al centro in mattinata.

Assisteva, peraltro, al pestaggio di altri uomini che avevano tentato la fuga.

Portato in infermeria per i primi soccorsi, chiedeva di essere portato in ospedale, ma si provvedeva a trasferirlo solo molto più tardi.

Nella stessa giornata uno dei carabinieri ivi presenti lo costringeva a mangiare carne di maiale. Riferisce il teste “Si mi hanno costretto a mangiare carne di maiale….. Una delle guardie gli ha detto ‘o mangi questa carne di maiale o ti colpisco’ e io l’ho mangiata”.(pagina 34 verbale incidente probatorio udienza 3.3.03).

In ospedale gli veniva prestata assistenza, ma non riusciva a comprendere la conversazione che intercorreva tra i medici e gli operatori che l’avevano accompagnato poiché non parlavano nella sua lingua.
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Salem Mohamed è stato ascoltato all’udienza del 4 marzo 2003 nel corso dell’incidente probatorio.

Ha riferito che nella serata del 21 novembre 2002, insieme agli altri cittadini stranieri ospitati nel C.T.P., riusciva a fuggire dal Centro saltando dal primo piano dell’edificio e riuscendo a superare la recinzione.

Veniva tuttavia rintracciato nel pomeriggio successivo nei pressi della Questura di Lecce dai carabinieri che lo facevano salire in macchina e lo conducevano in una “casa” dove “in una stanza piccola – riferisce – mi hanno chiuso a chiave per mezz’ora”.

Successivamente veniva riportato da due militari al Centro dove veniva accolto da uno schiaffo di Dokaj Paulin. Un militare si avvicinava portando in mano un involucro di carta stagnola ove riusciva a vedere un pezzo di carne cruda.

Questa la diretta descrizione di Salem: “…poi l’ha aperta lui perché stava dentro la carta stagnola, ha tirato una cosa da dentro e mi ha detto ‘guarda questa cosa’ e mi ha detto ‘questa la devi mangiare sennò ti ammazziamo’. Gli ho detto ‘io sono musulmano, non mangio il maiale’. Mi ha colpito con il manganello a questa parte, alla parte destra e alla parte sinistra del piede, delle gambe, mi ha fatto togliere i pantaloni perché ero anche bagnato, c’era il fango e i pantaloni…sono rimasto con i pantaloncini, con la mutanda vestito io. Dopo mi hanno fatto sdraiare sulla spalla, sulla schiena, uno mi ha preso e mi ha bloccato di questa…ha messo il ginocchio sopra la mano, e un altro mi ha bloccato l’altro braccio e quello che teneva la carne in mano si è seduto sopra di me così ed ho cercato di tirare il braccio per bloccare, per chiudere la bocca; mi ha dato un pugno alla mano e poi mi ha colpito e poi mi ha colpito col manganello che mi ha fatto male, ancora non riesco ad aprirlo completamente, e poi ha cercato di aprire, è riuscito ad aprire con la forza la bocca stringendola”.
.....

Deli Mohamed è stato escusso nel corso dell’incidente probatorio all’udienza del 4 marzo 2003.

Ha riferito di aver tentato la fuga insieme agli altri ospiti del Centro. Riusciva a superare la recinzione e a dileguarsi insieme ad un altro ospite del C.T.P. chiamato Lesmi Habib.

Il mattino seguente veniva rintracciato da Dokaj Paulin accompagnato da due carabinieri in borghese.

Alla vista dell’auto condotta dal Dokaj tentava di fuggire, ma i militari, impugnando una pistola gli intimavano l’ALT. Temendo la reazione armata si fermava. Uno dei carabinieri lo colpiva alla nuca con il calcio della pistola; sopraggiungevano Paolo e l’altro militare che continuavano a picchiarlo.

Stessa sorte toccava al suo compagno Lesmi che veniva picchiato sul viso. I due venivano così ammanettati, caricati sull’auto e riportati al Centro. Venivano percossi anche nel corso del tragitto di ritorno.

Appena giunti al Centro venivano accolti dal Direttore che apriva lo sportello della macchina e schiaffeggiava entrambi, colpendo Deli sul naso. Veniva trascinato sulla terra bagnata fino all’ingresso dell’edificio. All’interno veniva ancora picchiato
...

Successivamente un militare in divisa lo costringeva con la forza ad ingoiare carne di maiale cruda deridendolo per la fede musulmana e per il divieto imposto nel periodo del Ramadan.
.....

Tutto il racconto di Souiden Montassar è lucido e raccapricciante. Questi alcuni passaggi significativi: “… ci hanno bloccato i carabinieri e poi ci hanno portato nel corridoio vicino alla direzione. Dopodiché è arrivato il direttore, mi ha preso dal ciuffo dei capelli davanti e mi ha sbattuto due volte sul muro la testa di dietro; dopo mi ha girato e mi ha preso dalla parte da dietro e mi ha sbattuto la faccia al muro, dalla parte della sopracciglia qui e mi ha fatto una ferita, una grossa ferita qui alla sopracciglia. … Dopodiché mi ha rigirato e ha preso il manganello dei carabinieri e mi ha preso dal ciuffo dei capelli davanti e mi ha colpito col manganello sulle labbra, alla bocca, dove mi ha procurato una ferita che è visibile ancora. Poi mi ha colpito due denti superiori. … Dopodiché lui insieme a Luca e Natasha, insieme a don Cesare mi hanno cominciato a colpire sul viso.

… Appena entrato ho visto Mohamed Abedhadi e Paolo e Natasha lo picchiavano. Gli altri stavano messi stesi a terra, c’erano dei carabinieri e i carabinieri quando passavano davano dei calci agli altri.
… c’erano i carabinieri che hanno picchiato gli altri, anzi chiunque che passava di lì, carabinieri o uno che lavorava al Centro davano botte, era un gioco”.

....

In questo clima si inserisce la vicenda relativa al cosiddetto “foglio delle firme” che, con metodi ai limiti del raggiro, venne diffuso tra gli ospiti del Centro con la finalità di raccogliere, anche in modo abbastanza approssimativo, l’adesione ad una dichiarazione di dubbia natura e certamente non compresa dai cittadini marocchini trattenuti.

Il foglio, che sembra indirizzato all’Ufficio Immigrazione della Questura di Lecce, datato 21 dicembre 2002, contiene il seguente testo:

“In qualità di Direttore di questo CPTA, comunico che i cittadini sottoelencati chiedono di rimanere presto questa struttura di accoglienza, nonostante che l’autorità giudiziaria abbia stabilito per il loro trasferimento ad altra struttura, in attesa di essere ascoltati dall’Autorità di Polizia.

Gli stessi sono stati informati dal loro legale Avv. Petrelli.

Nello stesso tempo l’attività di mediazione e traduzione è stata condotta da un loro traduttore di fiducia, Makram Nemili, e dal traduttore di questo CTPA Taha Mustafa”.

Il testo è seguito dai nomi dei cittadini marocchini denuncianti e dalle rispettive sottoscrizioni.

Lo stesso foglio è accompagnato da altro foglio riportante le medesime sottoscrizioni e, nella prima parte, una scritta in lingua araba composta di due righi ed una parte cancellata.

In primis, è inverosimile che un testo così lungo nella lingua italiana possa essere tradotto in lingua araba e constare di due soli righi. Inoltre non si comprende quale possa essere stata la finalità del Direttore nel redigere la richiesta in nome e per conto dei denuncianti.

Sorge una serie di dubbi in ordine alla intenzione apparente di chi ritenuto di rivolgere all’Ufficio Immigrazione una richiesta di tal fatta il giorno immediatamente precedente all’espletamento dell’attività di indagine, consistente nell’ascolto dei denuncianti, delegata dal Pubblico Ministero procedente (l’ascolto, infatti, avvenne nella giornata di domenica 22 dicembre 2002).

I dubbi si fanno più folti se si ha riguardo alle dichiarazioni rese dalle persone offese, in qualità di testimoni, in relazione al su riportato “foglio delle firme”.

Quel che appare con certezza è che i cittadini marocchini firmatari non avevano compreso affatto il contenuto del testo che sono stati invitati a sottoscrivere. Del resto la semplice considerazione che i firmatari si sono trovati di fronte ad una traduzione assolutamente non esaustiva sul foglio allegato ed alla “mediazione” dei traduttori Makram e Taha, persone integrate nella struttura organizzativa del C.T.P., già induce a ritenere che la vicenda abbia tratti decisamente oscuri.

Ma la lettura delle dichiarazioni testimoniali offre un quadro sufficientemente preciso della reale finalità dell’iniziativa del direttore.

Così Salem Mohamed riferisce al Giudice per le indagini preliminari nel corso dell’incidente probatorio: “dieci giorni prima della nostra uscita dal Centro è venuto Mustafà, l’iracheno, verso le 9 e mezzo, le dieci di notte … e ci ha detto: ‘voi dovete ritirare la denuncia perché perdita di tempo per voi, perdete tempo perché qua il direttore è italiano e ha poteri e conosce le persone che contano, ha dei poteri, non ottenete nulla’ e io gli ho detto che noi vogliamo i nostri diritti … E tutti hanno rifiutato di fare la rinuncia alla querela, alla denuncia. Dopo è venuto un’altra volta, due o tre volte e noi abbiamo sempre detto di no. Dopodiché siamo scesi sotto … è arrivato Mustafà e ha chiesto ‘Chi è arrivato al Centro il 24 ottobre?’ e ci ha detto: ‘Voi che siete arrivati il 24 per poter uscire dovete firmare questa carta’, c’era uno che sapeva leggere l’italiano e gli ha detto: ‘Fammela leggere’ e gli ha detto di no, ha rifiutato di darla a lui per farla leggere e gli ha detto: ‘Queste sono cose che non ti riguardano, non la puoi leggere tu’ e poi abbiamo firmato questa carta”.
 

