Navi dei veleni, ora si cerca anche a terra Rifiuti radioattivi nel greto del fiume Oliva
l'Arpacal di Catanzaro, l'agenzia per la tutela ambientale della regione calabrese,
da inizio alle analisi del terreno nei luoghi dove sarebbero stati seppelliti i rifiuti tossici.
Costa ionica, Navi a perdere: la nave "Rosso" (ex "Jolly Rosso")
Le mafie dei rifiuti tossici.
Decine di relitti carichi di scorie affondate nel mediterraneo

CATANZARO 21 ottobre 2009
- Mentre a Cetraro il sottosegretario all'Ambiente, Roberto Menia, è assediato dai pescatori che protestano per l'assenza del governo rispetto ai problemi legati al fatto che nessuno compra più pesce per paura, L'Arpacal (l'agenzia regionale per l'ambiente) promette che lunedì prossimo, dopo 19 anni, cominceranno seriamente le "operazioni di terra", a caccia dei veleni seppelliti, qua e là, nel territorio calabrese. S'inizierà, a quanto pare, dalla foce del fiume Oliva, nella zona di Foresta Aiello, comune di Serra d'Aiello, provincia di Cosenza, dove sarebbero sepolti i rifiuti radioattivi e tossici trasportati dalla nave "Rosso" (ex "Jolly Rosso"), finita sulla spiaggia di Campanara San Giovanni - frazione di Amantea - nella notte del 14 gennaio del 1990.

La riunione operativa. A Roma, a dimostrazione del fatto che si vuole fare sul serio, si è svolta una riunione negli uffici del Servizio Interdipartimentale per le Emergenze Ambientali dell'Ispra (l'Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale) per la presentazione della bozza del "Piano di caratterizzazione" - cioè di analisi e bonifica - nelle aree del fiume Oliva, nei Comuni di Serra D'Aiello ed Aiello Calabro in provincia di Cosenza.

Gli scavi. Si comincerà a scavare su una collinetta a monte della "briglia", una struttura in cemento che serve, normalmente, per frenare il corso dei torrenti, ma che in questo caso sembrerebbe essere stata più utile a chi in quella specie di diga ha nascosto materiale tossico o radioattivo. Già in passato nella collinetta - ma senza che questo avesse prodotto una qualche contromisura - erano state trovate tracce di Mercurio e Cesio 137 a 4 metri di profondità.

L'altro scavo ci sarà in una cava, sempre ai margini del fiume Oliva, in un punto dove in passato era stato individuato materiale radioattivo e , anche in questo caso, senza che la cosa avesse preoccupato nessuno.

Infine, si effettueranno "carotaggi" nel terreno lungo una piccola vallata - una delle tante che fiancheggiano l'Oliva, chiamata "valle del Signore" - dove si teme possano essere stati sepolti altri rifiuti tossici o radioattivi.

Gli anni di ritardo. Ma il sentore che alla foce di quel fiume qualcosa di pericoloso fosse stato sepolto dopo il sospetto "spiaggiamento" della "Rosso", cominciò a sorgere già nel giugno del 2003. Fu quando la Procura di Lamezia Terme trasmise l'indagine a quella di Paola, per competenza territoriale e maturò, in particolare, quando si scoprì un altro scavo nella zona di Serra d'Aiello, fatto dalle maestranze della nave, secondo alcune testimonianze. Quello scavo si aggiungeva ad un altro autorizzato nella discarica di Grassullo (sempre nei pressi di Amantea) per seppellire il carico "ufficiale" della "Rosso".

Finora solo impunità. I dati di fatto in mano a diverse Procure italiane (calabresi, pugliesi, toscane e lombarde) dicono, insomma, che l'avvelenamento sistematico del mare lungo i 700 chilometri della costa tirrenica calabrese e del suo immediato entroterra è avvenuto finora, non solo nell'assoluta impunità dei responsabili, ma senza che neanche una delle decine di navi affondate, dette "a perdere", sia stata individuata o ispezionata. Anche se con anni di ritardo, dunque, sembra che i pubblici poteri mostrino ora di mobilitarsi, quanto meno per capire cosa esattamente sia nascosto in fondo al mare e sotto terra.