M o t i v a z i o n e
1. Svolgimento del processo
Con decreto del Giudice dell'udienza preliminare in data 23 gennaio 2004 veniva disposto il giudizio nei confronti di Lodeserto Cesare, Lodeserto Giuseppe, Vieru Natalia, Dokaj Paulin, Gozlugol Husevin, Mara Armando, Sen Ramazan, D’Ambrosio Francesco, Alberga Vito, Casafina Antonio, Ottomano Vito, Coscia Michele, Mele Vito, D’Epiro Alessandro, Blasi Francesco, Di Pierro Mario, Fumarola Giovanni, Roberti Giovanni e Cazzato Anna Catia per rispondere dei reati rispettivamente ascritti in epigrafe.
All’udienza del 13 maggio 2004 il Giudice verificava la regolare costituzione delle parti e decideva con ordinanza sulle
questioni preliminari sollevate. All’esito dichiarava aperto il dibattimento.
All’udienza del 26 ottobre 2004, a causa dello sciopero proclamato dagli operatori addetti alla fonoregistrazione ed
alla redazione in forma stenotipica del verbale, su richiesta delle parti e nell’impossibilità di procedere a verbalizzazione
riassuntiva avuto riguardo alla particolare complessità dell’istruttoria, veniva disposto in differimento del dibattimento.
Alla successiva udienza del 13 dicembre 2004 le parti avanzavano le rispettive richieste di prova che il Giudice ammetteva a norma dell’art. 495 c.p.p.. Veniva espletata l’istruttoria dibattimentale con l’escussione dei testi:
· Scalese Maurizio, maresciallo dei carabinieri in servizio presso la sezione di polizia giudiziaria in sede (pg. 39);
· Doria Salvatore, maresciallo capo in servizio, all’epoca dei fatti, presso il Comando provinciale dei Carabinieri di Lecce
(pg. 53); 
· Souiden Montassar, persona offesa, con l’ausilio dell’interprete di lingua araba El Boury Sanaa (pg. 112);
· Taha Mustafa, con l’ausilio dell’interprete Saida Arfaoui (pg. 132);
· Filieri Antonio, maresciallo in servizio presso il Comando
provinciale dei carabinieri di Lecce (pg. 258); 
· Refolo Francesco, medico in servizio, all’epoca dei fatti,presso il presidio sanitario del Centro Regina Pacis (pg. 271);
· Ruggeri Oreste, medico in servizio, all’epoca dei fatti, presso il presidio sanitario del Centro Regina Pacis (pg. 334);
· Turco Luigi, medico in servizio presso l’ospedale “Vito Fazzi” di Lecce (pg. 354);
· Ricci Mario, medico in servizio presso l’ospedale “Vito Fazzi” di Lecce (pg. 367);
· Antonaci Antonio, medico in servizio, all’epoca dei fatti, presso il presidio sanitario del Centro Regina Pacis (pg. 389).
All’udienza del 24 febbraio 2005 l’assenza del teste Pinca, in assenza di altri testimoni, rendeva necessario il rinvio.
All’udienza del 14 aprile 2005 venivano sentiti i testi:
· Pinca Giuseppe, maggiore dei Carabinieri, all’epoca dei fatti comandante del Nucleo Operativo del Comando Provinciale di
Lecce (pg. 12);
pag. 1
· Antonaci Antonio, medico in servizio all’epoca dei fatti  presso il presidio sanitario del Centro Regina Pacis (pg. 89);
· Martina Marcello, Comandante della Stazione Carabinieri di Melendugno (pg. 100);
· Dinoia Mario (pg. 145),
· Serafino Leonardo (pg. 177),
· Parini Mario (pg. 194),
· Natale Rinaldo (pg. 210),
· Iacobino Gianluca (pg. 229),
· Esposito Francesco Ciro (pg. 242),
· Zotti Gaetano (pg. 258),
tutti carabinieri in servizio presso l’XI Battaglione Puglia distaccati presso il Centro Regina Pacis.
Successivamente, all’udienza del 24 maggio 2005 l’imputato Lodeserto Cesare si sottoponeva all’esame (pg. 5). Per tutti gli
altri imputati, dei quali era stato chiesto l’esame dal Pubblico Ministero, si era già provveduto alla acquisizione ai sensi
dell’art. 513 c.p.p., dei verbali di interrogatorio.
Venivano, all’esito, sentiti:
· dott. Simonetti Nicola, consulente tecnico nominato dalla Difesa degli imputati Cazzato e Roberti (pg. 114);
· Polito Mario, maggiore dei Carabinieri, comandante della Compagnia di Lecce (pg. 139);
· Yaco Amiel Daniel, operatore del Centro (pg. 148);
· Schifa Vincenzo, agente di Polizia assegnato al servizio di scorta di Lodeserto Cesare (pg. 165);
· Doria Luca, agente di Polizia assegnato al servizio di scorta di Lodeserto Cesare (pg. 172).
Alla successiva udienza del 6 giugno 2005 proseguiva l’istruttoria dibattimentale con l’esame dei testi:
· Mohamed Elshazzlly Mohamed Hamdi, operatore addetto alla cucina del Centro (pg. 4 e 73);
· Dell’Aera Oronzo, agente di Polizia assegnato al servizio di scorta di Lodeserto Cesare (pg. 17);
· Lauriero Filippo, carabiniere in servizio presso l’XI Battaglione Puglia distaccato presso il Centro Regina Pacis;
· Ardito Giuseppe (pg. 43)
· Ardito Raffaella (pg. 55).
All’udienza del 20 giugno 2005 veniva sentito il teste Addante Michele, carabiniere in servizio presso l’XI Battaglione Puglia distaccato presso il Centro.
L’istruttoria si concludeva all’udienza del 4 luglio 2005 con l’esame dei residui testi di Difesa: Castro Giuseppe (pg. 4), Labartino Domenico (pg. 19), Zotti Gaetano (pg. 24) e Petitto Fabio (pg. 33), tutti carabinieri dell’XI Battaglione Puglia distaccati presso il Centro Regina Pacis.
A seguito delle dichiarazioni spontanee dell’imputato Ottomano, dichiarata la conclusione dell’istruttoria e l’utilizzabilità degli atti acquisiti al fascicolo per il dibattimento, il Pubblico Ministero rassegnava le proprie conclusioni.
La discussione richiedeva più udienze avuto riguardo ai numerosi imputati ed ai rispettivi Difensori.
All’esito della camera di consiglio, il Giudice pronunciava dispositivo di sentenza dandone integrale lettura e riservando i motivi.
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2. Motivi della decisione
L’istruttoria dibattimentale ha consentito di accertare la
penale responsabilità degli imputati, fatta eccezione per i
carabinieri D’Epiro, Blasi e Casafina, in ordine ai fatti di
violenza privata e lesioni aggravate, così diversamente
qualificati i fatti contestati in rubrica. Si è ritenuta,
inoltre, la responsabilità dei medici Cazzato e Roberti per il
reato di falso. Non è provata, invece, la condotta di concorso
nel falso degli imputati Lodeserto Cesare e Giuseppe.
La vicenda, ampiamente descritta nell’articolato capo di
imputazione, è stata riproposta minuziosamente
nell’anticipazione istruttoria dell’incidente probatorio e
ulteriormente approfondita nella complessa attività
dibattimentale registrata dai numerosi e voluminosi verbali di
udienza.
Nella serata del 21 novembre 2002 un gruppo di magrebini
trattenuti in attesa di espulsione nel Centro di Permanenza
Temporanea “Regina Pacis” di San Foca di Melendugno
organizzavano e ponevano in essere una fuga saltando da una
finestra sita al primo piano dell’edificio. Parte di essi
riusciva a superare la recinzione e a disperdersi nelle campagne
circostanti. Altra parte non riusciva nel suo intento poiché
veniva bloccata dal personale militare presente in loco e
riportata all’interno.
Le scene successive descrivono un clima di grande
concitazione e subbuglio per il gran numero di cittadini
stranieri che avevano aderito al progetto di fuga e,
soprattutto, per le modalità di repressione adottate dal
personale dei Carabinieri distaccato presso il Centro e dagli
operatori dipendenti dalla fondazione.
La riproduzione processuale degli episodi oggetto di esame
non avviene in questo caso attraverso l’ausilio del personale
della polizia giudiziaria o di rappresentanti delle forze
dell’ordine presenti sul luogo ove i reati sono stati consumati
perché, evidentemente, sono stati gli stessi rappresentanti
delle forze dell’ordine, chiamati a garantire l’ordine pubblico
ed il rispetto della legge, a violare l’obbligo, discendente
direttamente dalla legge e loro affidato, della tutela dei
diritti dell’individuo e della collettività.
Le deposizioni più significative sono state assunte dal
Giudice per le indagini preliminari nel corso dell’incidente
probatorio. Sono le dichiarazioni dei cittadini marocchini
bloccati al momento della fuga o rintracciati nelle ore e nei
giorni successivi.
Una breve considerazione va rivolta alla questione di
inutilizzabilità, sollevata dalla Difesa degli imputati
carabinieri, relativa ai verbali di incidente probatorio.
Sostiene la Difesa che le persone offese sentite in qualità
di testimoni, con tutte le conseguenze sul piano della
valutazione della prova, erano suscettibili di sottoposizione ad
indagine per fatti connessi a quelli per cui si procede, motivo
per cui avrebbero dovuto essere sentiti nel corso dell’incidente
probatorio in qualità di persone indagate di reato connesso o
collegato ai sensi dell’art. 210 c.p.p.
La questione non è meritevole di accoglimento.
Invero, le uniche persone offese per cui vi era stata
iscrizione al registro degli indagati, per aver declinato false
generalità, sono state effettivamente ascoltate dal Giudice per
le indagini preliminari con le modalità previste dal codice di
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rito per gli indagati di reato connesso o collegato ai sensi
dell’art. 210 c.p.p.
Deve aggiungersi, peraltro, che le dichiarazioni di Agrebi e
Aidi, indagati per il reato di cui all’art. 496 c.p., non sono
state tenute in considerazione ai fini della decisione di
colpevolezza; infatti, tutte le condotte illecite che, in base
all’imputazione, sarebbero state subite da Agrebi e Aidi sono
state ritenute insussistenti. La inattendibilità delle
rispettive deposizioni discende dalla circostanza della assenza
di Dokaj e del direttore nel C.T.P. al momento dei fatti. La
documentazione prodotta dai difensori dei predetti imputati fa
ritenere che entrambi non si trovassero in Italia, come
attestato dai timbri apposti sui rispettivi passaporti.
Medesima valutazione di inattendibilità deve essere operata
in relazione alla deposizione di Haddaji Mohamed il quale
riferisce di non essere riuscito a fuggire. In realtà l’analisi
della documentazione prodotta dal Pubblico Ministero attesta non
solo che la fuga è stata in effetti posta in essere, ma anche
che il cittadino marocchino è stato rintracciato solo in data 24
novembre 2002. La circostanza è incompatibile con quanto
riferito dal teste.
Tanto premesso, per tutti gli altri testimoni, persone
offese, non si comprende quale possa essere il profilo di
responsabilità per cui avrebbero dovuto essere indagati,
all’inizio o successivamente. In ogni caso, in assenza di
qualsivoglia iscrizione al registro degli indagati, deve
concludersi per la assoluta regolarità dell’assunzione della
testimonianza e, di conseguenza, per la piena utilizzabilità dei
contenuti.
Superata la questione processuale e ritornando ai fatti
oggetto del procedimento sembra opportuno e necessario
ripercorrere le deposizioni delle persone offese al fine di
ricostruire dettagliatamente gli avvenimenti della notte tra il
21 e il 22 novembre 2002 e dei giorni successivi.
Deve premettersi che nella esposizione dei motivi si
utilizzeranno talvolta espressioni quali “Regina Pacis” o C.T.P.
o Centro per intendere “Centro di permanenza temporanea Regina
Pacis” o gli pseudonimi, poiché comunemente utilizzati dai
testimoni, “Natasha” per indicare Vieru Natalia, “Luca” per
indicare Lodeserto Giuseppe, “Paolo” per indicare Dokaj Paulin o
le denominazioni “don Cesare” o “direttore” per indicare
Lodeserto Cesare.
Il racconto di Ben Slama Lofti
Sentito nel corso dell’incidente probatorio all’udienza del
3 marzo 2003, Ben Slama Lofti, ospite del centro, ha riferito
che stanco dei maltrattamenti subiti, decideva, insieme ad altri
ospiti, di fuggire dal centro attraverso la finestra di una
stanza del primo piano calandosi dal balcone. Riusciva a
superare la recinzione e a disperdersi nelle campagne
circostanti.
Rintracciato, tuttavia, nelle prime ore del mattino del
giorno seguente (ore 8.30 secondo gli atti ufficiali), veniva
ricondotto nel centro dove veniva portato nel corridoio degli
uffici e piantonato da due “guardie” – l’interprete precisa che
il corrispondente termine in arabo utilizzato dal teste indica
in quella lingua la persona appartenente alle forze dell’ordine
– che ripetutamente lo colpivano con un manganello.
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Assistevano alla scena la Vieru, Lodeserto Giuseppe (detto
Luca) e don Cesare il quale successivamente si allontanava
entrando nel proprio ufficio nello stesso corridoio.
I militari lo costringevano a stendersi sul pavimento
iniziando così a colpirlo ai piedi. A quel punto Natasha e Luca
partecipavano al pestaggio schiaffeggiandolo al volto – “le
forze dell’ordine mi hanno steso a terra e hanno incominciato a
colpirmi con il bastone ai piedi e mentre stavo a terra cercavo
di coprirmi il viso; subito sono arrivati Luca e Natasha e con
la mano mi hanno colpito al viso” (pagina 19 verbale incidente
probatorio udienza 3.3.03).
Assisteva alla scena Abedhadi Mohamed, anch’egli
rintracciato e ricondotto al centro in mattinata.
Assisteva, peraltro, al pestaggio di altri uomini che
avevano tentato la fuga.
Portato in infermeria per i primi soccorsi, chiedeva di
essere portato in ospedale, ma si provvedeva a trasferirlo solo
molto più tardi.
Nella stessa giornata uno dei carabinieri ivi presenti lo
costringeva a mangiare carne di maiale. Riferisce il teste “Si
mi hanno costretto a mangiare carne di maiale….. Una delle
guardie gli ha detto ‘o mangi questa carne di maiale o ti
colpisco’ e io l’ho mangiata”.(pagina 34 verbale incidente
probatorio udienza 3.3.03).
In ospedale gli veniva prestata assistenza, ma non riusciva
a comprendere la conversazione che intercorreva tra i medici e
gli operatori che l’avevano accompagnato poiché non parlavano
nella sua lingua.
Nel corso dell’esame fornisce differenti indicazioni sulla
cadenza temporale degli accadimenti. Nello specifico, modifica
gli orari in sede di controesame dell’avv. Pallara riferendo i
dettagli temporali in modo più rispondente alla realtà. La
differente indicazione non ha evidentemente alcuna incidenza
sulla attendibilità del suo racconto né sulla veridicità dei
fatti narrati; è pienamente comprensibile lo sfasamento se si
considera che si è visto costretto a vagare per tutta la notte,
che è stato catturato intorno alle 8.30 del mattino a qualche
ora, quindi dal sorgere del sole, ed è stato ripetutamente
picchiato, tanto da riportare lesioni consistenti, regolarmente
refertate, e abbandonato per ore prima di essere soccorso nei
modi più opportuni. Non si può affermare che una persona offesa
nel corpo e nell’animo abbia l’accortezza di controllare la
cadenza temporale di quanto accade.
Il racconto di Salem Mohamed
Salem Mohamed è stato ascoltato all’udienza del 4 marzo 2003
nel corso dell’incidente probatorio.
Ha riferito che nella serata del 21 novembre 2002, insieme
agli altri cittadini stranieri ospitati nel C.T.P., riusciva a
fuggire dal Centro saltando dal primo piano dell’edificio e
riuscendo a superare la recinzione.
Veniva tuttavia rintracciato nel pomeriggio successivo nei
pressi della Questura di Lecce dai carabinieri che lo facevano
salire in macchina e lo conducevano in una “casa” dove “in una
stanza piccola – riferisce – mi hanno chiuso a chiave per
mezz’ora”.
Successivamente veniva riportato da due militari al Centro
dove veniva accolto da uno schiaffo di Dokaj Paulin. Un militare
si avvicinava portando in mano un involucro di carta stagnola
ove riusciva a vedere un pezzo di carne cruda.
pag. 5
Questa la diretta descrizione di Salem: “…poi l’ha aperta
lui perché stava dentro la carta stagnola, ha tirato una cosa da
dentro e mi ha detto ‘guarda questa cosa’ e mi ha detto ‘questa
la devi mangiare sennò ti ammazziamo’. Gli ho detto ‘io sono
musulmano, non mangio il maiale’. Mi ha colpito con il
manganello a questa parte, alla parte destra e alla parte
sinistra del piede, delle gambe, mi ha fatto togliere i
pantaloni perché ero anche bagnato, c’era il fango e i
pantaloni…sono rimasto con i pantaloncini, con la mutanda
vestito io. Dopo mi hanno fatto sdraiare sulla spalla, sulla
schiena, uno mi ha preso e mi ha bloccato di questa…ha messo il
ginocchio sopra la mano, e un altro mi ha bloccato l’altro
braccio e quello che teneva la carne in mano si è seduto sopra
di me così ed ho cercato di tirare il braccio per bloccare, per
chiudere la bocca; mi ha dato un pugno alla mano e poi mi ha
colpito e poi mi ha colpito col manganello che mi ha fatto male,
ancora non riesco ad aprirlo completamente, e poi ha cercato di
aprire, è riuscito ad aprire con la forza la bocca
stringendola”.
Alla scena assistevano don Cesare (“è entrato il direttore e
mentre ci aveva la mano in tasca così sorrideva, rideva e mi ha
detto ‘bene, va bene così’ e ha sputato verso di me, mi ha
sputato”) che, tuttavia, non interveniva e la Vieru che gli
rivolgeva offese ripetendogli la frase “dove sta Allah che ti
salva e ti protegge adesso?”.
Dopo la descritta aggressione si appoggiava con la spalla al
muro antistante la porta dell’ufficio della direzione
sopraggiungevano “Luca” Lodeserto e Gozlugol Husevin che lo
percuotevano.
Nella tarda serata riusciva a farsi visitare dal medico del
Centro che gli somministrava un antidolorifico.
Dopo nove giorni veniva nuovamente visitato dal medico e,
solo dopo molte insistenze, veniva portato in ospedale dove,
tuttavia, non veniva curato per assenza dello specialista
ortopedico.
Il racconto di Deli Mohamed
Deli Mohamed è stato escusso nel corso dell’incidente
probatorio all’udienza del 4 marzo 2003.
Ha riferito di aver tentato la fuga insieme agli altri
ospiti del Centro. Riusciva a superare la recinzione e a
dileguarsi insieme ad un altro ospite del C.T.P. chiamato Lesmi
Habib.
Il mattino seguente veniva rintracciato da Dokaj Paulin
accompagnato da due carabinieri in borghese.
Alla vista dell’auto condotta dal Dokaj tentava di fuggire,
ma i militari, impugnando una pistola gli intimavano l’ALT.
Temendo la reazione armata si fermava. Uno dei carabinieri lo
colpiva alla nuca con il calcio della pistola; sopraggiungevano
Paolo e l’altro militare che continuavano a picchiarlo.
Stessa sorte toccava al suo compagno Lesmi che veniva
picchiato sul viso. I due venivano così ammanettati, caricati
sull’auto e riportati al Centro. Venivano percossi anche nel
corso del tragitto di ritorno.
Appena giunti al Centro venivano accolti dal Direttore che
apriva lo sportello della macchina e schiaffeggiava entrambi,
colpendo Deli sul naso. Veniva trascinato sulla terra bagnata
fino all’ingresso dell’edificio. All’interno veniva ancora
picchiato alla presenza di Don Cesare, Lodeserto Giuseppe e la
Vieru.
pag. 6
Successivamente un militare in divisa lo costringeva con la
forza ad ingoiare carne di maiale cruda deridendolo per la fede
musulmana e per il divieto imposto nel periodo del Ramadan.
Così Deli descrive l’accaduto: “poi un carabiniere se n’è
andato e ha portato un pezzo di carne di maiale, a me mi hanno
preso in quattro persone e mi hanno fatto ingoiare la carne di