Il carico della Rosso. In particolare, si comincerà davvero (almeno così si promette) ad accertare cosa sia stato nascosto vicino all'alveo del fiume Oliva, in un'area di uso agricolo. La nave italiana Rosso di proprietà della società Ignazio Messina e C. partita da Malta e diretta a La Spezia, la notte del 14 dicembre 1990 finì sulla spiaggia di Camponara S. Giovanni, frazione di Amantea. Oltre alle 16 persone dell'equipaggio, il carico ufficiale sarebbe stato composto da nove containers con 23.325 tonnellate di nylon; 75.465 di tabacco; 70 tonnellate di prodotti da bevande.

Gli accertamenti che avranno inizio lunedì, a cura dell'Arpacal (l'agenzia regionale per l'ambiente della Calabria) incaricata come perito tecnico dalla Procura di Paola, dureranno fino alla fine di novembre. Solo allora, dunque, si potrà conoscere almeno una parte di verità.

L'allarme inascoltato. A tracciare una ricostruzione dettagliatissima del dramma dei veleni sepolti, chissà da quanto tempo, in mare e sotto terra da cosche mafiose con connivenze politiche e istituzionali, fu l'ex sottosegretario per i Rapporti con il Parlamento in carica nel 2004 - l'onorevole Cosimo Ventucci del Pdl - in occasione della risposta ad un'interpellanza il 15 luglio dello stesso anno. Un allarme assolutamente inascoltato per anni e anni, soprattutto dal suo stesso Governo.

Il rappresentante dell'Esecutivo, tuttavia, in sostanza disse che per quanto riguardava gli aspetti penali della vicenda, nel gennaio 2004 la Procura di Paola incaricò la sezione inquinamento radioattivo del Reparto Operativo di Carabinieri di indagare nelle zone interessate dallo "spiaggiamento", presentato come un incidente. In particolare si raccomandò l'Arma di controllare l'area di Grassullo e Foresta Aiello, a ridosso della foce del fiume Oliva.

La ragione stava nel fatto - disse Ventucci - che "secondo testimonianze sarebbe stato interrato del materiale proveniente dalla motonave Rosso". E aggiunse che la Procura fece misurare il grado di tossicità nell'area: furono trovate cospicue quantità "di fanghi", oltre ad un'altissima "concentrazione di alcuni metalli pesanti che superano il limite accettabile di inquinamento, provocando un pericolo concreto per il suolo, il sottosuolo e i corpi idrici". Da allora nulla di concreto è mai stato fatto, né dal governo di cui Ventucci era membro, né da altri governi.

Il pentito "scovato". Intanto, a 11 miglia a largo di Cetraro, una nave geostazionaria ha cominciato le ricerche nel luogo dove si presume ci siano i resti del cargo Kuski, inzeppato di scorie radiattive o rifiuti tossici, affondata a colpi di dinamite da un commando del quale faceva parte anche Francesco Fonti, il pentito della 'ndrangheta di San Luca, che svelò a Riccardo Bocca dell'Espresso il traffico micidiale per l'eliminazione di veleni d'ogni sorta.

Traffico che, secondo Fonti, coinvolgerebbe governi, servizi segreti e mafie dislocate in diverse latitudini. Il "pentito", nonostante le sue rivelazioni stiano attivando iniziative delle pubbliche autorità (sebbene tardive) risulta essere ancora senza protezione da parte dello Stato. Si era nascosto a Mantova, ma un deputato assai solerte della Lega l'ha subito "scovato". Poi ha protestato e segnalato immediatamente alla pubblica opinione la sua "inopportuna" presenza nel mantovano. Col piccolo problema di far saltare la copertura di Fonti.