maiale con la forza e ridendo in modo un po’ ridicolo nei
confronti della religione e nel mese di decorrenza del Ramadan
che era in quel momento, il mese del digiuno musulmano … Era
carne cruda, non è cotta. … Mi hanno preso due dai piedi, mi
hanno bloccato i piedi, uno mi ha bloccato dal torace e le
braccia, un altro mi ha costretto di aprire la bocca con la
forza e mi ha infilato il pezzo di carne tenendo anche il
manganello in mano. … Prima me l’ha messa vicino la bocca ma
rifiutai di ingoiarla e poi mi ha messo il manganello e me l’ha
infilata con la forza” (dei militari presenti nel corso
dell’incidente probatorio riconosce con certezza i carabinieri
D’Epiro, Di Pierro e Fumarola. È incerto sull’immagine di Blasi
e non riconosce Alberga Vito).
Tutta la scena si svolgeva dinanzi al Direttore, a Dokaj,
Luca e Natasha i quali, non solo rimanevano inerti dinanzi alle
violenze perpetrate, ma ridevano.
Rimaneva nel corridoio degli uffici ancora per tre ore e
subiva le percosse di Luca e Natasha. Solo don Cesare non
proseguiva nelle violenze e gli dava una bottiglia di acqua.
Solo due giorni dopo veniva visitato dal medico del Centro
il quale gli somministrava un farmaco non meglio precisato.
Il racconto di Benshine Mohamed
Benshine Mohamed è stato escusso all’udienza del 19 marzo
2003 nel corso dell’incidente probatorio.
Ha riferito di essere fuggito dal Centro insieme agli altri
ospiti del Centro ed, in particolare, in compagnia di Louro
Anis.
Le modalità di fuga sono simili a quelle riferite dagli
altri testi: riferisce di aver scavalcato il balcone del primo
piano e di essere saltato sulla vettura parcheggiata sotto il
balcone per poi proseguire superando il recinto e dileguarsi.
Nel salto, al contrario del suo compagno, non riportava
alcuna lesione.
Nonostante il riuscito tentativo di fuga, veniva, insieme al
Louro, rintracciato nella serata successiva intorno alle ore
21.00.
Riportato al centro, riceveva all’arrivo un schiaffo da
parte di don Cesare Lodeserto.
Sopraggiungevano Vieru, Dokaj, Sen Ramazan e Mara Armando.
Natasha lo colpiva con uno sputo, mentre Dokaj gli strappava
i vestiti.
Al pestaggio si univano i carabinieri D’Ambrosio Francesco e
Ottomano Vito.
L’identificazione certa deriva dal riconoscimento effettuato
in sede di incidente probatorio.
Benshine è sicuro nel riconoscere in D’Ambrosio il militare
che l’aveva costretto ad ingoiare carne di maiale e in Ottomano
colui che l’aveva ripetutamente picchiato.
All’esito del pestaggio veniva lasciato nel corridoio, senza
abiti, ammanettato con numerose ferite e lividi sul volto, sulle
gambe e sulla schiena.
pag. 7
Solo il giorno successivo veniva condotto dal medico del
centro per le medicazioni, senza, tuttavia, spiegargli come si
era provocato le lesioni.
Il racconto di Louro Anis
Louro Anis è stato escusso nel corso dell’udienza di
incidente probatorio del 19 marzo 2003.
Ha riferito di essere fuggito dal centro insieme a Benshine
Mohamed con le modalità riferite da quest’ultimo e che
lanciandosi dal primo piano riportava una slogatura al piede
destro.
Nella serata del 22 novembre (alle ore 21 secondo gli atti
ufficiali) veniva rintracciato insieme al Benshine dai militari
in borghese.
Ricondotto nel centro, veniva picchiato alle gambe da due
carabinieri in divisa armati di un manganello; riferisce “poi mi
hanno tirato per il collo” mentre un altro militare assisteva
alla scena ridendo. Entrava in scena don Cesare che, prendendolo
per il cappuccio, lo spingeva verso il muro.
Il carabiniere D’Ambrosio (riconoscimento effettuato con
sicurezza nel corso dell’incidente probatorio) si allontanava
verso la cucina e tornava con due pezzi di carne cruda che lo
costringeva a ingoiare usando il manganello (“ha preso il pezzo
di carne di maiale e mi ha messo il braccio sotto al mento e mi
ha spinto in modo di alzare la testa e mi ha infilato la carne
di maiale in bocca. Poi ha preso il manganello che lo teneva
lungo la gamba, io ho cercato di fare resistenza, di non
ingoiare la cosa e con il manganello mi ha spinto il pezzo di
carne in bocca. … La bocca mi faceva male, soprattutto questa
parte e i denti, i denti mi facevano male anche da prima e
quando mi hanno spinto la carne così mi hanno fatto ancora più
male”) mentre Ottomano lo picchiava con un calcio alla schiena
(“l’altro carabiniere camminava così, passava davanti a me, si è
girato e mi ha dato un colpo in girata coi piedi sulla schiena,
sono caduto per terra e l’altro mi ha preso e mi ha sollevato e
mi ha messo in piedi”).
Assistevano alla scena anche i carabinieri Coscia e Mele i
quali, pur non picchiandolo, tuttavia non intervenivano in alcun
modo.
Alla scena era presente anche Sen Ramazan ed un altro arabo
(“l’egiziano”) di nome Mohamed che forniva la carne di maiale al
D’Ambrosio.
Condotto dal medico del Centro, gli chiedeva di essere
portato in ospedale, ricevendo, tuttavia, un netto rifiuto.
Il racconto di Souiden Montassar
Souiden Montassar è stato escusso nel corso dell’incidente
probatorio all’udienza del 19 marzo 2003.
Ha raccontato di essersi lanciato dal primo piano del
Centro, ma di essere stato subito intercettato e bloccato dai
Carabinieri che lo riconducevano all’interno del corridoio degli
uffici.
Lì don Cesare lo prendeva per i capelli sbattendogli
ripetutamente la testa contro il muro. Continuava a picchiarlo
con un manganello dei carabinieri colpendolo sulla bocca e
rompendogli i denti. Si univano al pestaggio Luca e Natasha
colpendolo sul viso e sulle gambe. Dopo l’ennesimo colpo sul
viso da parte di don Cesare sveniva dal dolore.
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Assistevano alla scena Jdidi Faker, altri connazionali
indicati con i nomi di Sami e Ridha e Abedhadi Mohamed, il cui
racconto coincide con quello di Souiden.
Assisteva alle percosse da parte di Dokaj, Vieru e dei
militari ai danni degli altri ospiti catturati che giacevano nel
corridoio.
Tutto il racconto di Souiden Montassar è lucido e
raccapricciante. Questi alcuni passaggi significativi: “… ci
hanno bloccato i carabinieri e poi ci hanno portato nel
corridoio vicino alla direzione. Dopodiché è arrivato il
direttore, mi ha preso dal ciuffo dei capelli davanti e mi ha
sbattuto due volte sul muro la testa di dietro; dopo mi ha
girato e mi ha preso dalla parte da dietro e mi ha sbattuto la
faccia al muro, dalla parte della sopracciglia qui e mi ha fatto
una ferita, una grossa ferita qui alla sopracciglia. … Dopodiché
mi ha rigirato e ha preso il manganello dei carabinieri e mi ha
preso dal ciuffo dei capelli davanti e mi ha colpito col
manganello sulle labbra, alla bocca, dove mi ha procurato una
ferita che è visibile ancora. Poi mi ha colpito due denti
superiori. … Dopodiché lui insieme a Luca e Natasha, insieme a
don Cesare mi hanno cominciato a colpire sul viso.
… Appena entrato ho visto Mohamed Abedhadi e Paolo e Natasha
lo picchiavano. Gli altri stavano messi stesi a terra, c’erano
dei carabinieri e i carabinieri quando passavano davano dei
calci agli altri.
… c’erano i carabinieri che hanno picchiato gli altri, anzi
chiunque che passava di lì, carabinieri o uno che lavorava al
Centro davano botte, era un gioco”.
Dopo l’intervento del medico del centro veniva disposto il
ricovero in ospedale dove, parlando in francese, spiegava al
medico di guardia quanto gli era accaduto.
Durante la notte, per paura di essere riportato nel Centro,
fuggiva dal nosocomio e riusciva a raggiungere la stazione
ferroviaria dove saliva a bordo del treno diretto a Bari.
La fuga cessava poiché veniva riconosciuto dal personale
della Polizia ferroviaria e condotto presso gli uffici della
Questura di Bari dove nella tarda serata del 22 novembre veniva
ripreso dal Dokaj accompagnato dal cuoco del Centro, tale
Mohamed.
Ricondotto al Regina Pacis alcuni carabinieri continuavano a
picchiarlo. Stesse violenze erano perpetrate da Luca (Lodeserto
Giuseppe). La scena si consumava nel corridoio degli uffici
dinanzi alla stanza del Direttore il quale assisteva alle
percosse senza, tuttavia, intervenire.
Il racconto fornito nel corso dell’incidente probatorio
viene approfondito e puntualizzato in sede dibattimentale
all’udienza del 13 dicembre 2004.
In quella circostanza riferisce di essere stato condotto in
ospedale nella notte della fuga, ove gli veniva somministrata
una medicazione con punti di sutura sul sopracciglio, sulla
bocca e sul mento.
Non ricorda con esattezza gli orari, ma precisa anche di
aver perso conoscenza. Era accompagnato da due operatori del
Centro; ricorda solo il nome di Ibrahim, ma non dell’altro uomo.
Ha riferito di aver detto al medico del Pronto Soccorso di
chiamarsi Montassar Souiden; riferisce anche di aver scritto il
nome su foglietto, poiché era difficile per il medico la
comprensione del nome arabo, non essendo munito del tesserino di
riconoscimento in quel momento.
pag. 9
Riferisce che durante la notte fuggiva dall’ospedale per
recarsi a Bari dove, tuttavia, veniva riconosciuto e catturato.
Il racconto di Abedhadi Mohamed
Abedhadi Mohamed è stato sentito nel corso dell’incidente
probatorio all’udienza del 19 marzo 2003.
Anch’egli aveva deciso nella notte del 22 novembre 2002 di
tentare la fuga dal C.T.P., ma, dopo aver superato con un salto
il balcone del primo piano dell’edificio, veniva bloccato da un
militare il quale lo colpiva alle gambe. Sopraggiungevano
Natasha e Paolo; la prima lo colpiva con un calcio allo stomaco.
Veniva poi trascinato nel corridoio degli uffici dove il
pestaggio proseguiva. In particolare ricorda i colpi della Vieru
sul naso e sotto l’occhio (“Mi ha colpito Natasha nell’atrio,
nel cortile davanti, mi ha colpito nello stomaco, con il piede
mi ha dato un calcio allo stomaco. Dopo mi hanno preso Natasha e
Paolo e mi hanno portato vicino all’ufficio nel corridoio e
mentre mi portavano verso il corridoio hanno continuato anche a
picchiarmi sia Paolo che Natasha”).
Il racconto prosegue con altri dettagli dell’episodio che
coinvolgeva anche altri connazionali dell’Abedhadi: egli ricorda
la presenza nel corridoio di due ospiti tunisini Gedidi Fracher
e Ridha – non ricorda il nome completo – i quali venivano
picchiati dai carabinieri e dallo stesso Direttore con un
manganello.
Anche Abedhadi riferisce di essere stato costretto con
violenza dal carabiniere D’Ambrosio (riconosciuto con certezza
in sede di incidente probatorio) a mangiare carne di maiale
cruda. Si riporta di seguito il passaggio del verbale di
udienza: “è entrato in cucina, ha portato un piattino dove c’era
della carne … Dopo si è seduto sulla pancia mi ha aperto la
bocca stringendo con le mani sulla guancia poi mi ha messo un
pezzetto di carne in bocca e poi con il manganello ha spinto in
modo che la ingoiavo”. Alla scena era presente la Vieru che
incitava l’azione del carabiniere deridendo l’aggredito con
parole di scherno per la sua religione musulmana.
Nonostante le gravi violenze subite veniva lasciato sul
pavimento del corridoio per molte ore e riceveva solo due
interventi del medico di turno che gli somministrava un farmaco
antidolorifico.
Attendibilità delle persone offese
I racconti sopra riportati offrono uno spaccato della notte
e dei giorni successivi alla fuga intrapresa dagli ospiti del
centro e lasciano trasparire con evidenza l’orrore e la violenza
che si sono scatenati in quei momenti così concitati.
Le scene descritte, attutite nella loro gravità dal tempo
trascorso e dalla difficoltà di comprensione e di espressione
delle persone straniere sentite, offrono, in ogni caso,
un’immagine nitida del clima di violenza e prevaricazione da
parte di soggetti che, pur dovendo fronteggiare una situazione
improvvisa di emergenza, hanno comunque tenuto comportamenti non
solo offensivi e violenti nei confronti di persone inermi, ma
anche altamente lesivi della dignità umana, esclusivamente
punitivi e sorretti da motivazioni abiette e del tutto futili e,
sicuramente, scollegati rispetto alla finalità propria
dell’intervento di operatori e militari che avrebbero dovuto
limitarsi ad impedire la fuga, finalità perseguibile
semplicemente riportando i fuggitivi nel C.T.P. senza adottare
le sevizie e le violenze in effetti poste in essere.
pag. 10
Il racconto drammatico delle persone ascoltate, fatta
eccezione per le deposizioni dei testi Aidi, Haddaji e Agrebi
per i motivi già indicati, appare sicuramente attendibile.
Occorre premettere preliminarmente, per quanto attiene
alle dichiarazioni testimoniali delle persone offese, che non si
riscontra normativamente alcuna incompatibilità delle stesse ad
assumere l’ufficio di testimone, pertanto il valore probatorio
della deposizione è elevato.
Le ipotesi di incompatibilità tassativamente previste da
codice di rito attengono tutte a posizioni soggettive
evidentemente portatrici di un interesse a nascondere la verità
dei fatti, più che ad affermarla, poiché affermarla potrebbe
comportare un peggioramento della propria posizione. E’ chiaro
che l’interesse a mentire contrasta con la necessaria posizione
di terzietà e di fides che è tipica del teste; ma nell’ipotesi
qui considerata, le parti offese sono portatrici di un unico
interesse: la punizione dell’autore del fatto verificatosi a suo
danno; strumentale, pertanto, è l’interesse a riferire la verità
dei fatti, sì da perseguire l’intento di giustizia. Del resto la
giurisprudenza, più volte intervenuta sul punto, ammette
ampiamente la possibilità di fondare il giudizio di
responsabilità penale sulla deposizione della parte lesa,
talvolta anche in assenza di altre fonti di prova.
E’ altrettanto chiaro, tuttavia, che, atteso il personale
coinvolgimento nella vicenda delle vittime, la valutazione dei
contenuti delle deposizioni deve essere attenta e prudente, nel
senso che il vaglio del giudicante deve sicuramente avere
riguardo ai generali criteri di verifica tipici delle
dichiarazioni testimoniali, ma, in più, deve spingersi su un
piano di rigore maggiore accertando la presenza di riscontri
intrinseci che offrano alle deposizioni un elevato grado di
verosimiglianza e, quindi, di credibilità oggettiva e
soggettiva.
Le persone offese in questo procedimento hanno fornito un
resoconto dello svolgimento dei fatti molto dettagliato, privo
di contraddizioni e illogicità, sì da conferire oggettivamente
credibilità al suo contenuto. Credibilità intrinseca che
comunque ha ricevuto conferma e maggiore valenza probatoria
anche attraverso ulteriori riscontri forniti da altre fonti di
prova.
Le difese hanno sottolineato che i racconti delle vittime
non possono essere ritenuti attendibili poiché in sede di esame
hanno notevolmente infarcito la versione già fornita all’atto
della denuncia.
In realtà, pur senza considerare che al di là della
enunciazione della questione alcuna contestazione ai sensi
dell’art. 500 c.p.p. è stata mai effettuata in sede di esame,
gli ascolti effettuati nel corso dell’incidente probatorio sono
stati le uniche occasioni per i cittadini marocchini oggi
persone offese di spiegare e chiarire tutti i passaggi della
vicenda ed i particolari degli episodi dei quali sono stati
vittime. Lo svolgimento dell’esame al cospetto dell’autorità
giudiziaria, con l’ausilio alla memoria delle domande rivolte
dal Pubblico Ministero e dai difensori, la presenza di un
interprete imparziale nominato dal Tribunale sono evidentemente
garanzia della corretta assunzione di informazioni, oltre che le
uniche modalità adeguate al fine di consentire ad una persona
che non comprende la lingua italiana, finalmente estrapolata da
una realtà restrittiva, quale è quella del trattenimento in un
centro di permanenza temporanea, e libera dai condizionamenti e
pag. 11
dalle più o meno velate minacce da parte degli operatori del
centro di spiegare compiutamente quanto accaduto a suo danno.
È emerso con chiarezza nel corso di tutto il dibattimento
che le persone ospiti nel centro subivano un generale stato di
soggezione nei riguardi dell’autorità rappresentata dalla figura
del direttore e di coloro, militari e operatori, ai quali erano
demandati poteri di controllo e vigilanza. Tutto ciò pur senza
avere riguardo alla condizione, sicuramente non agevole e
umanamente dignitosa, nella quale versavano le persone
trattenute.
Essi, colpiti da un provvedimento di espulsione, erano senza
dubbio immigrati clandestini introdottisi illegalmente nel
territorio dello Stato, ma, fino a prova contraria, non per ciò
solo delinquenti pericolosi da arginare con azioni violente o da
ritenere sicuramente mendaci. Né può sollevarsi la generica
obiezione, peraltro tipica dei procedimenti che vedono vittime
soggetti stranieri privi di permesso di soggiorno, che le
persone offese avessero interesse a mentire in funzione della
finalità di rimanere sul territorio italiano anche a costo di
ordire un macchinoso disegno collettivo calunnioso. Sono il
numero cospicuo di deposizioni, la concordanza, pur nella totale
autonomia e diversità, dei racconti, l’evidente autenticità
delle versioni dei fatti fornite a smentire con forza la
enunciata obiezione.
E, tuttavia, quel che rileva, al fine di valutare le
rispettive dichiarazioni, con particolare riguardo alla
sottolineata discordanza con quanto esposto in denuncia, è la
condizione personale sul piano soggettivo, genericamente
disagevole, ed oggettivo, sicuramente concitata e ostile, che
può averli indotti ad una querela sommaria e poco approfondita,
confidando, evidentemente, nella possibilità di chiarire
successivamente, anche attraverso l’ausilio della difesa
tecnica, i dettagli delle violenze subite.
Alcune persone offese hanno riferito nel corso dell’esame di
essere stati oggetto di pressioni di vario genere sia per
desistere dall’azione che per modificare o edulcorare la reale
versione dei fatti.
Tra questi Benshine Mohamed, Delhi Mohamed e Louro Anis
parlano chiaramente di trattamento di favore loro riservato al
fine di indurli a rimettere la querela consistito in fornitura
più frequente di schede telefoniche e sigarette, talvolta con
richieste esplicite, talaltra con velati e minacciosi
riferimenti alla conseguente impossibilità di lasciare il centro
per lungo tempo.
In questo clima si inserisce la vicenda relativa al
cosiddetto “foglio delle firme” che, con metodi ai limiti del
raggiro, venne diffuso tra gli ospiti del Centro con la finalità
di raccogliere, anche in modo abbastanza approssimativo,
l’adesione ad una dichiarazione di dubbia natura e certamente
non compresa dai cittadini marocchini trattenuti.
Il foglio, che sembra indirizzato all’Ufficio Immigrazione
della Questura di Lecce, datato 21 dicembre 2002, contiene il
seguente testo:
“In qualità di Direttore di questo CPTA, comunico che i
cittadini sottoelencati chiedono di rimanere presto questa
struttura di accoglienza, nonostante che l’autorità giudiziaria
abbia stabilito per il loro trasferimento ad altra struttura, in
attesa di essere ascoltati dall’Autorità di Polizia.
Gli stessi sono stati informati dal loro legale Avv.
Petrelli.
pag. 12
Nello stesso tempo l’attività di mediazione e traduzione è
stata condotta da un loro traduttore di fiducia, Makram Nemili,
e dal traduttore di questo CTPA Taha Mustafa”.
Il testo è seguito dai nomi dei cittadini marocchini
denuncianti e dalle rispettive sottoscrizioni.
Lo stesso foglio è accompagnato da altro foglio riportante
le medesime sottoscrizioni e, nella prima parte, una scritta in
lingua araba composta di due righi ed una parte cancellata.
In primis, è inverosimile che un testo così lungo nella
lingua italiana possa essere tradotto in lingua araba e constare
di due soli righi. Inoltre non si comprende quale possa essere
stata la finalità del Direttore nel redigere la richiesta in
nome e per conto dei denuncianti.
Sorge una serie di dubbi in ordine alla intenzione apparente
di chi ritenuto di rivolgere all’Ufficio Immigrazione una
richiesta di tal fatta il giorno immediatamente precedente
all’espletamento dell’attività di indagine, consistente
nell’ascolto dei denuncianti, delegata dal Pubblico Ministero
procedente (l’ascolto, infatti, avvenne nella giornata di
domenica 22 dicembre 2002).
I dubbi si fanno più folti se si ha riguardo alle
dichiarazioni rese dalle persone offese, in qualità di
testimoni, in relazione al su riportato “foglio delle firme”.
Quel che appare con certezza è che i cittadini marocchini
firmatari non avevano compreso affatto il contenuto del testo
che sono stati invitati a sottoscrivere. Del resto la semplice
considerazione che i firmatari si sono trovati di fronte ad una
traduzione assolutamente non esaustiva sul foglio allegato ed
alla “mediazione” dei traduttori Makram e Taha, persone
integrate nella struttura organizzativa del C.T.P., già induce a
ritenere che la vicenda abbia tratti decisamente oscuri.
Ma la lettura delle dichiarazioni testimoniali offre un
quadro sufficientemente preciso della reale finalità
dell’iniziativa del direttore.
Così Salem Mohamed riferisce al Giudice per le indagini
preliminari nel corso dell’incidente probatorio: “dieci giorni
prima della nostra uscita dal Centro è venuto Mustafà,
l’iracheno, verso le 9 e mezzo, le dieci di notte … e ci ha
detto: ‘voi dovete ritirare la denuncia perché perdita di tempo
per voi, perdete tempo perché qua il direttore è italiano e ha
poteri e conosce le persone che contano, ha dei poteri, non
ottenete nulla’ e io gli ho detto che noi vogliamo i nostri
diritti … E tutti hanno rifiutato di fare la rinuncia alla
querela, alla denuncia. Dopo è venuto un’altra volta, due o tre
volte e noi abbiamo sempre detto di no. Dopodiché siamo scesi
sotto … è arrivato Mustafà e ha chiesto ‘Chi è arrivato al
Centro il 24 ottobre?’ e ci ha detto: ‘Voi che siete arrivati il
24 per poter uscire dovete firmare questa carta’, c’era uno che
sapeva leggere l’italiano e gli ha detto: ‘Fammela leggere’ e
gli ha detto di no, ha rifiutato di darla a lui per farla
leggere e gli ha detto: ‘Queste sono cose che non ti riguardano,
non la puoi leggere tu’ e poi abbiamo firmato questa carta”.
Già la lettura di questa dichiarazione lascia chiaramente
intendere che non fosse affatto chiaro ai firmatari – e
sicuramente a Salem – il contenuto di ciò che stavano
sottoscrivendo, oltre che l’attività di “mediazione” non fosse
certo chiarificatrice sul punto.
Le altre dichiarazioni rappresentano la medesima situazione
di confusione e di alterata rappresentazione della realtà.
pag. 13
Benshine Mohamed racconta di aver firmato il foglio per
poter lasciare il C.T.P. Gli era stato spiegato, riferisce, che
l’unico modo per lasciare il Centro consisteva nel apporre la
propria firma. Medesima spiegazione gli veniva fornita, in tono
più minaccioso, da don Cesare che, addirittura, gli aveva
intimato di rimettere la querela se non avesse voluto restare
ristretto nel centro per mesi.
Deli Mohamed, dopo aver raccontato nel corso della sua
deposizione che aveva subito esplicite pressioni da parte del
direttore che gli chiedeva di rinunciare all’azione penale
regalandogli nell’occasione sigarette e schede telefoniche,
affronta il tema del “foglio delle firme” chiarendo che Mustafà
– verosimilmente Taha Mustafà – gli aveva chiesto di
sottoscrivere il foglio in cambio della promessa di lasciare il
C.T.P..
Dello stesso tenore le dichiarazioni di Souiden Montassar:
anche quest’ultimo aveva compreso che la sottoscrizione
comportasse la possibilità di lasciare il Centro. Aggiunge,
inoltre, di aver ricevuto da don Cesare la richiesta di non
essere coinvolto nella denuncia. Queste le parole di Souiden:
“E’ venuto il Direttore da noi sopra e ha chiamato la gente e
gli ha detto: ‘io non vi ha colpito, i Carabinieri sono che vi
hanno colpito! Se volete fare la denuncia fatela ai
Carabinieri’, sono entrato io e gli ho detto: ‘questa chi me
l’ha procurata?’ e ha continuato a parlare con uno che parlava
l’italiano là e gli ha detto di comunicarlo, io la mando anche
ad un medico privato alla mia spesa e gli aggiusto anche tutti i
denti. Questo è successo”.
Louro Anis ha riferito di conoscere il “foglio” che gli è
stato mostrato nel corso dell’esame chiarendo che non aveva
voluto sottoscriverlo nel dicembre 2002 poiché non era sicuro
del contenuto del testo e nel timore che comportasse una
rinuncia all’azione penale intrapresa con la denuncia.
È lo stesso Taha Mustafà a confermare nel corso della sua
deposizione in dibattimento la versione fornita dalle persone
offese. Egli chiarisce che era stato detto ai firmatari che se
avessero apposto la propria sottoscrizione avrebbero potuto
lasciare il Centro. Ne è certo poiché era stato incaricato di
far circolare il foglio tra gli ospiti denuncianti.
Dunque, è assolutamente evidente che era stato ordito un
raggiro, o almeno un’opera tesa a confondere le idee, al fine di
indurre una errata rappresentazione della realtà in modo da
convincere le persone lese a desistere da qualsiasi intento
punitivo al fine di evitare la prosecuzione delle indagini.
È chiaro che la situazione di confusione generalizzata non
poteva che produrre l’effetto di paralizzare la volontà dei
cittadini stranieri che non solo non hanno reso una querela
dettagliata, ma hanno unanimemente manifestato la volontà di
rimettere le rispettive querele al momento in cui nel corso
della domenica 22 dicembre 2002 sono stati sentiti dalla polizia
giudiziaria delegata al fine di assumere le informazioni ai
sensi dell’art. 351 c.p.p..
Pertanto, il clima di generale intimidazione non poteva
agevolare il corretto esercizio del diritto di querela che,
invece, risultava ingabbiato in maglie strette con la
conseguenza che le prime esposizioni dei fatti sono state rese
in modo stringato e appena accennato.
Tanto premesso, l’attendibilità intrinseca delle deposizioni
è desumibile dagli stessi racconti delle persone offese, non
pag. 14
inficiati nella loro logicità dal vaglio dell’esame incrociato
cui sono stati sottoposti.
Ci si riferisce agli elementi di dubbio introdotti dalle
difese degli imputati nel corso del controesame e ribaditi in
sede di discussione.
Il principio che le difese hanno voluto far emergere
consiste nella semplice teoria secondo cui se alcuni degli
imputati non erano presenti al momento dei fatti, come riferiti,
evidentemente i fatti medesimi non si sono verificati, poiché
l’intero corpo di alcune deposizioni si regge su presupposti di
fatto non rispondenti al vero.
In realtà la sottolineata falsità del presupposto non si
riscontra dall’attenta lettura delle dichiarazioni, unitamente
agli altri elementi di prova.
Con riferimento alla deposizione di Ben Slama Lofti si è
sostenuto che la dichiarazione non potesse essere attendibile
nella parte in cui il teste riferisce di essere stato percosso
da Vieru Natalia poiché quest’ultima alle ore 11.30 del 22
novembre 2002 si è presentata presso gli uffici della Procura
della Repubblica di Lecce per essere sentita, nell’ambito di
altro procedimento, dal Pubblico Ministero dott. Tramis.
In realtà, non si rinviene alcuna incongruenza tra il dato
oggettivo della presenza negli uffici della Procura della Vieru
e la riferita presenza della stessa presso il C.T.P. all’ora del
pestaggio subito dal Ben Slama Lofti. Risulta, infatti, dagli
atti redatti dai militari impegnati nel rintracciare i
fuggitivi, che il cittadino marocchino Ben Slama veniva
riportato al Regina Pacis alle ore 8.30 del 22 novembre. Il
teste riferisce che le violenze a suo danno hanno avuto inizio
già al momento del rientro nel centro – l’apparente incongruenza
in ordine agli orari riferiti è già stata chiarita nella parte
della motivazione dedicata al racconto di Ben Slama – e si sono
protratte per un tempo non specificato.
È altamente verosimile, pertanto, che le violenze perpetrate
dalla Vieru, unitamente ai militari, a Lodeserto Giuseppe e
Lodeserto Cesare, si siano consumate dall’ora del rientro per un
tempo di una o due ore al massimo.
L’affermazione è confortata dalla annotazione del dott.
Antonaci, medico di turno nel centro nella mattinata del 22
novembre, nel registro degli interventi sanitari dal quale si
desume che già prima delle ore 12.00 il medico aveva visitato
Ben Slama disponendo che fossero effettuati esami radiografici e
visita ortopedica.
Dal racconto del teste si comprende senza dubbio che
l’intervento del medico è stato successivo alle percosse subite.
Dunque, è verosimile e logico ritenere che la Vieru almeno
sino alle ore 10.30 del mattino del 22 novembre si trovasse
all’interno del C.T.P. dal quale si è sicuramente allontanata
per essere alle ore 11.30 presso il Palazzo di Giustizia, avuto
riguardo alla distanza di pochi chilometri intercorrente tra la
località di San Foca e la città di Lecce.
All’inconsistenza dell’alibi – nel senso della perfetta
conciliabilità dell’impegno in Procura con la permanenza nel
centro nelle prime ore del mattino – fornito dalla Vieru si
uniscono le dichiarazioni testimoniali di Deli Mohamed e di
Khaifa Kamel, i quali confermano la versione dei fatti fornita
da Ben Slama.
Khaifa Kamel è stato ascoltato all’udienza del 3 marzo 2003
nel corso dell’incidente probatorio.
pag. 15
Ha riferito di non aver tentato la fuga dal centro nella
serata del 21 novembre 2002 poiché era ammalato per cui era
stato costretto a letto.
Si era accorto, tuttavia, che era in corso una fuga per il
trambusto e i colpi d’arma da fuoco che si udivano.
Dopo circa un’ora tutti gli ospiti venivano portati nella
sala cinema al fine di verificare le effettive presenze e
individuare i nomi dei fuggitivi.
Un militare lo costringeva a scendere nonostante non fosse
vestito percuotendolo.
Nell’occasione aveva modo di assistere all’aggressione
subita da Camissa Amid, da Ben Slama Lofti e da Souiden
Montassar. Mentre scendeva nella sala cinema si accorgeva di
persone ferite, sanguinanti. Vedeva anche don Cesare con un
manganello in mano.
Analoga ipotesi di dubbio è stata introdotta dalla Difesa
con riferimento alla deposizione di Benshine Mohamed.
Come si è già detto, egli riferisce che al suo arrivo nel
centro era presente Dokaj Paulin che, peraltro, gli aveva
strappato i vestiti di dosso.
Risulta documentalmente che Dokaj alle ore 23 della stessa
sera si trovava nella città di Bari per recuperare Souiden
Montassar fermato dalla Polizia ferroviaria.
Le difese hanno sostenuto la inverosimiglianza della
versione del Benshine poiché, a loro dire, Dokaj non poteva
essere contemporaneamente in due luoghi diversi.
In realtà si ritiene che il racconto del teste sia non solo
attendibile, ma perfettamente compatibile con gli orari
risultanti dagli atti.
In un momento così frenetico in cui militari e operatori si
muovevano così rapidamente entrando e uscendo dalla struttura
continuamente al fine di rintracciare i fuggitivi, non appare
affatto inverosimile che Dokaj alle ore 21 fosse nel centro di
San Foca e dopo due ore, alle 23.00 fosse a Bari, considerando
una distanza di circa 150 km intercorrenti tra Bari e San Foca,
percorribili, anche ad una velocità media al di sotto dei limiti
consentiti di 90 Kmh, in meno di due ore.
In proposito, anche la dichiarazione di Mohamed Elshazzlly,
richiesta in sede di prova dalla Difesa per avvalorare l’ipotesi
di incompatibilità degli orari, non ha fornito elementi utili al
tentativo difensivo poiché il teste proprio con riferimento agli
orari è stato particolarmente confuso e incerto.
Dunque, anche la circostanza oggettiva della presenza
del Dokaj a Bari non vale, per i motivi esposti, ad inficiare la
credibilità della deposizione di Benshine.
Anche con riferimento al racconto di Louro Anis la Difesa di
Lodeserto Cesare ha sollevato il dubbio della incompatibilità
tra quanto dichiarato dal teste e la realtà oggettiva che vedeva
don Cesare impegnato a Trepuzzi, nella sede dell’ex Frantoio
D’Agostino, quale relatore nell’ambito del convegno intitolato
“Immigrati e Comunità Cristiana: Regina Pacis” programmato per
le ore 18.00 del 22 novembre 2002.
Del resto, anche il tentativo della Difesa di minare la
compatibilità temporale e, dunque, l’attendibilità del Louro è
stato infruttuoso.
Invero, i testi Schifa e Dell’Aera, agenti di Polizia
assegnati al servizio di scorta a don Cesare Lodeserto, hanno
reso in proposito dichiarazioni contrastanti.
Il primo, molto più credibile del secondo, ha riferito di
aver accompagnato il sacerdote a Trepuzzi per il convegno
pag. 16
precisando, tuttavia, di non essere in grado di ricordare con
certezza la scansione temporale degli avvenimenti del pomeriggio
dal momento che erano passati quasi tre anni dall’episodio, che
non era stata redatta alcuna relazione né fogli di servizio e
che spesso effettuava il servizio di scorta. Ha saputo,
comunque, riferire che il turno si protraeva sicuramente dalle
ore 17.00 alle 23.00, che era andato all’inizio del turno a
prelevare il Lodeserto dal Centro e che l’aveva accompagnato a
Trepuzzi dove aveva atteso, insieme alla scorta, per almeno
un’ora per poi fare ritorno a San Foca. Ha chiarito che il tempo
di percorrenza dal Centro a Trepuzzi si attestava in circa
trenta minuti e che probabilmente in quella serata tutti gli
uomini di scorta erano rientrati prima della fine del turno in
Questura, avendo terminato il servizio.
Il teste Dell’Aere, in modo abbastanza inverosimile avuto
riguardo al lungo tempo trascorso, ha ricordato orari scanditi
al minuto e che il convegno era iniziato intorno alle ore 20.00
e che, pertanto aveva riaccompagnato don Cesare presso il Centro
intorno alle ore 22.30.
Anche Dell’Aere ha tenuto a precisare che svolgeva con molta
frequenza il servizio di scorta al sacerdote e che, pur non
redigendo in quella occasione alcun rapporto, era certo degli
orari riferiti poiché, in modo che oggi appare singolare, aveva
proprio nella stessa occasione preso appunti in modo autonomo,
appunti, tuttavia, mai messi a disposizione del Tribunale.
La scarsa coincidenza tra le due deposizioni, pertanto, fa
ritenere che la versione dello Schifa sia maggiormente aderente
alla realtà dei fatti e che, pertanto, tenuto conto dell’unico
documento valido prodotto dalla Difesa, attestante lo
svolgimento del convegno a partire dalle ore 18.00 del 22
novembre 2002, è altamente probabile che il Lodeserto dopo le
ore 20.30 fosse già rientrato a san Foca.
In realtà Louro Anis veniva rintracciato solo alle ore 21.00
del 22 novembre, ben tre ore dopo l’inizio del convegno citato.
È verosimile ritenere che dal momento in cui è stato
rintracciato a quello in cui è stato riportato al centro sia
passato un tempo congruo. Peraltro, nella descrizione di fatti
fornita dal Louro, la presenza del direttore è registrata solo
in momento successivo, dopo aver subito la prima aggressione da
parte dei militari di stanza al C.T.P..
Anche in questo caso, dunque, vi è perfetta compatibilità
temporale tra la partecipazione del Lodeserto al convegno in
Trepuzzi ed al pestaggio ai danni del marocchino, avvenuto con
alto grado di probabilità, solo dopo le ore 21.30 di quella
sera. Tutto ciò anche senza voler considerare che la versione
del Louro è ampiamente confermata da quella resa dal teste
Benshine nel corso del suo esame.
La versione fornita dalle persone offese, dunque, è
ampiamente corroborata da elementi esterni che si rinvengono nei
contenuti delle dichiarazioni di altre persone offese, nelle
indicazioni degli altri testimoni, nella documentazione medica e
nella logica elaborazione dei dati oggettivi e di tutte le
emergenze istruttorie.
Gli apporti probatori diversi dalle dichiarazioni delle
persone offese sono numerosi.
Importante la deposizione di Mohamed Elshazzlly, operatore
del Centro addetto alla cucina.
Egli, citato quale teste dalla Difesa di Lodeserto Cesare,
ha iniziato la sua deposizione con un non richiesto
ringraziamento rivolto a don Cesare per l’aiuto fornitogli al
pag. 17
fine di regolarizzare la propria posizione di immigrato
clandestino. Nel corso di tutto l’esame ha genericamente escluso
la figura del direttore da ogni coinvolgimento nelle vicende per
cui è processo e, al contempo, ha fornito numerosi riscontri
alle deposizioni delle persone offese.
È stato molto preciso nel ricordare episodi di pestaggi ai
danni di ospiti del Centro, pur non riferendone i nomi, ed, in
particolare, l’aggressione rivolta dai carabinieri a Louro Anis.
Racconta in proposito che nella serata in cui Louro veniva
riportato al C.T.P. i carabinieri – tra i quali riconosce con
sicurezza D’Ambrosio – lo picchiavano con un manganello sulla
testa e sui genitali e lo costringevano ad ingoiare un pezzo di
prosciutto che proprio il D’Ambrosio aveva preso dalla cucina.
Quest’ultimo in quella sera si era recato nei locali della
cucina dove con il consenso di “Luca” Lodeserto si faceva
consegnare dal cuoco un pezzo di prosciutto. Mohamed Elshazzlly,
ritenendo che il carabiniere volesse prepararsi un panino e
preso atto del consenso di Luca, gli consegnava quanto
richiesto, rimanendo, tuttavia, perplesso del fatto che il
militare non avesse preso insieme al prosciutto anche il pane.
Uscito dalla cucina il carabiniere, dalla fessura della
porta rimasta semichiusa assisteva al doloroso spettacolo che
vedeva il Louro vittima delle percosse anzidette e costretto a
mangiare il pezzo di prosciutto.
Elshazzlly assisteva anche alle percosse ad opera di
militari ai danni di Soiuden Montassar e, quando faceva rilevare
alla Vieru quel che stava subendo il cittadino marocchino,
veniva perentoriamente zittito.
Forniscono riscontro alle dichiarazioni delle persone offese
anche le deposizioni del dott. Francesco Refolo, medico in