Nuovi elementi nella vicenda della nave dei veleni in Calabria
Nel 2007 un'ordinanza accertava inquinanti nel mare di Cetraro
Acque avvelenate, pesca proibita Ma il divieto viene ritirato

ROMA - Arsenico e cobalto in quantità tali da "superare il valore di concentrazione delle soglie di contaminazione nei sedimenti marini" e "un valore molto alto per l'alluminio e i valori del cromo". Sono questi i motivi per cui il 18 aprile del 2007 la Capitaneria di Porto di Cetraro vietò la pesca nel mare antistante il Comune calabrese. E' scritto nell'ordinanza n 3 del 2007 firmata dall'allora comandante Sergio Mingrone. I campionamenti erano stati predisposti l'anno precedente dalla Procura di Paola ad una profondità compresa tra i 370 metri e i 450 metri nelle acque di Belvedere Marittimo e di Cetraro. Ed erano arrivati all'attenzione del Ministero dell'Ambiente. Le acque sono le stesse dove oggi si effettua il monitoraggio di quello che potrebbe essere il relitto della Kunsky, la nave che, secondo il pentito di 'ndrangheta Fonti, sarebbe carica di veleni. 

L'ordinanza della Capitaneria di porto ebbe vita breve. Un anno e quattro mesi dopo la sua emanazione venne ritirata. Effetto di una riunione che si svolse il 7 agosto 2008 sempre presso la Capitaneria alla quale parteciparono i rappresentanti dell'Asl di Paola, della Provincia di Cosenza, dell'Arpacal, due addetti della polizia giudiziaria ambiente della Procura. Grandi assenti invece la Regione Calabria e i sindaci dei Comuni costieri: Cetraro, Belvedere, Acquappesa, Guardia e Sangineto. In quell'occasione si stabilì che le sostanze inquinanti individuate solo un anno prima, o non erano più presenti in acqua o non erano più nocive. Il giallo dell'ordinanza è solo un altro tassello di un puzzle complicato che riguarda i rifiuti tossici stoccati illegalmente in Calabria. E non solo quelli che potrebbero essere nascosti nel relitto della "presunta" Kunsky. La caccia ai rifiuti infatti prosegue anche a terra. Tre sono i siti nel mirino della Procura di Paola. Si trovano tutti ad Amantea - Serra d'Aiello nei pressi del torrente Oliva, dove si inspiaggiò nel '90 la nave Jolly Rosso. Riguardano un torrente dove è stata già rilevata la presenza di mercurio, metalli pesanti, non radioattivi; una collina di 40 - 50 mila metri cubi di terra dove è stato trovato mercurio a concentrazione altissima e cesio 137. E, infine, una cava. Una situazione esplosiva che i sindaci della costa tirrenica calabrese vogliono sia ben indagata dal governo. Proprio ieri, a palazzo Chigi, una delegazione capitanata dall'assessore all'ambiente della Regione Calabria, Silvio Greco, ha protestato con il sottosegretario Roberto Menia.



Il reportage. A bordo della Mare Oceano
I bracci meccanici  spostati con un joy stick per rimuovere le incrostazioni
Rotta verso la nave dei veleni "In 3 giorni sveleremo il mistero"

A Bordo della Mare Oceano - La verità arriverà venerdì quando il "Rov" avrà compiuto la sua discesa e le tre telecamere collegate al robot subacqueo illumineranno lo scafo di Cetraro, il luogo del relitto. Nel container rosso issato sul ponte con le insegne della Hallin di Aberdeen, i tecnici inglesi dirigeranno con un joy stick i bracci meccanici per provare a rimuovere le incrostazioni e capire se quella affondata al largo della Calabria è davvero la Kunsky, una delle navi dei veleni di cui ha parlato cinque anni fa il pentito di n'drangheta Francesco Fonti. Quello stesso Fonti che in questi giorni ha chiesto nuovamente la protezione dello Stato dopo che un onorevole leghista, Gianni Fava, ha sbadatamente rivelato ai quotidiani di Mantova il luogo in cui il pentito era andato a vivere. A bordo della Mare Oceano le polemiche e la tensione di una vigilia per molti aspetti incerta sembrano rimanere sulla terraferma. Andrea Fienga è il responsabile della missione. Ha 31 anni come il comandante, Alfredo Amitrano: una nave giovane come sono giovani i tecnici specializzati inglesi, com'è giovane, vien da pensare, il mondo fuori dall'Italia. Lavorano tutti per la Geolab di Napoli, abituati a girare il mondo alla ricerca dei diamanti sui fondali della Namibia o a riparare oleodotti nel mare del Nord. Fienga mostra con orgoglio l'apparecchiatura di bordo: "Siete tutti attratti dal robot ma il vero gioiello di questa nave è il Sub Bottom Profiler, l'apparecchiatura che consente di compiere indagini sotto il fondale". 

Uno strumento normalmente utilizzato negli oceani per scoprire i giacimenti di petrolio. In questo caso invece servirà a scoprire se una parte del carico pericoloso della nave affondata ha finito per inquinare il fondale. Soprattutto, quel che si teme, è che a bordo della presunta Kunsky ci fossero scorie radioattive. Per questo operano due ragazzi, un italiano e un inglese, che scandaglieranno il fondale con un rilevatore di raggi gamma. La Mare Oceano è attrezzata con un sistema Dgps regolato dai satelliti garantisce che non si allontani da un punto stabilito sulle mappe. I tempi di intervento sono relativamente rapidi. La nave lascia il molo di Vibo alle 6 di questa mattina. Saranno necessarie 5-6 ore di navigazione per coprire 48 miglia marine e giungere a Cetraro. Nel primo pomeriggio inizieranno dunque le operazioni di taratura degli strumenti e venerdì il robot comincerà la sua discesa. Sotto lo scafo della Mare Oceano opera un sonar a fasci Mbes che a 500 metri di profondità, dov'è adagiata la nave dei misteri, copre un'area larga un chilometro. Si potrà così realizzare una mappa accurata del fondale aiutati anche dai dati raccolti dall'SSS, un siluro con le ali che "vola" 15 metri sotto il pelo dell'acqua e disegna una specie di altimetria che somiglia alle foto satellitari della superficie dei pianeti. "Il vantaggio di questa situazione - spiegano gli inquirenti della Dda - è che si conosce il punto esatto dell'affondamento". Sembra ovvio ma può diventare pericoloso. E per questo, nonostante la notevole disponibilità del ministero dell'ambiente, i magistrati hanno deciso, ieri sera, di allontanarci dalla nave. Perché se davvero il relitto al largo di Cetraro è di una delle navi dei veleni e se i due ragazzi addetti al rilevatore dei raggi gamma troveranno sorgenti radioattive a bordo, la situazione diventerà estremamente imbarazzate. Le scorie nucleari non sono rifiuti che si producono in casa e in ogni contenitore che le racchiude ci potrebbe essere la firma dell'assassino: quella dello Stato o del servizio che ha affidato il materiale ai boss della n'drangheta sapendo perfettamente in quali inconfessabili mani si metteva. 

All'ora della cena, intorno agli spaghetti aglio e olio preparati dallo chef napoletano Antonio Capasso, il timore prende la forma del punto interrogativo: "Com'è possibile che qualcuno abbia volontariamente inquinato il nostro mare?". Quella del primo ufficiale Pasquale Guida è la domanda di tutti gli italiani. È, paradossalmente, la stessa che si incontra in una intercettazione telefonica della Dda. Un boss si fa uno scrupolo di coscienza: "E il mare? Che ne sarà del mare se la zona l'ammorbiamo?". La risposta del compare è fulminante. "Ma sai quanto ce ne fottiamo del mare? Pensa ai soldi che il mare, con quelli, andiamo a trovarcelo da un'altra parte". Tre giorni per scoprire la verità. O, almeno, la prima parte.