servizio presso il presidio sanitario del C.T.P., e del dott.
Luigi Turco, in servizio presso il Pronto Soccorso dell’Ospedale
“Vito Fazzi”.
Il dott. Refolo, di turno nella notte tra il 21 e 22
novembre 2002, ricorda di essere stato chiamato dai Carabinieri
intorno alle ore 12.25 della notte poiché a seguito di un
tentativo fuga alcuni ospiti avevano riportato lesioni.
Recatosi nel corridoio degli uffici soccorreva quattro
uomini feriti, uno dei quali particolarmente grave (ferita nella
zona orbitaria) per il quale disponeva il ricovero in ospedale,
rappresentando direttamente al Direttore la necessità del
ricovero.
Somministrava terapie antidolorifiche.
Non conosceva i loro nomi. Si doveva avvalere
necessariamente dei tesserini per redigere i certificati.
Infatti, precisa, tutti gli ospiti che si rivolgevano
all’infermeria venivano identificati con un numero.
Consultando la documentazione sanitaria, riferisce che i
feriti erano Souiden Montassar, Camissa Amid, Jacobi Ridha e
Abedadi Mohamed.
Nel corso della notte, intorno alle ore 4.00 del mattino,
nuovamente chiamato, soccorreva Jedidi Feker, anch’egli giacente
sul pavimento del corridoio. Gli somministrava una terapia
antinfiammatoria poiché era dolorante e giaceva in posizione
rannicchiata. Aveva riportato fratture scapolo-omerale e radioulnale.
Ricorda che i primi 4 feriti erano stati lasciati nel
corridoio almeno per due ore.
Come tutti gli altri medici in servizio presso il Regina
Pacis, sentiti in dibattimento, non fornisce spiegazioni in
pag. 18
ordine alla genesi delle lesioni rilevate. Sicuramente,
contrariamente al dott. Oreste Ruggeri, non afferma che le
lesioni sono sicuramente conseguenza della caduta, ma si limita
a spiegare tecnicamente gli interventi effettuati.
Il dott. Ruggeri, invece, nella confusione dei ricordi
riesce solo a riferire al Tribunale fatti non definiti a lui
noti perché raccontatigli da altri soggetti non meglio
identificati. È appena più preciso solo sulla medicazione
somministrata al cittadino marocchino Salem Mohamed, rilevata
peraltro dal registro degli interventi, del quale ricorda
lesioni, non meglio specificate, a suo dire “compatibili con la
caduta” dalla balconata dell’edificio.
Rilevante, al contrario, la deposizione del dott. Luigi
Turco, apparsa particolarmente genuina. Egli, in servizio nel
nosocomio di Lecce il giorno del ricovero di Souiden Montassar,
ricorda il momento in cui veniva portato al Pronto Soccorso
l’ospite del C.T.P. accompagnato da due persone di cui,
tuttavia, non riesce a precisare il nome (la circostanza è
comunque nota in base alle altre emergenze dibattimentali).
Riferisce che Souiden, il cui nome era stato erroneamente
annotato in cartella dall’infermiere addetto all’accoglienza ed
al triage (rilevazione delle condizioni del paziente e prima
valutazione in termini di gravità della patologia), non riusciva
ad esprimersi nella lingua italiana per cui ogni informazione
sulla causa delle lesioni gli veniva fornita dagli
accompagnatori.
Rilevante il brano della sua deposizione laddove ricorda al
Tribunale il momento in cui chiedeva agli accompagnatori la
genesi delle lesioni riportate da Souiden: questi ultimi
individuavano la causa nella caduta dalla balconata del Centro
nel corso di una fuga e contemporaneamente il paziente,
evidentemente comprendendo il tenore della conversazione,
muoveva la mano con il gesto che usualmente viene utilizzato per
intendere percosse (“botte” riferisce il teste).
È chiaro, dunque, che Souiden cercava, pur nelle precarie
condizioni in cui era stato condotto in ospedale, di spiegare
con il mezzo gestuale, non riuscendo ad esprimersi nella lingua
italiana, quanto gli fosse accaduto.
Il dott. Turco, inoltre, chiarisce le circostanze che hanno
portato a registrare nella cartella clinica le generalità di
Deli Mohamed, persona diversa dall’uomo effettivamente
ricoverato, situazione poi definitivamente chiarita attraverso
l’individuazione fotografica effettuata dal medico in data 23
gennaio 2003 dinanzi ai carabinieri del Comando provinciale di
Lecce (il dott. Turco riconosce senza dubbio l’uomo ricoverato
nell’effige ritraente Souiden Montassar).
Nel corso dell’istruttoria era stato ingenerato il dubbio
che Souiden avesse volontariamente indotto in errore i medici
del pronto soccorso al fine di celare la sua vera identità. Ciò,
oltre che sembrare inverosimile, è smentito dai fatti.
Souiden viene condotto in ospedale con numerose ferite sul
volto, dolori in altre parti del corpo ed un evidente trauma
cranico. Non è in grado di esprimersi nella lingua italiana al
punto che il medico deve necessariamente rivolgersi agli
accompagnatori, operatori del C.T.P., per apprendere le notizie
necessarie a determinare l’anamnesi e a formulare la diagnosi.
Appare evidente che il ferito non fosse stato proprio in grado
di comunicare né con l’infermiere dell’accettazione, né con il
medico, al quale per esprimere il suo dissenso sulla versione
fornita dagli accompagnatori si era visto costretto ad avvalersi
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del linguaggio gestuale. A ciò va aggiunto, riferisce il dott.
Turco, che nella generalità dei casi l’identificazione dei
pazienti provenienti dal Regina Pacis avveniva attraverso il
tesserino di riconoscimento e attraverso la voce degli stessi
accompagnatori.
Per giunta è decisamente illogico e inverosimile che Souiden
in quella situazione di indiscutibile sofferenza abbia
addirittura avuto la prontezza di riflessi di fornire le
generalità di altra persona complete delle indicazioni esatte di
luogo e data di nascita.
È, invece, sicuramente più verosimile che gli stessi
accompagnatori abbiano, per errore incolpevole o per motivi non
conoscibili, utilizzato il tesserino di altro ospite del Centro.
La responsabilità dei militari
I testimoni sentiti nell’incidente probatorio e nel
dibattimento hanno descritto con chiarezza e con dovizia di
particolari le condotte dei rispettivi aggressori, civili e
militari.
La descrizione delle condotte è stata già ampiamente
riportata nella parte della motivazione relativa ai racconti
delle persone offese.
In questa sezione si affronterà specificamente l’aspetto
relativo alle individuazioni fotografiche ed alla ricognizione
di persona effettuata nel corso dell’incidente probatorio, a
completamento delle deposizioni già analizzate.
Nel corso delle indagini preliminari ad Abedhadi, Benshine e
Deli viene mostrato un album fotografico composto da 150
fotografie ritraenti i carabinieri in servizio nella provincia
di Lecce e quelli in servizio presso l’XI Battaglione Puglia di
stanza al C.T.P. “Regina Pacis” nei giorni oggetto di
imputazione.
Il maresciallo Doria, sentito in dibattimento, ha riferito
di aver redatto i verbali di individuazione fotografica in data
28 dicembre 2002 e 9 gennaio 2003 mostrando alle predette
persone offese gli album suddetti. Ha precisato che
l’individuazione si è svolta con la corretta osservanza della
procedura richiedendo a coloro cui le effigi venivano sottoposte
in visione la previa descrizione delle persone da individuare.
Si evince chiaramente che il maresciallo aveva avuto cura di
modificare nelle due giornate l’ordine di posizionamento delle
fotografie così da evitare che chi avesse effettuato la prima
individuazione potesse riferire successivamente agli altri i
numeri delle foto indicati.
Con certezza Abedhadi, Benshine e Deli descrivono, prima, e
indicano, poi, la fotografia ritraente D’Ambrosio Francesco,
precisando trattarsi del militare che li aveva costretti a
mangiare la carne di maiale. Benshine individua, inoltre,
l’effige di Ottomano Vito e Deli quelle di Blasi, Di Pierro,
Fumarola e D’Epiro, precisando trattarsi dei carabinieri che
avevano usato violenza nei loro confronti.
Nel corso dell’incidente probatorio a Louro, Benshine,
Abedhadi, Souiden, Deli e Salem alle udienze del 6, 7, 14, 17 e
28 marzo 2003 vengono mostrati i militari imputati, nelle forme
della ricognizione di persona, in gruppi di tre, composto ogni
gruppo da un imputato ed altre persone estranee ma somiglianti,
assumendo prima delle operazioni da ogni testimone le
informazioni previste per legge e la descrizione degli
aggressori.
pag. 20
Louro Anis riconosce senza incertezze D’Ambrosio, Ottomano,
Coscia e Mele, precisando che gli ultimi due, pur non avendo
direttamente esercitato violenze, avevano partecipato
all’aggressione, senza agire direttamente, ma senza intervenire
in alcun modo per fermare i colleghi. Non riconosce il
carabiniere De Vito Oronzo nei confronti del quale il Pubblico
Ministero non eserciterà l’azione penale.
Benshine Mohamed riconosce con sicurezza D’Ambrosio,
precisando trattarsi del militare che l’aveva costretto ad
ingoiare la carne di maiale, e Ottomano, quale autore delle
violenze a suo danno.
Abedhadi Mohammed riconosce tra le tre persone mostrategli
al di là dello specchio parabolico il D’Ambrosio, il carabiniere
che l’aveva costretto a mangiare la carne di maiale.
Souiden Montassar riconosce con certezza Alberga Vito,
precisando trattarsi del militare che l’aveva picchiato. Rimane
incerto sulla ricognizione di Casafina (dal verbale del 7.3.03
“non sono molto certo perché al momento dei fatti ero col viso
insanguinato, ma mi pare che la prima persona a destra – precisa
il Giudice per le indagini preliminari nel verbale riassuntivo:
carabiniere Casafina – era presente ai fatti. Era presente ma
non mi ha colpito”).
Deli Mohamed non riconosce i carabinieri Alberga, Casafina,
Ottomano, Coscia e Mele; è incerto nella ricognizione di Blasi;
riconosce D’Epiro, Di Pierro, precisando che all’epoca dei fatti
portava la barba, Fumarola e D’Ambrosio.
Salem Mohamed non riconosce De Vito Oronzo – mai rinviato a
giudizio – Blasi, D’Epiro, Di Pierro e Fumarola, ma è
decisamente sicuro nel riconoscere D’Ambrosio.
Il difensore dei militari imputati ha eccepito, prima della
dichiarazione di utilizzabilità degli atti acquisiti al
fascicolo per il dibattimento, la nullità dell’attività di
ricognizione per il mancato rispetto delle disposizioni relative
alle modalità di svolgimento indicate dall’art. 214 c.p.p.
Si è fatto rilevare la parte della Difesa che le persone
affiancate agli imputati nel corso della ricognizione non
fossero dotate delle caratteristiche di somiglianza richieste
dalla norma citata.
La questione è infondata.
Invero, da un’attenta lettura dei verbali di incidente
probatorio si evince chiaramente che la medesima eccezione è
stata formalizzata dalla Difesa alle udienze del 7 e del 17
marzo 2003. Correttamente il Giudice per le indagini preliminari
in entrambe le occasioni ha sospeso le operazioni attivando la
polizia giudiziaria al fine di reperire persone somiglianti agli
imputati e ha ripreso le attività solo dopo aver rimosso la
causa che avrebbe potuto inficiare la correttezza della
ricognizione.
Dunque, non si comprende la finalità della riproposizione di
una questione già correttamente sollevata nell’incidente
probatorio e contestualmente positivamente risolta dal Giudice
per le indagini preliminari in ossequio alle disposizioni del
codice di rito.
Deve, pertanto, concludersi che l’attività di ricognizione è
stata svolta nel perfetto rispetto delle disposizioni di legge e
che il risultato è decisamente apprezzabile sul piano
probatorio.
Le risposte fornite dai testimoni sono assolutamente genuine
e attendibili: essi, già valutati ampiamente in termini di
credibilità, hanno fornito un’ulteriore conferma alla validità
pag. 21
probatoria delle proprie deposizioni riconoscendo con certezza
solo alcuni tra i carabinieri loro mostrati in ricognizione ed
esprimendosi in termini di probabilità nei confronti di altri,
escludendo del tutto di riconoscerne alcuni.
Le ricognizioni e le dichiarazioni fornite dalle persone
offese appaiono ancora più attendibili se si analizzano i turni
di servizio e gli estratti del registro giornaliero redatto dal
capo servizio, acquisiti nel corso del dibattimento.
Vi è perfetta coincidenza tra la tempistica delle
aggressioni riferite dai testi e gli orari dei turni dei
carabinieri D’Ambrosio, Mele, Alberga, Di Pierro, Fumarola e
Casafina. Per quanto riguarda Ottomano, Coscia e D’Epiro vi
sarebbe una apparente discordanza: essi non risultano dagli atti
trasmessi dal Comando dell’XI Battaglione Puglia si trovassero
all’interno del C.T.P. al momento dei fatti loro attribuiti.
Tuttavia, è emerso chiaramente in dibattimento che i
documenti ufficiali non offrono alcuna garanzia sul piano della
validità documentale poiché non fotografano esattamente la
situazione delle presenze nel Centro in particolar modo nei
giorni 22 e 23 novembre 2002.
Quel che è chiaro è che al di là dei militari sicuramente
presenti perché obbligati dagli ordini di servizio, ve ne erano
altri in divisa o in abiti civili evidentemente accorsi per
fronteggiare l’emergenza.
La Difesa assume che se i nomi dei militari non sono
riportati nei turni di servizio o nei registri, sicuramente essi
non erano presenti. Ne discende, a parere della Difesa, che non
possono aver commesso i fatti di cui sono accusati e che,
dunque, i rispettivi accusatori non sono attendibili.
In realtà il vaglio estremamente approfondito sulla
credibilità delle persone offese, con la sola eccezione di
Agrebi, Haddaji e Aidi, è stato ampiamente superato sia sotto un
profilo intrinseco, che per quanto riguarda il gran numero di
riscontri che hanno supportato le deposizioni.
Pur senza considerare la particolarità della documentazione
resa disponibile dall’XI Battaglione Puglia, piena di dubbie e
singolari cancellature e correzioni, l’assunto della Difesa dei
militari è condivisibile esclusivamente in un senso: i
carabinieri i cui nominativi sono presenti negli ordini di
servizio, negli elenchi dei turni e nel registro giornaliero
erano senz’altro presenti. Ci si riferisce a D’Ambrosio, Mele,
Alberga, Casafina, Di Pierro e Fumarola.
Non si condivide, tuttavia, in senso contrario: non può
affermarsi, infatti, che, sol perché non erano inclusi nei
turni, militari quali Ottomano e Coscia (naturalmente in
relazione ai momenti in cui le persone offese hanno narrato di
essere stati picchiati e in relazione agli orari in cui sono
stati rintracciati) non fossero presenti.
Una serie di elementi induce a tale conclusione.
In primis, il riconoscimento effettuato senza incertezze da
Louro Anis e Benshine Mohamed. Essi sono stati precisi sia nelle
descrizioni preliminari che nella ricognizione.
Inoltre, da più parti si è affermato nel corso
dell’istruttoria che al Regina Pacis non ci fossero solo i
dodici carabinieri previsti per ordine di servizio.
È plausibile ed altamente probabile, invece, che tenuto
conto della grave emergenza sorta nella notte tra il 21 e il 22
novembre che fosse stato disposto dal comando il rientro in
servizio anche di coloro i quali erano a riposo.
pag. 22
Vi era stata una ribellione di un numero consistente di
trattenuti, sfociata nella fuga di circa quaranta di loro; era
necessario, pertanto, predisporre tutti i mezzi e contare su
tutti gli uomini disponibili per sedare quella che gli stessi
carabinieri hanno definito una rivolta e per limitarne i danni.
E l’argomentazione appena esposta è ampiamente suffragata
dai contributi delle dichiarazioni testimoniali.
Si è appreso dai testi Deli, Salem e Louro che, oltre ai
militari in divisa, vi erano altri carabinieri che vestivano
abiti civili.
Il maresciallo Martina, allertato nella notte della fuga in
qualità di comandante della Stazione territorialmente
competente, ha parlato di più di venti militari – ben oltre,
dunque, quelli previsti per ordine di servizio – considerando
quelli che cessavano e quelli che iniziavano il turno, oltre a
tutti coloro che venivano rintracciati al di fuori dei turni e
che alloggiavano in un albergo di San Foca.
I testi Di Noia e Natale, militari in servizio, dichiarano
che hanno visto in quelle giornate arrivare “rinforzi” disposti
dal comando.
È ragionevole ritenere, dunque, che tutti i militari
riconosciuti dalle vittime fossero presenti e abbiano posto in
essere le condotte di cui sono accusati.
Pertanto, si ritiene provata al di là di ogni dubbio la
responsabilità di D’Ambrosio, Mele, Alberga, Ottomano, Coscia,
Di Pierro e Fumarola.
Non piena, invece, rimane la prova nei confronti di
Casafina, D’Epiro e Blasi.
Casafina Antonio, pur essendo di turno nella notte tra il 21
e il 22 novembre 2002, ha a suo carico solo l’incerto
riconoscimento da parte di Souiden Montassar. Egli, nel corso
dell’incidente probatorio, riconosce il militare, ma
correttamente fa presente al giudice di non essere assolutamente
certo della corrispondenza tra l’uomo che gli viene mostrato e
il carabiniere presente alla sua aggressione.
Blasi viene riconosciuto nel corso dell’individuazione
fotografica - in ordine alla quale ha riferito il maresciallo
Doria - da Deli Mohamed, ma non viene effettuata una
ricognizione e sono state acquisite in dibattimento deposizioni,
seppur non assolutamente coincidenti, che escluderebbero la sua
presenza al momento dell’aggressione a Deli.
D’Epiro, pur se riconosciuto nel corso della ricognizione,
ha fornito una prova d’alibi attraverso la deposizione dei testi
Ardito Giuseppe e Ardito Raffaella che hanno affermato che dal
mattino fino al pomeriggio del 22 novembre il militare non fosse
a San Foca. L’alibi è sorretto peraltro dal previsione
dell’ordine di servizio in base alla quale D’Epiro dovesse
svolgere il turno dalle ore 19.00 del 22 novembre 2002.
Deve desumersi, pertanto, che Deli abbia commesso un errore
nella ricognizione o, quanto meno, che la prova rimane
contraddittoria.
Per i motivi suddetti, l’unica decisione possibile nei
confronti di Casafina, Basi e D’Epiro rimane quella assolutoria
per non aver commesso il fatto.
Al contrario si ritiene ampiamente provata la responsabilità
degli altri militari.
D’Ambrosio Francesco e Ottomano Vito sono tra gli imputati
coloro i quali hanno posto in essere le condotte più gravi.
D’Ambrosio è il carabiniere indicato da tutte le persone
offese sia attraverso le descrizioni che le ricognizioni come
pag. 23
colui che con inimmaginabile violenza li ha costretti ad
ingoiare pezzi di carne di maiale cruda ben consapevole della
fede musulmana delle proprie vittime e della ricorrenza del
periodo di Ramadan nel corso del quale notoriamente le persone
di religione musulmana si sottopongono ad una serie di
privazioni.
Le scene descritte dalle vittime sono state ampiamente
riportate nella sezione relativa ai racconti delle persone
offese e non serve riprodurle in questa parte della motivazione.
Egli è senza dubbio colui che il cuoco Elshazzlly chiama
“l’amico di Luca” che si reca nei locali della cucina per farsi
consegnare la carne di maiale. È colui che sevizia le persone
offese costringendoli con percosse ad ingoiare i pezzi di carne
anche aiutandosi con il manganello per infilare con la forza in
bocca ai magrebini quanto essi rifiutavano con la poca forza
loro rimasta dopo il pestaggio. È colui che si fa aiutare
sicuramente dal collega Ottomano per tenere ferme le sue vittime
per portare a termine le sevizie descritte.
E insieme a lui, o in momenti diversi, i carabinieri
Ottomano, Alberga, Di Pierro, Mele, Fumarola e Coscia coprono
con brutalità coloro che si sono macchiati del tentativo di fuga
di immani violenze; li percuotono con le mani, con i calci, con
i manganelli in varie parti del corpo al punto di cagionare
tutte le lesioni ampiamente refertate in atti, con l’aiuto e la
collaborazione dello stesso direttore del C.T.P. e dei suoi
collaboratori. Alcuni di essi, in alcune occasioni, pur non
colpendo direttamente, restano a guardare le violenze che si
consumano sulle persone dei magrebini inermi senza adoperarsi in
alcun modo per porre fine al compimento di atti illeciti che
hanno l’obbligo giuridico di arrestare (cfr. ex plurimis Cass.
Pen., sez. II, 6.12.91, Viani).
Le responsabilità di don Cesare Lodeserto e degli operatori
del C.T.P.
I racconti delle persone offese, ampiamente attendibili,
come sottolineato più volte, consentono di evidenziare con
chiarezza le condotte degli imputati Lodeserto Cesare, Lodeserto
Giuseppe, Vieru Natalia, Dokaj Paulin, Gozlugol Husevin, Mara
Armando e Sen Ramazan.
In realtà basterebbe leggere la deposizione di Souiden
Montassar per comprendere come il direttore ed i suoi stretti
collaboratori abbiano tutti tenuto condotte non solo
riprovevoli, ma, quel che in questa sede rileva, penalmente
rilevanti (“chiunque che passava di lì, carabinieri o uno che
lavorava al centro, davano botte, era un gioco” - teste Souiden
Montassar udienza 19.3.03 incidente probatorio).
Rimandando alla sezione relativa alle deposizioni delle
persone offese, si richiamano di seguito brevemente gli apporti
dichiarativi in relazione a ciascun imputato.
Lodeserto Giuseppe detto “Luca”: riferiscono di violente
percosse Ben Slama, Salem, Souiden e Deli. Quest’ultimo aggiunge
che, oltre a partecipare direttamente al pestaggio, assiste,
unitamente alla Vieru e a Dokaj, alla sevizia praticata dai
militari, consistita nel costringere ad ingoiare carne di
maiale, ridendo.
Vieru Natalia detta “Natasha”: è chiamata in causa quale
autrice di violente percosse da Ben Slama, Deli, Benshine,
Souiden, Abedhadi.
Dokaj Paulin detto “Paolo”: compare quale autore delle
violenze nelle deposizioni di Salem, Deli, Benshine e Abedhadi.
pag. 24
Gozlugol Husevin: Salem parla espressamente dell’imputato
nel ricostruire la vicenda di cui è rimasto vittima. Non è stata
raggiunta la prova delle violenze perpetrate ai danni di
Tarconni Ridha.
Mara Armando: partecipa al pestaggio ai danni di Benshine
Mohamed.
Sen Ramazan: indicato quale partecipe al pestaggio ai danni
di Benshine e Louro. A nulla rileva la circostanza che egli non
fosse formalmente in servizio nella serata del 22 novembre.
Egli, infatti, come gli altri operatori domiciliava presso il
Centro ed è altamente verosimile che fosse disponibile in ogni
momento, a prescindere dagli orari di turno, al fine di far
fronte alla situazione di emergenza delineatasi nei giorni della
fuga. Del resto, anche la presenza degli altri collaboratori del
direttore è registrata continuamente come risulta dal compendio
delle emergenze istruttorie.
Lodeserto Cesare: dagli apporti dichiarativi di tutte le
persone offese si delineano numerose condotte illecite tenute
dal direttore. Ben Slama riferisce che don Cesare ha assistito a
tutte le violenze di cui è stato vittima non intervendo in alcun
modo al fine di far cessare la furia dei suoi collaboratori e
dei militari, defilandosi dopo poco nel proprio ufficio davanti
al quale il pestaggio veniva consumato. Salem riferisce di uno
sputo ricevuto direttamente dal direttore il quale, peraltro, è
rimasto inerte ad assistere alla scena delle sevizie dei
militari che lo costringevano ad ingoiare la carne cruda. Deli e
Benshine riferiscono di schiaffi subiti e della inerzia,
divertita, del direttore dinanzi al pestaggio ed alle sevizie
dei militari. Louro riferisce di percosse ricevute dal
direttore. Souiden fornisce il racconto più crudo ripercorrendo
in dettaglio il violento pestaggio cui don Cesare lo sottopone.
Abedhadi distingue chiaramente il direttore intento a picchiare
i suoi connazionali che avevano tentato la fuga con un
manganello.
Come si è già visto nel paragrafo dedicato all’attendibilità
delle persone offese, non è emerso alcun elemento contrario alla
ricostruzione sin ora effettuata.
Le dichiarazioni rese dall’imputato Lodeserto Cesare nel
corso dell’esame dibattimentale non sono state utili e idonee a
porre in discussione l’impianto accusatorio come confermato in
dibattimento.
L’imputato ha tentato di rendere poco credibili le
deposizioni delle persone offese utilizzando argomenti non
convincenti e non corroborati in alcun modo; al contrario alcuni
dettagli forniti dall’imputato concorrono a conferire maggiore
credibilità alle versioni dei fatti dei testimoni – persone
offese.
Egli ha tenuto a precisare di non aver commesso nulla di
quanto era accusato, talvolta in modo maldestro (domanda del
Pubblico Ministero: “E’ vero che lei ha sputato sul viso Salem
Mohamed?” - risposta dell’imputato: “Io però devo andare a
vedere nel viso, nelle foto, chi è Salem Mohamed.”), apportando
elementi di valutazione che, tuttavia, non sono risultati
credibili o idonei a demolire le prove a suo carico.
Con riferimento alle condotte che Louro e Benshine gli
attribuiscono, l’imputato ha tentato di porre in dubbio le
deposizioni dei testi sottolineando che quanto dichiarato dal
primo non poteva essere vero poiché in quella serata egli era
impegnato a Trepuzzi quale relatore in un convegno. In realtà,
si è già affrontata la questione nella sezione relativa alla
pag. 25
attendibilità delle persone offese ricostruendo in base alle
deposizioni degli uomini di scorta ed alla documentazione
prodotta la cronologia degli eventi.
Lo stesso imputato riferisce di essere rientrato al Centro
tra le ore 21.15 e le ore 22.00. Come già detto, Benshine e
Louro sono stati rintracciati alle ore 21.00 del 22 novembre
2002 e portati al C.T.P.. Il rientro del sacerdote nell’orario
da egli stesso indicato è dunque perfettamente compatibile con
la scansione temporale degli accadimenti narrati dai testi.
In più, l’indicazione oraria dell’imputato rende ancora più
discutibile la genuinità della deposizione del teste Dell’Aere
che eventualmente verrà valutata dal Pubblico Ministero.
Proprio in relazione a tale vicenda, inoltre, l’imputato al
fine di provare la sua estraneità ai fatti, afferma che è
inverosimile che egli avesse potuto compiere le azioni
attribuitegli perché, altrimenti, il personale di scorta che lo
accompagnava all’interno degli uffici, avrebbe dovuto assistere
alle condotte illecite contestategli. In realtà, il Lodeserto è
smentito dagli stessi uomini della scorta che precisano che in
quella serata, come nelle altre occasioni, si limitavano a
prelevare il sacerdote dall’ingresso del Centro senza varcarne
la soglia.
Altro elemento introdotto dall’imputato si riferisce alla
inattendibilità del teste Taha che avrebbe, a suo dire, inviato
una serie di messaggi incompatibili con la volontà di denunciare
le sue condotte. In realtà la deposizione di Taha, che
sicuramente ha lasciato trasparire la paura di riferire ogni
dettaglio e una generale intimidazione esercitata nei suoi
confronti in vista della deposizione, non ha comunque coinvolto
la posizione del direttore, rispetto al quale non ha saputo
riferire alcunché.
Altro riferimento dell’imputato è quello relativo alla
vicenda del procedimento penale iscritto a carico di Rejibi
Zouhaier, cittadino tunisino trattenuto nel C.T.P.
La vicenda, evidentemente estranea all’oggetto del
procedimento, è stata riferita dall’imputato al fine esclusivo
di invalidare le deposizioni delle persone offese riportando una
frase proferita dal tunisino in occasione di una manifestazione
di protesta svoltasi all’esterno del Regina Pacis.
Il Rejibi è stato denunciato in data 1 ottobre 2003 per una
aggressione di cui il Lodeserto è rimasto vittima nel corso
della quale il tunisino avrebbe rivolto le seguenti minacce al
direttore: “ti farò ammazzare dai miei fratelli, finché vivrò
cercherò per ammazzarti”, “so cosa devo fare – faccio come i
miei fratelli così mi daranno anche il permesso di soggiorno”.
Successivamente, in data 12 ottobre 2003, in occasione di una
manifestazione di un non specificato “gruppo di persone” dinanzi
al C.T.P., il Rejibi, riferisce l’imputato richiamando la
propria denuncia in data 28.1.03, che “capeggiava il gruppo dei
rivoltosi”, aizzava gli altri ospiti e pronunciava l’espressione
“fate entrare dentro le armi. Il resto lo facciamo noi”.
Pur senza considerare che le espressioni che il tunisino
avrebbe pronunciato sono state riprodotte solo dalla memoria
dell’imputato Lodeserto e documentate dagli atti del
procedimento che, comunque, si sviluppano solo sulla denuncia
del medesimo imputato, e pur senza valutare che la verità
processuale sui fatti attribuiti al Rejibi non risulta essere
stata consacrata in alcuna sentenza, non si comprende come una
manifestazione violenta e minacciosa di un soggetto del tutto
scollegato dalle odierne persone offese, ben un anno dopo i
pag. 26
fatti relativi alla fuga oggetto di questo giudizio, possa
inficiare la valenza probatoria delle accuse dei magrebini testi
in questo processo le cui deposizioni, come si è visto
diffusamente, hanno brillantemente superato il vaglio di
credibilità sia sotto il profilo intrinseco che estrinseco.
Dunque, l’utilizzazione della vicenda appena indicata non
manifesta alcun pregio probatorio e rimane del tutto
inconferente rispetto ai reali elementi di prova acquisiti nel
dibattimento.
In conclusione, può affermarsi che le condotte addebitate al
Lodeserto siano risultate provate al di là di ogni dubbio.
Egli deve ritenersi responsabile di tutte le azioni
delittuose direttamente esercitate ai danni delle persone offese
e, in virtù del principio di causalità per omissione dettato
dall’art. 40 c.p., delle condotte tenute dagli operatori del
Centro.
Lodeserto ricopriva all’epoca dei fatti il ruolo di
dirigente della struttura cui per convenzione era attribuito
l’obbligo di cura e assistenza dei cittadini stranieri
trattenuti in attesa di espulsione.
La disposizione contenuta nell’art. 40 cpv. c.p. risponde ad
esigenze di solidarietà nel senso che sussistono in capo a
determinati soggetti posizioni di garanzia che li obbligano ad
attivarsi laddove sussista la necessità di assicurare tutela a
beni giuridici di particolare rilievo.
Il principio trova inequivocabile riscontro nelle
disposizioni costituzionali di cui agli artt. 2 e 32 della Carta
costituzionale.
L’obbligo di impedire l’evento, dunque, sorge in capo al
soggetto che ha una sostanziale posizione di garanzia del suo
non verificarsi.
Tale posizione di garanzia appartiene al soggetto titolare
di un potere, un dominio o una situazione di signoria e si
atteggia funzionalmente come posizione di controllo e di
protezione.
Pertanto, il ruolo di vertice all’interno di una
organizzazione importa per il soggetto che lo riveste l’obbligo
di proteggere i beni a lui affidati e di controllare fonti di
pericolo sottoposte alla sua sorveglianza.
I beni giuridici la cui protezione è demandata a chi assume
la posizione apicale, è indiscusso comprendano la vita e
l’incolumità individuale.
In ossequio all’enunciato principio la giurisprudenza di
legittimità ha riconosciuto la responsabilità a titolo di
concorso dei genitori per i fatti delittuosi commessi alla loro
presenza nei confronti dei figli o dei responsabili di strutture
di cura e assistenza laddove tollerino colpevolmente che il
reato venga consumato non attivandosi o attivandosi in modo
inefficace pur essendo in grado di impedire l’evento dannoso a
carico delle persone affidate (cfr. ex plurimis Cass. Pen., sez.
IV 17.10.94, Fiorillo; 16.10.91, Cosco).
Non v’è dubbio in ordine alla posizione apicale del
Lodeserto, direttore del Centro alle cui dipendenze erano
impiegati, in virtù di un rapporto di lavoro, Lodeserto
Giuseppe, Vieru Natalia, Dokaj Paulin, Gozlugol Husevin, Mara
Armando e Sen Ramazan.
E non v’è dubbio che i cittadini extracomunitari trattenuti
nella struttura del Regina Pacis fossero affidati alle cure ed
all’assistenza del direttore e del personale impiegato.
pag. 27
È emerso chiaramente che, oltre ad aver tenuto condotte
illecite direttamente rivolte ai magrebini, il direttore abbia
assistito alle violenze perpetrate dai suoi sottoposti ai danni
delle odierne persone offese, non solo tollerandole, ma anche
non attivandosi in alcun modo al fine di farle cessare e
talvolta assistendovi con atteggiamento di approvazione.
Dunque, in capo al Lodeserto vi era uno specifico obbligo di
controllo sui suoi dipendenti e di un obbligo di preservare le
persone a lui affidate da qualsiasi comportamento lesivo con la
conseguenza che si rappresenta come comportamento esigibile
quello di impedire le condotte illecite o, quantomeno, farle
cessare e renderle note all’autorità giudiziaria. Egli non le ha
impedite, non le ha inibite e non le ha denunciate poiché non
solo le approvava, ma le aveva autonomamente poste in essere,
costituendo un esempio negativo per i suoi stessi collaboratori
i quali erano, pertanto, implicitamente autorizzati a compiere
gli atti lesivi.
Qualificazione giuridica dei fatti contestati
Il Pubblico Ministero ha ritenuto di contestare il delitto
di abuso dei mezzi di correzione nella parte normativa della
rubrica.
All’esito del dibattimento, ai sensi dell’art. 521 c.p.p.,
si è ritenuto che i fatti così come contestati dovessero essere
qualificati nei termini di cui agli artt. 110, 610, 582, 585 in
relazione all’art. 577 e 61 n. 4 c.p.
La norma del codice di rito citata conferisce al giudice il
potere di “dare al fatto una definizione giuridica diversa da
quella enunciata nell’imputazione” pronunciando sentenza, purché
non ecceda la sua competenza o non si atteggi come “fatto
diverso”, ipotesi in cui è tenuto a trasmettere gli atti al
Pubblico Ministero competente affinché eserciti ex novo nei modi
di legge l’azione penale.
La disposizione, unitamente all’art. 522 c.p.p., tutela il
principio di correlazione tra accusa e sentenza allo scopo di
garantire il contraddittorio sul contenuto dell’accusa e,
quindi, l’esercizio effettivo della difesa dell’imputato. Ne
consegue che non è possibile ipotizzare la violazione del
principio in astratto prescindendo dalla natura dell’addebito
specificamente formulato nell’imputazione e dalla possibilità di
difesa che all’imputato sono state concretamente offerte dal
reale sviluppo della dialettica processuale.
Dunque, la violazione del principio sussiste solo quando,
nella ricostruzione del fatto posta a fondamento della
decisione, la struttura dell’imputazione sia modificata quanto
agli elementi oggettivo e soggettivo del reato, al punto che,
per effetto delle divergenze introdotte, la difesa apprestata
dall’imputato risulti incompatibile con una sua discolpa. In
sostanza deve realizzarsi una vera e propria trasformazione dei
contenuti essenziali dell’addebito in modo che l’imputato venga
posto a sorpresa dinanzi ad un fatto rispetto al quale non ha
avuto nessuna possibilità di difesa (ex plurimis Cass. pen. Sez.
IV 21.1.05, n. 12175; Sez. II, 2.12.04, n. 26; Sez. V 9.11.04,
n. 46203; Sez. feriale 3.9.04, n. 36227).
Ne consegue che è rispettato il principio di correlazione
allorché il giudice prenda una decisione sui fatti descritti
nell’imputazione, in ordine ai quali si è sviluppato un regolare
contraddittorio e l’imputato abbia esercitato pienamente le
facoltà difensive, dichiarando tuttavia che quei fatti, e non
altri, devono essere qualificati diversamente. L’unico limite
pag. 28
imposto al giudice risiede nella competenza a giudicare il fatto
ai sensi degli artt. 5 e ss. c.p.p., nel senso che il fatto
diversamente qualificato non appartenga alla cognizione del
tribunale in composizione collegiale, anziché monocratica.
La decisione presa in questo processo ha solo ed
esclusivamente comportato una modifica del nomen iuris dei
comportamenti delittuosi tenuti dagli imputati, senza alterare
in alcun modo la struttura dell’imputazione o la ricostruzione
del fatto operata al momento della contestazione. Sono stati
dialetticamente ricostruiti e giudicati i fatti come descritti
nella rubrica, ritenendo, infine, che il Pubblico Ministero
aveva attribuito ai fatti medesimi una qualificazione non
corretta.
L’aver tenuto da parte degli imputati le condotte descritte,
consistite nell’uso della violenza fisica al fine di costringere
le persone offese a sopportare costrizioni umilianti e nella
causazione delle lesioni, non può qualificarsi in termini di
abuso di mezzi di correzione, bensì in termini di violenza
privata e lesioni aggravate, reati appartenenti alla cognizione
del tribunale in composizione monocratica.
Il delitto previsto dall’art. 571 c.p. si sostanzia nella
condotta di chi abusa dei mezzi di correzione o di disciplina in
danno di una persona sottoposta alla sua autorità o a lui
affidata per ragione di educazione, istruzione, cura, vigilanza
o custodia determinando un pericolo di malattia nel corpo o
nella mente, con l’ulteriore specificazione che la causazione di
lesioni personali o della morte aggrava la fattispecie ed il
trattamento sanzionatorio.
Dunque, l’abuso dei mezzi di correzione non è altro che una
enfatizzazione oltre il limite consentito delle modalità
educative e disciplinari idonee a determinare il pericolo
dell’insorgere di una malattia fisica o mentale.
L’interpretazione giurisprudenziale della disposizione in
questione ha chiarito che integra la fattispecie criminosa di
cui all’art. 571 c.p. “l’uso in funzione educativa del mezzo
astrattamente lecito, sia esso di natura fisica, psicologica o
morale, che trasmodi nell’abuso sia in ragione dell’arbitrarietà
o intempestività della sua applicazione, sia in ragione
dell’eccesso della misura, senza tuttavia attingere a forme di
violenza” (Cass. Pen. Sez. VI 7.11.97, Paglia), specificando che
“il termine <<correzione>> va assunto come sinonimo di
educazione e presuppone che di tali mezzi … possa farsi un uso
consentito e legittimo che però, trasmodando in apprezzabile
eccesso, si trasforma in illecito, così integrando la figura
dell’abuso” (Cass. pen. Sez. VI 9.1.04, n. 4934). Ha chiarito
inoltre che “l’eccesso dei mezzi di correzione violenti non