Sostanze tossiche e resti umani: a una svolta l'inchiesta sul relitto del "Cunski".
E spunta la mappa delle altre imbarcazioni cariche di scorie
Le 30 navi che avvelenano il mar Mediterraneo
 PAOLO GRISERI FRANCESCO VIVIANO

PAOLA 25 settembre 2009 (Cosenza) - Due macchie gialle dietro il vetro di un oblò. I fari di una telecamera di profondità illuminano la scena. Le macchie sono proprio al centro dell'immagine, sopra la data e l'ora della ripresa: 12 settembre 2009, 17,33. Una nuova ombra, un rigagnolo di veleni, esce da una fenditura della lamiera. Altre masse nere (pesci?) si intravedono nell'oscurità del relitto. Immagini che sembrano confermare il "sospetto inquietante" del Procuratore di Paola, Bruno Giordano: "Dietro quell'oblò potrebbero esserci i teschi di due marinai". Non è solo una bomba ecologica quella affondata al largo della costa calabra: è una bara. L'ultima destinazione per marinai irregolari come irregolare era ormai il Cunski con il suo carico inconfessabile: una discarica di veleni e di uomini. Quanti altri Cunski custodiscono segreti e rilasciano veleni dal fondo del Mediterraneo? La domanda è la stessa che inseguiva quattordici anni fa il capitano di vascello Natale De Grazia. Nel cuore dell'indagine prendeva appunti. 

Uno degli ultimi, fino ad oggi inedito, offre qualche punto interrogativo e diverse certezze. Vale la pena di leggere: "Le navi? 7/8 italiane e a Cipro. Dove sono? Quali sono? I caricatori e i mandanti. Punti di unione tra Rigel e Comerio. Hira, Ara, Isole Tremiti. Basso Adriatico. Porti di partenza: Marina di Carrara m/v Akbaya. Salerno/Savona/Castellammare di Stabia/Otranto/Porto Nogaro/Fiume. Sulina Beirut. C/v Spagnolo. Materiale radioattivo". 

Qual era la mappa cui si riferiva il capitano di vascello Natale De Grazia nell'autunno del '95? Non lo sapremo mai. La sera del 12 dicembre De Grazia si accascia sul sedile posteriore dell'auto che lo sta portando a La Spezia, alla caccia dei misteri delle navi dei veleni. Una morte per infarto, dice il medico. Ma un infarto particolare se poco tempo dopo il capitano verrà insignito della medaglia d'oro al valor militare. Comincia da qui, da quell'appunto inedito, il viaggio alla ricerca delle navi dei veleni, affondate non solo in Italia ma in tutto il Mediterraneo e nel Corno d'Africa. 

Una storia che ini zia in modo legale, tra i camici bianchi nei laboratori di un'agenzia dell'Unione europea, diventa un'occasione di arricchimento per personaggi senza scrupoli e merce di scambio per i trafficanti di armi e uomini. Sullo sfondo, ma non troppo, un'incredibile tangentopoli somala e la morte ancora senza spiegazione ufficiale di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin. Il 18 gennaio 2005, rispondendo alle domande della Commissione parlamentare di inchiesta sulla morte dei due giornalisti italiani, il pm di Reggio Calabria Francesco Neri rivelava che "la cartina con i punti di affondamento e le segnalazioni di Greenpeace coincidono con le mappe di Comerio". 

L'indagine sulle navi dei veleni è rimasta lontano dai riflettori per 12 anni. Fino a quando, il 12 settembre 
scorso, il Manifesto rivela che un pentito, Francesco Fonti, ha consentito di scoprire un nuovo relitto sul fondale di fronte alle coste della Calabria. Una vicenda di cui ora si occuperà anche la Commissione antimafia. Così, alla ricerca di nuove bombe ecologiche sepolte, la mappa di Comerio è tornata d'attualità. 

Di Giorgio Comerio, imprenditore nel settore delle antenne e delle apparecchiature di indagine geognostica, sono pieni i documenti delle commissioni di inchiesta. In un'intervista sostiene di essere vittima di un clamoroso equivoco: "Mi ha fermato alla frontiera un doganiere che non sapeva del progetto Euratom, è una bieca montatura". Una versione che ai pm sembra troppo semplice: "Aveva rapporti con i servizi argentini e iracheni e aveva comperato rifiuti da mezzo mondo". 