rientra nella fattispecie dell’art. 571 c.p. anche se retto
dall’animus corrigendi” (Cass. pen. Sez. VI 16.5.96, n. 4904)
poiché “l’uso della violenza non può mai ritenersi finalizzato a
scopi rieducativi” (Cass. pen. Sez. VI 26.10.04, n. 44621).
Peraltro al fine di stabilire se ricorra l’ipotesi delittuosa di
cui all’art. 571 c.p. deve esaminarsi non solo l’elemento
oggettivo della fattispecie concreta e, dunque, la correlazione
tra i mezzi e i metodi e le finalità educativa e disciplinare,
ma anche l’elemento soggettivo e cioè che il motivo che abbia
determinato l’agente sia quello disciplinare e correttivo (Cass.
pen. Sez. VI, 11.4.96, Carbone).
La disamina della interpretazione giurisprudenziale consente
di comprendere pienamente la struttura del reato e la reale
essenza dello stesso sotto il profilo del bene giuridico
pag. 29
tutelato, oltre che di escludere che le condotte descritte in
rubrica siano sussumibili sotto la tipologia di delitto previsto
e punito dall’art. 571 c.p.
L’aver ricondotto le persone offese nel C.T.P. malmenandole
selvaggiamente, deridendole e trattandole alla stregua di
bestie, costringendo loro con violenze inaudite a ingurgitare
pezzi di carne di maiale cruda nella piena consapevolezza della
fede musulmana che le caratterizzava, ragione per cui quel tipo
di carne, ancor più nel periodo del Ramadan, era assolutamente
vietata, non può assolutamente costituire un mezzo educativo o
correttivo, poiché si sostanzia in una violenza del tutto
gratuita e abietta.
Non si riesce davvero a rintracciare l’intento di correzione
nelle condotte che sono state ampiamente descritte; è, invece,
del tutto evidente che l’unico motivo che ha determinato gli
agenti è stato quello punitivo della violenza, della
prevaricazione e dell’umiliazione, ferendo nel corpo e
nell’animo soggetti disperati colpevoli solo di aver tentato una
fuga.
Pertanto, oltre alle lesioni ampiamente certificate in
atti, è chiaro che l’aver costretto a subire comportamenti quali
quelli della costrizione a mangiare carne di maiale, o il non
averli impediti, e le derisioni per il solo fatto di aderire ad
un credo religioso non può che integrare il delitto di violenza
privata.
In proposito, la Suprema Corte precisa che “l'abuso dei
mezzi di correzione o di disciplina, previsto e punito
dall'articolo 571 del Cp, presuppone un uso consentito e
legittimo di tali mezzi, tramutato per eccesso in illecito
(abuso): di conseguenza il reato non è configurabile quando
vengano usati mezzi di per sé illeciti, per la loro natura o
anche per la potenzialità di danno alla persona o alla psiche,
dovendo in questo caso la condotta essere ricondotta alle
ipotesi criminose realizzate con i citati mezzi (lesioni
personali volontarie, violenza privata, maltrattamenti). (Nella
specie, la Corte di cassazione ha ritenuto corretta la decisione
di merito che aveva qualificato come violenza privata la
condotta posta in essere dai responsabili di un campo scout, i
quali, per punire un minore a loro affidato, gli avevano
inflitto una punizione degradante e umiliante, caratterizzata
dall'uso della violenza, consistita nell'averlo legato a un palo
in cemento con una corda, nel cospargerlo di sughi di scarto e
detersivo per piatti, nel farlo oggetto, infine, del getto
d'acqua di una pompa; trattavasi, secondo la Corte, di condotta
caratterizzata dall'uso di violenza, non riconducibile come
tale, neppure in termini di abuso, al concetto di "correzione",
dovendosi intendere questo nel significato di "educazione" e non
potendosi quindi perseguire alcuna meta educativa mediante
l'utilizzo di uno strumento che contraddica i fondamentali
valori di pace e rispetto che devono caratterizzare i apporti
umani)” (Cass. pen. Sez. V, 5.11.02, n. 36842, Iacono e altri).
Con il delitto di violenza privata concorre quello di
lesioni aggravate ai sensi dell’art. 61 n. 4 c.p. per aver
adoperato sevizie e agito con crudeltà verso le persone.
In ordine alle lesioni, come già detto, la documentazione
sanitaria in atti attesta, insieme a tutti le altre emergenze
istruttorie, la sussistenza del reato.
Non v’è dubbio in ordine alla configurabilità
dell’aggravante che ricorre ogniqualvolta l’agente infligga alla
vittima sofferenze che esulino dal normale processo di
pag. 30
causazione dell’evento, caratterizzate dalla gratuità e
cagionate da una condotta particolarmente riprovevole, sintomo
dell’ansia dell’agente medesimo di appagare la propria volontà
di arrecare dolore.
La lettura delle deposizioni rende palpabile in tutta la sua
scioccante evidenza come le lesioni cagionate alle persone
offese siano state proprio accompagnate dalla volontà di
infliggere tormenti e sofferenze alle vittime per il solo
piacere di vederle soffrire. Non sono altrimenti spiegabili le
modalità delle azioni violente, le derisioni (Vieru a Salem:
“Dove sta Allah che ti salva e ti protegge adesso?” –
deposizione di Salem Mohamed, verbale udienza 4.3.03),
l’accanimento nel picchiare i fuggitivi, il tenerli fermi mentre
con un manganello erano costretti a mangiare la carne di maiale.
Capo B) della rubrica. Le condotte dei medici Cazzato e
Roberti.
Cazzato Anna Catia e Roberti Giovanni, medici dipendenti
dalla ASL LE/1 in servizio presso l’ambulatorio permanente del
C.T.P. “Regina Pacis” sono accusati di avere formato
certificazioni sanitarie relative alle lesioni subite dai
cittadini marocchini, odierne persone offese, attestando
falsamente che le lesioni dai predetti riportate erano state
generate “da lancio volontario dal piano sopraelevato del
centro, per tentata fuga dallo stesso”.
In base all’impostazione della pubblica Accusa i medici
figurerebbero quali autori materiali, insieme a Lodeserto
Giuseppe, su specifica indicazione del direttore Lodeserto
Cesare che, pertanto, figurerebbe quale autore morale.
In sintesi, l’ipotesi dell’Accusa consisterebbe nella
seguente ricostruzione: al fine di celare le aggressioni – e
tutte le conseguenze lesive – perpetrate ai danni dei trattenuti
che avevano tentato la fuga, il direttore chiedeva ai medici
Cazzato e Roberti di formare falsi certificati attestando che
tutte le lesioni riportate dalle vittime erano ascrivibili solo
ed esclusivamente alla condotta volontaria di fuga, attraverso
il lancio dalla balconata, così eliminando ogni possibilità di
accertamento giudiziario della reale portata della vicenda e,
dunque, del proprio coinvolgimento e di quello degli operatori,
utilizzando per la compilazione materiale degli stessi il
computer in dotazione alla Direzione attraverso l’opera di
Lodeserto Giuseppe.
Le emergenze dibattimentali hanno consentito di ritenere
formata la prova piena della responsabilità dei medici e non
anche del coinvolgimento del direttore e del suo collaboratore.
Si tratta dei certificati medici apparentemente redatti in
data 23 novembre 2002 nei quali è indicata per ciascun cittadino
marocchino la tipologia delle lesioni riportate e per tutti
l’identica espressione “quanto sopra causato da lancio
volontario dal piano sopraelevato del centro, per tentata fuga
dallo stesso”.
Risultano firmatari dei certificati la dott. Anna Catia
Cazzato per Ben Slama Lofti e Souiden Montassar e il dott.
Giovanni Roberti per tutti gli altri.
Vi sono numerose incongruenze che hanno correttamente
indotto il Pubblico Ministero a formulare l’imputazione di falso
ideologico.
Per quanto riguarda la Cazzato, l’esame di tutta la
documentazione acquisita consente di ritenere certamente che Ben
pag. 31
Slama Lofti e Souiden Montassar non sono stati mai visitati
dall’imputata.
Ben Slama, rintracciato dopo la fuga alle ore 8.30 del 22
novembre 2002, riceve le prime cure dopo l’aggressione di cui si
è ampiamente parlato, dal dott. Antonaci il quale, accertatosi
delle condizioni fisiche, prescrive la visita ortopedica e
l’esame radiografico al piede sinistro. Consegna la richiesta
alla direzione alle ore 12.15 del 22 novembre. Ben Slama resta
sicuramente nel C.T.P. fino alle ore 8.00 del giorno successivo;
tanto è documentato dalle annotazioni riportate sul registro
degli interventi eseguiti dai medici dell’ambulatorio del Centro
dal quale è possibile ricostruire, attraverso dettagliatissime
annotazioni, in relazione ai turni dei medici, la scansione
temporale degli avvenimenti. Al turno del dott. Antonaci segue
quello del dott. Roberti il quale somministra sicuramente tra le
ore 14.00 e le ore 20.00 un farmaco antinfiammatorio (Sulidamor)
al Ben Slama. Subentra in servizio il dott. Ruggeri il quale
alla fine alla fine del proprio turno (ore 20.00 del 22.11.02 –
ore 8.00 del 23.11.02) somministra al paziente una iniezione
intramuscolare di un farmaco (Diasepam – è l’ultima annotazione
nel registro relativamente al turno del dott. Ruggeri).
Verosimilmente nelle prime ore del mattino Ben Slama viene
condotto in ospedale dove rimane fino alle ore 15.20 del 23
novembre (la prima annotazione in cartella dell’ora di arrivo –
22/11/02 – è evidentemente frutto di errore materiale, avuto
riguardo alla ricostruzione fin qui operata ed alla circostanza
del mancato ricovero del paziente, come si evince dalla cartella
medesima). L’annotazione coincide con il successivo intervento
del dott. Antonaci, nel turno ore 14.00 – 20.00 del 23 novembre,
che somministra al Ben Slama altri farmaci.
Anche in data 24 novembre il dott. Antonaci (turno ore
14.00-20.00) si occupa ancora una volta di Ben Slama con la
somministrazione di altro farmaco.
Per quanto riguarda Souiden Montassar la medesima analisi
minuziosa della documentazione consente di rilevare che egli sia
stato visitato solo dal dott. Refolo nella notte della fuga
(turno dalle ore 20.00 del 21.11.02 alle ore 8.00 del 22.11.02),
nel corso della quale si disponeva il suo ricovero, e nella
notte tra il 27 ed il 28 novembre 2002 per la somministrazione,
in questa occasione di un ansiolitico.
La ricostruzione, apparentemente macchinosa, consente di
rilevare tutti gli interventi sanitari praticati sulle persone
di Ben Slama e di Souiden e tutti i medici che li hanno
effettuati e, con una certa approssimazione, anche gli orari.
Quel che è certo è che la Cazzato nei suoi turni del 24
novembre (ore 20.00-8.00), 26 novembre (ore 8.00-14.00), 27
novembre (ore 14.00-20.00) e del 28 novembre (ore 8.00-14.00),
unici turni effettuati nei giorni oggetto del processo, non ha
mai visitato Ben Slama e Souiden, né ha mai prescritto o
somministrato alcuna terapia.
L’affermazione è confortata dalla analisi dettagliata della
documentazione e del registro citato, dove con minuziosa cura i
medici di turno avevano l’obbligo e l’abitudine di annotare
qualsiasi intervento effettuato.
Non si comprende, pertanto, come la Cazzato abbia potuto in
un giorno in cui non era presente in ambulatorio accertare le
condizioni dei pazienti e addirittura refertarne le lesioni,
tutto ciò senza aver cura di redigere alcuna annotazione nel
registro degli interventi, come sempre, invece, accadeva.
pag. 32
Peraltro, la circostanza che la dottoressa non fosse al
C.T.P. il 23 novembre 2002 è rilevabile non solo dal registro,
ma anche dall’elenco della turnazione del mese di novembre
laddove compare il nome della Cazzato il 21 novembre e
successivamente il 24 novembre 2002.
Non risulta, inoltre, che i medici restassero in ambulatorio
oltre l’orario loro assegnato, né dalla documentazione, né da
altre emergenze dibattimentali. Al contrario vi è conferma del
rispetto dell’orario del turno dalla deposizione del dott.
Vincenzo Refolo il quale riferisce, nel corso del controesame
dell’avv. Conte, che non gli era mai accaduto di prestare la
propria opera oltre l’orario di lavoro, né gli risulta che altri
medici lo facessero, poiché vi era un preciso meccanismo di
avvicendamento tra medici e infermieri; alla scadenza
dell’orario di turno un medico andava via e sopraggiungeva
l’altro.
Le dichiarazioni rese dalla Cazzato in sede di
interrogatorio – verbale acquisito a norma dell’art. 513 c.p.p.
– non sono riscontrate da alcuna emergenza probatoria.
Ella riferisce di essersi recata al “Regina Pacis” nella
serata del 23 novembre, sicuramente dopo le ore 20.00, poiché da
una conversazione telefonica con il dott. Antonaci aveva appreso
della fuga di numerosi cittadini marocchini trattenuti.
Riferisce l’imputata: “Luca Lodeserto mi pregò di redigere tre
referti, senza spiegarmi il motivo di tale richiesta. Io non
chiesi nulla in proposito e mi limitai a visitare i tre
stranieri, in quanto come medico del servizio sanitario non
potevo rifiutare di prestare la mia attività e di redigere
obbligatoriamente il relativo referto. Provai a gesti a chiedere
agli stranieri visitati come si erano fatti male e ottenni in
risposta altri gesti che mi fecero intendere che si erano
lanciati dall’alto”.
Appare decisamente inverosimile che, nonostante la presenza
in ambulatorio del medico di turno Roberti, Luca Lodeserto abbia
chiesto proprio alla Cazzato di redigere tre referti senza
fornire alcuna spiegazione che giustificasse la richiesta al
medico che in quel momento non era di turno. Del resto lo stesso
Roberti nel corso del proprio interrogatorio dichiara di non
ricordare la presenza in quella serata della collega. Peraltro,
in quanto medico del servizio sanitario avrebbe dovuto, qualora
fosse stato necessario visitare i pazienti, dirottare la
richiesta al medico presente in ambulatorio che avrebbe così
dovuto annotare l’intervento sul registro in dotazione. Invece,
al Roberti non veniva chiesto né di visitare i pazienti, né di
redigere con riferimento a Souiden ed a Ben Slama alcun referto.
La vicenda appare ancor più strana se si pensa che non vi
era alcuna motivazione logica per cui dovessero essere redatti
referti di due pazienti per i quali era stata formata una
copiosa documentazione sanitaria perché entrambi ricoverati in
ospedale.
Le dichiarazioni della Cazzato appaiono, peraltro,
inverosimili nella parte relativa al momento in cui riferisce di
aver chiesto “a gesti” ai cittadini marocchini la causa delle
lesioni. Ben Slama e Souiden non hanno mai dichiarato di essersi
fatti male a causa del lancio; al contrario, appena è stato
possibile hanno tentato di far presente a chi prestava loro
soccorso che le lesioni erano la conseguenza delle “botte”
ricevute (significativa la deposizione del dott. Turco, già
esaminata). Non si comprende, pertanto, come sia stato possibile
che proprio alla Cazzato, dalla quale i predetti cittadini
pag. 33
marocchini non hanno mai riferito di essere stati visitati, non
abbiano ritenuto di raccontare quanto fosse realmente accaduto.
Tutta la vicenda si fa ancora più oscura se si ha riguardo
alle altre certificazioni ed alle dichiarazioni del Roberti.
L’incongruenza più evidente è quella relativa alle
certificazioni attestanti le lesioni riportate da Agrebi Baligh,
Aidi Mahjoub e Adwani Jamel.
I predetti trattenuti erano riusciti a fuggire dal Centro
nella serata del 21 novembre ed erano stati rintracciati solo in
data 25 novembre 2002.
Il dato è sufficiente per ritenere la falsità dei
certificati: non è possibile, infatti, che il dott. Roberti
conoscesse le lesioni riportate da Agrebi, Aidi e Adwani in un
momento in cui questi non erano stati ancora rintracciati e che,
quindi, non erano ancora stati riportati nel centro; non è
possibile che il Roberti li avesse visitati accertando
personalmente le lesioni riportate, peraltro descritte
dettagliatamente. Dunque, il Roberti ha falsamente attestato la
verifica delle condizioni di salute e le cause delle stesse.
È evidente, invece, che i certificati siano stati redatti
solo in un momento successivo, insieme a tutti gli altri.
Proprio con riferimento agli altri certificati è appena il
caso di sottolineare che il Roberti nel proprio turno del 23
novembre ha solo somministrato la terapia ansiolitica ed
antinfiammatoria a Louro nel corso della notte, ma non ha mai
visitato nessuno degli altri ospiti per cui ha ritenuto di
sottoscrivere i certificati datati 23.11.02.
Egli, nel corso del proprio interrogatorio in data 11 luglio
2003, dopo gli avvertimenti prescritti dalla legge, richiama e
conferma per intero le dichiarazioni rese quale persona
informata in data 31 gennaio 2003 – alla cui acquisizione la
Difesa non ha formalizzato alcuna opposizione evidentemente
condividendo che trattavasi di parte integrante del verbale di
interrogatorio – e aggiunge altri particolari e spiegazioni.
Afferma di aver ricevuto esplicita richiesta di redazione
dei certificati in questione da don Cesare Lodeserto; queste le
sue parole: “confermo che le persone per le quali sono state
fatte le certificazioni mi sono state espressamente indicate da
don Cesare. Tali indicazioni come ho già detto sono avvenute in
tempi diversi e senza che don Cesare mi spiegasse i motivi per
cui mi chiedeva di redigere le stesse. Ad ogni richiesta, in
realtà, non ho preparato un vero e proprio certificato ma degli
appunti manoscritti che poi ho passato tutti insieme all’ufficio
della direzione per la dattiloscrittura … Preciso che negli
appunti manoscritti ho inserito la clausola relativa alla
causale delle lesioni per uno solo degli stranieri (il primo da
me visitato di cui non ricordo il nome), perché così don Cesare
mi aveva chiesto di fare”. Aggiunge e precisa che le visite agli
stranieri e le relative certificazioni – o indicazioni
manoscritte delle patologie – sono avvenute tra il 23 e il 26
novembre (“penso di non aver redatto alcun certificato in data
22 novembre … i referti che ho rilasciato dovrebbero essere
datati 23.11.02, altri nei giorni a seguire, non oltre i 26
novembre”).
Il dato documentale, tuttavia, non conforta le dichiarazioni
del medico. Egli, infatti, è stato in servizio, oltre al turno
del 22 novembre nel corso del quale afferma di non aver redatto
certificati, in data 23 novembre 2002 dalle ore 20.00 alle ore
8.00 del giorno successivo e nei giorni 28 e 29 novembre. Non ha
pag. 34
mai prestato servizio nei giorni compresi tra il 24, dalle ore
8.00 del mattino, ed il 28 novembre.
Dunque, non si comprende come abbia potuto affermare di aver
visitato i pazienti quando, non solo non era in servizio, ma
anche non si è curato di riportare alcuna annotazione sul
registro dell’ambulatorio, normalmente così accuratamente e
minuziosamente compilato.
Nel periodo dallo stesso indicato egli ha visitato solo
Louro Anis, ma mai gli altri cittadini marocchini per cui gli è
stata richiesta attestazione.
Si contraddice, peraltro, anche quando prima afferma di
essersi avvalso autonomamente del computer (“i referti da me
sottoscritti risultano eccezionalmente redatti al computer in
quanto, per l’enorme mole di lavoro che c’era in quei giorni, ho
ritenuto di scriverla su supporto magnetico, stamparla e
sottoporla in visione al Direttore che me le aveva chieste”) e,
successivamente, di aver compilato solo appunti manoscritti
affidandoli successivamente alla direzione per la
dattiloscrittura (“ad ogni richiesta, in realtà, non ho
preparato un vero e proprio certificato ma degli appunti
manoscritti che ho poi passato tutti insieme all’ufficio della
direzione per la dattiloscrittura”).
In conclusione, le varie ammissioni, pur se maldestramente
corredate di motivazione, inducono su un piano di prima evidenza
che la data apposta su ogni certificato non corrisponda né al
giorno in cui i referti sono stati compilati, né a quello in cui
entrambi i medici hanno accertato le condizioni patologiche che
attestavano, pur ammettendo in astratto, e così non è
sicuramente, che tale accertamento sia stato effettuato.
Essi, non solo non hanno visitato i pazienti, ma hanno
assecondato una dubbia richiesta proveniente dalla direzione di
certificare fatti mai verificati, spingendosi ad affermare un
nesso di causalità, assolutamente non riscontrato, tra il
comportamento dei pazienti (lancio dal piano sopraelevato) e le
lesioni riportate.
Il tentativo del consulente di parte, dott. Simonetti, di
affermare che le lesioni repertate fossero compatibili con una
caduta è fallito allorquando il medico legale è stato escusso in
dibattimento.
Egli, non potendo visitare le persone offese, ma limitandosi
ad una mera consulenza di scienza sulla documentazione
fornitagli dalla Difesa (è appena il caso di precisare che si
tratta in prevalenza dei documenti oggetto dell’imputazione di
falso ideologico), ha concluso per la compatibilità delle
lesioni con la caduta dall’alto, senza comunque escludere
l’incidenza di altre cause (azioni volontarie violente commesse
ai loro danni).
Nel corso del dibattimento, tale seconda possibilità è stata
notevolmente allargata, poiché ad ogni domanda dettagliata in
ordine alle lesioni riportate dalle persone offese il consulente
non ha potuto escludere un giudizio di piena compatibilità con
le percosse. Del resto la circostanza della distanza di appena
sei metri dalla balconata al punto di caduta e della presenza
sotto il predetto balcone di un automezzo – che evidentemente
accorciava la distanza di sei metri – rende inverosimile che le
lesioni come refertate fossero davvero tutte conseguenze del
lancio.
L’insieme delle emergenze istruttorie e tutte le
considerazioni fin qui svolte inducono ad un giudizio di
sussistenza del reato di falso sotto diversi profili: la data
pag. 35
non corrisponde alla realtà; i medici imputati non hanno
accertato personalmente quanto attestato; in tre casi vi è
certamente una macroscopica alterazione della realtà; il
giudizio formulato con riferimento alla causa delle lesioni non
è sicuramente derivante da dichiarazioni dei pazienti, bensì da
autonome, o indotte (non certo dai lesionati), valutazioni
assolutamente stridenti con i reali accadimenti che hanno visto
i cittadini marocchini soggetti passivi di inaudite e
ingiustificate violenze.
La disposizione di cui all’art. 479 c.p. punisce la condotta
del “pubblico ufficiale che, ricevendo o formando un atto
nell’esercizio delle sue funzioni, attesta falsamente che un
fatto è stato da lui compiuto o è avvenuto alla sua presenza, o
attesta come da lui ricevute dichiarazioni a lui non rese,
ovvero omette o altera dichiarazioni da lui ricevute, o comunque
attesta falsamente fatti dei quali l’atto è destinato a provare
la verità”.
Non c’è dubbio che i medici Cazzato e Roberti rivestissero
la qualità di pubblici ufficiali. È stato chiarito dalla
giurisprudenza di legittimità che “i medici dipendenti da
strutture sanitarie pubbliche, pur se equiparati, per effetto
del D.Lgs. 3 febbraio 1993, n. 29, a quelli dipendenti da
strutture private quanto alle modalità di esercizio
dell’attività lavorativa ed al sistema retributivo, hanno
tuttavia conservato la qualità di pubblici ufficiali
nell’attuazione del loro servizio e nella connessa potestà
certificativi”.
Ne consegue che il medico che attesti in un certificato
circostanze non vere pone in essere la condotta sanzionata dal
citato art. 479.
Il certificato in questione, infatti, è qualificabile
sicuramente in termini di atto pubblico e non di certificato
amministrativo.
Invero è certificato amministrativo, con la conseguente
operatività della norma contenuta nell’art. 481 c.p., l’atto del
pubblico ufficiale che non attesti risultati di un accertamento
compiuto dal medesimo, ma che si limiti a riporti informazioni
desunte da altri atti già documentati e che non abbia una
propria autonomia giuridica, ma che si limiti a riprodurre gli
effetti dell’atto preesistente (ex plurimis Cass. pen., V sez.,
n. 2029/02). Ne consegue che costituiscono atti pubblici quei
certificati con i quali il pubblico ufficiali attesti di aver
compiuto un determinato accertamento riferendone i risultati.
È evidente che il certificato in cui il medico attesti una
patologia, rilevabile solo attraverso un diretto accertamento, è
qualificabile solo in termini di atto pubblico (cfr. Cass. pen.,
sez. V, n. 3190/02; sez. V, n. 10113, sez. I 11.10.94).
Definiti, dunque, la qualifica del medico e la
qualificazione del certificato da lui redatto, deve concludersi
che qualsiasi colpevole mutazione della verità integri la
condotta prevista e punita dall’art. 479 c.p.
Non può dubitarsi che il medico che certifichi di aver
operato un accertamento, che in effetti non ha compiuto,
indicando una patologia, che non ha rilevato personalmente,
specificandone la causa, quando tale specificazione possa
derivare solo da dichiarazioni del paziente che questi non ha
mai reso, alterando altresì la data del presunto accertamento,
quando è certo che nella stessa data quel medico non è proprio
venuto in contatto con il paziente, pone in essere la condotta
penalmente rilevante di falsità ideologica.
pag. 36
Del resto, sono gli stessi medici imputati a riferire nel
corso dei rispettivi interrogatori di aver ricevuto l’ordine di
redigere i certificati delle persone che avevano riportato
lesioni da parte del don Cesare Lodeserto e del nipote Luca
Lodeserto. È evidente che la finalità perseguita è quella
correttamente evidenziata dal Pubblico Ministero nell’ipotesi di
accusa e prima esposta.
Tuttavia, il concorso nel reato dei Lodeserto non è
suffragata sul piano strettamente processuale della formazione
della prova.
Le dichiarazioni dei medici, infatti, pur chiarendo il ruolo
rivestito dal direttore e da “Luca” e la finalità complessiva
perseguita, anche alla luce dell’intera vicenda, non sono
sufficienti a ritenere, in base ai criteri codicistici di
valutazione delle emergenze istruttorie, completa la prova.
Essi, infatti, pur avendo ricevuto all’atto
dell’interrogatorio gli avvisi previsti dall’art. 64 comma 3
c.p.p., non si sono sottoposti all’esame nel contraddittorio del
dibattimento, privando le altre parti di saggiare la deposizione
secondo il meccanismo del controesame. Tale circostanza, in
ossequio al principio costituzionale enunciato nell’art. 111
comma 4 Cost., rende inutilizzabile il contenuto delle
dichiarazioni nei confronti di altri imputati e, dunque, di
Lodeserto Cesare e Lodeserto Giuseppe, nei confronti dei quali
l’unica decisione possibile rimane quella assolutoria per non
aver commesso il fatto.
3. Trattamento sanzionatorio
Accertata la sussistenza dei delitti avuto riguardo ai
criteri ermeneutici fissati dall’art. 133 c.p., si ritiene di
determinare la pena da infliggere agli imputati nella misura di
seguito specificata.
A Lodeserto Cesare è inflitta la pena di anni uno e mesi
quattro di reclusione così determinata: pena base per il delitto
di cui all’art. 610 c.p. nei confronti di tutte le persone
offese (40 e 610 c.p.) anni uno e mesi sei di reclusione,
ridotta ad anni uno di reclusione ex art. 62 bis c.p., aumentata
ex art. 81 c.p. di mesi quattro di reclusione per il delitto di
lesioni nei confronti di tutte le persone offese (40, 582 c.p.).
A Lodeserto Giuseppe, detto Luca e Vieru Natalia, detta
Natasha, è inflitta la pena di anni uno e mesi due di reclusione
così determinata: pena base per il delitto di violenza privata
nei confronti di tutte le persone offese indicate in rubrica
anni uno e mesi tre di reclusione, ridotta ex art. 62 bis c.p. a
mesi dieci di reclusione aumentata ex art. 81 c.p. di mesi
quattro di reclusione per il delitto di lesioni nei confronti di
tutte le persone offese. La pena è differenziata rispetto al
primo imputato avuto riguardo alla minore gravità della
condotta, stante il diverso ruolo nella organizzazione, ed è
comunque superiore rispetto agli altri operatori dal momento che
le emergenze istruttorie hanno fatto emergere una maggiore
crudeltà e capacità delittuosa in Luca e Natasha rispetto agli
altri operatori.
A Dokaj Paulin, detto Paolo, Gozlugol Husevin, Mara Armando
e Sen Ramazan è inflitta la pena di mesi nove di reclusione così
determinata: pena base per il delitto di violenza privata nei
confronti di tutte le persone offese mesi nove di reclusione,
ridotta ex art. 62 bis c.p. a mesi sei di reclusione, aumentata
ex art. 81 c.p. per le lesioni di mesi tre di reclusione.
pag. 37
A D’Ambrosio Francesco e Ottomano Vito è inflitta la pena di
anni uno e mesi quattro di reclusione così determinata: pena
base per il delitto di cui all’art. 610 c.p. nei confronti di
tutte le persone offese (40 e 610 c.p.) anni uno e mesi sei di
reclusione, ridotta ad anni uno di reclusione ex art. 62 bis
c.p., aumentata ex art. 81 c.p. di mesi quattro di reclusione
per il delitto di lesioni nei confronti di tutte le persone
offese (40, 582 c.p.). Le modalità particolarmente crudeli delle
condotte tenute dai predetti giustificano una maggiore gravità
del trattamento sanzionatorio rispetto a quello riservato agli
altri militari.
Ad Alberga Vito, Coscia Michele, Di Pierro Mario, Fumarola
Giovanni e Mele Vito è inflitta la pena di anni uno di
reclusione così determinata: pena base per il delitto di cui
all’art. 610 c.p. nei confronti di tutte le persone offese (40 e
610 c.p.) anni uno e mesi tre di reclusione, ridotta a mesi
dieci di reclusione ex art. 62 bis c.p., aumentata ex art. 81
c.p. di mesi due di reclusione per il delitto di lesioni nei
confronti di tutte le persone offese (40, 582 c.p.).
Lo stato di incensuratezza degli imputati consente
l’attenuazione di pena discendente dal riconoscimento delle
circostanze attenuanti generiche.
Si è ritenuto, inoltre, di applicare la disciplina prevista
dall’art. 81 comma 2 c.p. trattandosi di fatti commessi in
esecuzione del medesimo intento delittuoso. Si coglie con la
massima evidenza il programma criminoso ideato ed attuato in
accordo dagli imputati.
Come si è detto, infine, è risultata pienamente provata la
responsabilità dei medici Cazzato e Roberti. Pertanto, avuto
riguardo ai criteri ermeneutici previsti dall’art. 133 c.p.,
ritenuta sussistente l’aggravante contestata per tutti i motivi
ampiamente esposti, operato un giudizio di prevalenza delle
circostanze attenuanti generiche sulla predetta aggravante, la
pena si determina in nove mesi di reclusione (pena base anni uno
di reclusione – falso certificato di Ben Slama –ridotta di 1/3
per le attenuanti generiche, complessivamente aumentata di un
mese di reclusione per tutti gli altri certificati).
L’incensuratezza degli imputati e la necessità di adeguare la
misura della pena ai fatti impongono il riconoscimento delle
circostanze di cui all’art. 62 bis c.p. ed il giudizio di
prevalenza.
Infine, in virtù del disposto dell’art. 535 c.p.p., devono
essere poste a carico di tutti i condannati le spese
processuali.
Sussistono per tutti gli imputati i presupposti di legge per
il riconoscimento del beneficio della sospensione condizionale
della pena.
4. Domanda risarcitoria
L’accertata sussistenza del fatto ai danni delle costituite
parti civili comporta che la domanda risarcitoria debba essere
accolta, avuto riguardo alla circostanza che è risultato provato
che gli imputati si sono resi sicuramente responsabile
dell’episodi loro contestati, fatta eccezione per le condotte
illecite nei confronti di Agrebi, Aidi e Haddaji che non sono
risultate provate.
pag. 38
Accoglibile anche la domanda risarcitoria, seppur con
condanna generica, dell’Associazione Giuridici sull’Immigrazione
(ASGI) per le motivazioni già esposte nell’ordinanza emessa
all’udienza del 13 maggio 2004 che qui si intendono riportate.
Gli elementi addotti dalle difese delle parti civili non
hanno consentito, tuttavia, di determinare una quantificazione
certa del danno patito, che pertanto sarà cura delle medesime
parti richiedere e provare con le modalità di legge al giudice
civile competente. Peraltro, ai fini della pronuncia della
condanna generica al risarcimento dei danni, non è necessario
che il danneggiato provi l'effettiva sussistenza dei danni e il
nesso di causalità tra questi e l'autore dell'illecito, essendo
sufficiente l'accertamento di un fatto potenzialmente produttivo
di conseguenze dannose, in quanto la pronuncia di condanna
costituisce una mera declaratoria iuris da cui esula ogni
accertamento sull'esistenza e misura del danno, rimesso per la
liquidazione ad apposito giudizio.
Si ritiene, comunque, che per quanto riguarda le parti
civili costituite – con l’eccezione, come già specificato, per
Agrebi, Aidi e Haddaji – che alle stesse possa essere
riconosciuta una provvisionale pari a euro 2000 ciascuna. Non
incombe l’obbligo di espressa motivazione (“in tema di
provvisionale, la determinazione della somma assegnata è
riservata insindacabilmente al giudice di merito, che non ha
l'obbligo di espressa motivazione, quando l'importo rientri
nell'ambito del danno prevedibile” Cass. pen., Sez. VI,
01/04/1997, Bosco) sulla quantificazione poiché “in tema di
risarcimento del danno derivante da reato, non è necessaria, ai
fini della liquidazione della provvisionale, la prova
dell'ammontare del danno stesso, ma è sufficiente la certezza
della sua sussistenza sino all'ammontare della somma liquidata”
(Cass. pen., Sez. V, 13/12/2000, n. 12634, Bechis).
Non si ritiene, invece, che possa essere quantificata in
questa sede, neanche a titolo di provvisionale, alcuna somma di
denaro all’ASGI.
L’accoglimento delle domande risarcitorie comporta la
condanna degli imputati alla rifusione delle spese di
costituzione e rappresentanza alle parti civili, come liquidate
in dispositivo.
P.Q.M.
letti gli artt. 533 e 535 c.p.p.,
dichiara LODESERTO Cesare colpevole dei reati di cui agli
artt. 40, 110, 610, 582 e 585, in relazione agli artt. 577 e 61
n. 4 c.p., unificati ai sensi dell’art. 81 c.p., così
diversamente qualificati i fatti come descritti e contestati in
rubrica, LODESERTO Giuseppe (detto Luca), VIERU Natalia (detta
Natasha), DOKAJ Paulin (detto Paolo), eccezion fatta per gli
episodi ai danni di Agrebi e Aidi, GOZLUGOL Husevin, eccezion
fatta per l’episodio ai danni di Tarconni, MARA Armando e SEN
Ramazan colpevoli dei reati di cui agli artt. 110, 610, 582 e
585, in relazione agli artt. 577 e 61 n. 4 c.p., unificati ai
sensi dell’art. 81 c.p., così diversamente qualificati i fatti
come descritti e contestati in rubrica, D’AMBROSIO Francesco,
ALBERGA Vito, OTTOMANO Vito, COSCIA Michele, MELE Vito, DI
PIERRO Mario e FUMAROLA Giovanni colpevoli dei reati di cui agli
artt. 40, 110, 610, 582 e 585, in relazione agli artt. 577 e 61
n. 4 c.p., unificati ai sensi dell’art. 81 c.p., così
diversamente qualificati i fatti come descritti e contestati in
pag. 39
rubrica e, in concorso di attenuanti generiche per tutti gli
imputati ritenute equivalente alle aggravanti contestate,
condanna LODESERTO Cesare alla pena anni uno e mesi quattro di
reclusione, LODESERTO Giuseppe, VIERU Natalia alla pena di anni
uno e mesi due di reclusione, DOKAJ, GOZLUGOL, MARA e SEN alla
pena di mesi nove di reclusione, D’AMBROSIO e OTTOMANO alla pena
di anni uno e mesi quattro di reclusione, ALBERGA, DI PIERRO,
FUMAROLA e COSCIA alla pena di anni uno di reclusione, oltre al
pagamento delle spese processuali.
Letti gli artt. 533 e 535 c.p.p., dichiara ROBERTI Giovanni
e CAZZATO Anna Catia colpevoli del reato loro ascritto e, in
concorso di attenuanti generiche, condanna ciascuno alla pena di
mesi nove di reclusione, oltre al pagamento delle spese
processuali.
Pena sospesa alle condizioni di legge per tutti gli
imputati.
Letto l’art. 530 c.p.p., assolve tutti gli imputati in
ordine ai reati di cui agli artt. 40, 110, 610, 582 e 585, in
relazione agli artt. 577 e 61 n. 4 c.p., così diversamente
qualificati i fatti come descritti e contestati in rubrica, con
riferimento agli episodi relativi ad HADDAJI Mohammed, perché il
fatto non sussiste.
Letto l’art. 530 c.p.p., assolve LODESERTO Cesare e DOKAJ
Paulin dai reati di cui agli artt. 40, 110, 610, 582 e 585, in
relazione agli artt. 577 e 61 n. 4 c.p., così diversamente
qualificati i fatti come descritti e contestati in rubrica, con
riferimento agli episodi relativi ad Agrebi Baligh e Aidi
Manjoub per non aver commesso il fatto.
Letto l’art. 530 cpv c.p.p., assolve D’EPIRO Alessandro,
BLASI Francesco e CASAFINA Antonio dai reati di cui agli artt.
40, 110, 610, 582 e 585, in relazione agli artt. 577 e 61 n. 4
c.p., così diversamente qualificati i fatti come descritti e
contestati in rubrica, per non aver commesso il fatto.
Letto l’art. 530 c.p.p., assolve LODESERTO Cesare e
LODESERTO Giuseppe dal reato loro ascritto al capo B della
rubrica per non aver commesso il fatto.
Letti gli artt. 538 e ss c.p.p., condanna LODESERTO Cesare,
LODESERTO Giuseppe (detto Luca), VIERU Natalia (detta Natasha),
DOKAJ Paulin (detto Paolo), GOZLUGOL Husevin, MARA Armando e
SEN Ramazan, D’AMBROSIO Francesco, ALBERGA Vito, OTTOMANO Vito,
COSCIA Michele, MELE Vito, DI PIERRO Mario e FUMAROLA Giovanni
al risarcimento dei danni patiti dalle parti civili costituite,
fatta eccezione per Haddaji Mohammed, e con esclusione di Agrebi
Baligh e Aidi Manjoub con esclusivo riferimento a Lodeserto
Cesare e Dokaj Paulin, da liquidarsi in separato giudizio.
Condanna gli imputati al pagamento di una provvisionale pari
a € 2000 per ogni parte civile costituita, eccezion fatta per
l’Associazione Studi Giuridici sull’Immigrazione (ASGI).
Pone a carico degli imputati le spese di costituzione e
rappresentanza delle parti civili che liquida in euro 5000 per
la parte civile assistita dall’Avv. Pistelli, euro 7000 per le
parti civili assistite dall’Avv. Petrelli, euro 15000 per le
parti civili assistite dall’Avv. Petrelli, oltre IVA, CA e spese
forfetizzate come per legge.
Letto l’art. 544 comma 3 c.p.p., indica in novanta giorni il
termine per il deposito della motivazione.

Lecce, 22 luglio 2005
_____________ ____Il Giudice dott. Annalisa de Benedictis
pag. 40

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