L'inizio della storia delle navi dei veleni è in Italia, sulla sponda lombarda del Lago Maggiore, dove ha sede l'Ispra, l'Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale che lavora ai progetti dell'Euratom. È qui che, secondo il pm Nicola Maria Pace, negli anni 0 prende corpo un progetto ambizioso: "A Ispra - racconta Pace nel marzo del 2005 - presso gli impianti dell'Euratom di Varese, attraverso finanziamenti americani e giapponesi si avvia un progetto alternativo al sistema di deposito in cavità geologiche delle scorie nucleari. Tale progetto, denominato Dodos, ha visto la partecipazione di centinaia di tecnici di tutto il mondo: hanno contribuito due esperti scienziati dell'Enea ed anche Giorgio Comerio". L'idea è quella di inabissare sul fondo del mare il materiale radioattivo stivato nelle testate dei siluri. Progetto che verrà poi abbandonato per timore delle proteste degli ambientalisti. "Per impedire che idee di questo genere venissero messe in pratica - ricorda Enrico Fontana di Legambiente - venne firmata la Convenzione Onu che impedisce lo sversamento di materiale pericoloso sui fondali marini". 

Comerio capisce invece che quella tecnica può diventare una gallina dalle uova d'oro. Mette in piedi una società, la Odm, (naturalmente con sede nel paradiso fiscale delle Isole Vergini) e acquista i diritti della nuova tecnologia. Scopre un giudice a Lubiana che dà la patente al nuovo sistema sostenendo che non è in contrasto con la Convenzione Onu. È il colpo dello starter. Da quel momento Comerio si mette sul mercato anche attraverso un sito Internet: fa il giro dei governi del globo proponendo di smaltire le scorie a prezzi scontatissimi. Francia e Svizzera rifiutano. Ma le commesse, soprattutto quelle in nero, cominciano a fioccare. 

La mappa degli affondamenti è quella studiata, nel Mediterraneo e negli oceani, dal gruppo di scienziati di Ispra. Ormai il progetto è fuori controllo. Nelle mani di Comerio cambia natura. Nell'audizione di fronte alla Commissione che indaga sulla morte di Ilaria Alpi, il pm Pace riferisce un particolare incredibile. La storia di "una intesa con una giunta militare africana, che si impegnava a cedere a Comerio tre isole, di cui una sarebbe stata affidata a lui, per installarvi un centro di smaltimento di rifiuti radioattivi in mare, un'altra sarebbe stata ceduta a Salvatore Ligresti, in cui avrebbe costruito villaggi turistici, la terza infine sarebbe stata data al professor Carlo Rubbia, affinché potesse installarvi un reattore di potenza abbastanza piccolo, per fornire energia sia all'impianto di smaltimento sia ai villaggi". Rubbia e Ligresti, naturalmente, rifiutano il progetto. 

Il meccanismo è inarrestabile. Comerio contatta i governi della Sierra Leone, del Sudafrica, dell'Austria. Propone affari anche al governo somalo: 5 milioni di dollari per poter inabissare rifiuti radioattivi di fronte alla costa e 10 mila euro di tangente al capo della fazione vincente dell'epoca, Ali Mahdi, per ogni missile inabissato. Pagamento estero su estero, s'intende. A provarlo ci sono i fax spediti da Comerio nell'autunno 
del 1994 al plenipotenziario di Mahdi, Abdullahi Ahmed Afrah, e acquisiti dalla commissione di inchiesta sulla morte di Ilaria Alpi. La giornalista della Rai aveva scoperto il traffico e, cosa più pericolosa, 
la tangente? 

Qualcosa di simile aveva scoperto De Grazia. Su ordine del pm di Reggio, Francesco Neri, aveva perquisito a Garlasco l'abitazione di Giorgio Comerio: era il settembre 1995, un anno dopo la morte dei giornalisti in Somalia. Il capitano italiano seguiva le rotte delle navi dei veleni. Indagava sulla Riegel, affondata nel 1987 nello Ionio e sulla Rosso, spiaggiata davanti ad Amantea il 14 dicembre 1990. 

Navi cariche di veleni, "almeno trenta", secondo diversi pentiti. Nella cabina di comando della Rosso si scopre una mappa di siti per l'affondamento, la stessa che sarebbe stata trovata, cinque anni dopo, nell'abitazione di Comerio. De Grazia indaga sugli affondamenti ma anche sulle rotte. E scopre che se il cimitero dei veleni è nei mari del Sud Italia, i porti di partenza sono nel Nord, in quell'angolo misterioso tra Toscana e Liguria dove si incontrano due condizioni favorevoli: l'area militare di La Spezia e le cave di marmo delle Alpi Apuane. Perché l'area militare garantisce la riservatezza e il granulato di marmo copre le emissioni delle scorie radioattive: "Stavamo andando a La Spezia - riferisce oggi uno di coloro che si trovavano sull'auto di De Grazia nel suo ultimo viaggio, il 12 dicembre - per verificare al registro navale i nomi di circa 180 navi affondate in modo sospetto negli ultimi anni e partite da quell'area". Il capitano non sarebbe mai arrivato a La Spezia. Ma aveva già scoperto molte cose. 

Sapeva, ad esempio, che nella casa di Comerio c'era una cartellina: "una carpetta - riferisce Neri - con la scritta Somalia e il numero 1831. Nella cartella c'era il certificato di morte di Ilaria Alpi". Oggi, naturalmente, scomparso dagli atti. 

(1.continua)
HHH

Affari velenosi
26 settembre 2009

La cosa più strana erano i bracci delle gru che sporgevano dal pontile. Come se stessero lavorando in porto. Ma la nave galleggiava al largo, «circa dieci miglia a nord di Marciana Marina». Uno spettacolo inconsueto per una sera d' estate di fronte alle spiagge dell' Elba. Che cosa ci faceva in quel tratto di mare, alle 21 del 5 luglio scorso, la portacontainer maltese "Toscana"? «Abbiamo osservato la nave con l' aiuto di binocoli e ci siamo accorti che l' equipaggio lavorava sulle gru gettando alcuni oggetti fuori bordo. Gli oggetti sembravano essere container da 16 piedi (circa 5 metri)». Questo scrivono nel loro rapporto all' autorità portuale gli uomini della Thales, un' imbarcazione tedesca che partecipa a progetti internazionali insieme a Legambiente. Qualsiasi cosa stessero facendo a bordo del Toscana, la presenza degli intrusi non è gradita: «Abbiamo cambiato immediatamente rotta per seguire più da vicino l' attività sul ponte - scrivono ancora gli ambientalisti tedeschi ma dopo poco tempo la nave ha preso una rotta di collisione con noi». Un vero e proprio inseguimento: «Abbiamo dovuto fare una manovra di emergenza virando di 45 gradi ma dopo pochi minuti la ' Toscana' era nuovamente in rotta di collisione». Di quella sera restano la denuncia dell' imbarcazione tedesca («veritiera e in accordo con le regole della marina Mercantile Britannica») e le fotografie scattate a rischio della vita. Dunque, la storia delle navi dei veleni continua oggi. Nonostante le denunce, le indagini, gli arresti. Spiega Paolo Russo, ex presidente e membro della Commissione d' inchiesta sul ciclo dei rifiuti: «Spesso non è necessario affondare una nave per seppellire i rifiuti. Quando i pentiti parlano di affondamenti si riferiscono anche al lancio dei container fuori bordo». I motivi sono economici e, talvolta, militari. «Smaltire un rifiuto pericoloso - dice il pm Luciano Tarditi - può essere più conveniente che trafficare con la droga. Anche solo per il fatto che chi smaltisce rifiuti viene considerato un benefattore della società e viene pagato con denaro pulito». I motivi militari, come vedremo, riguardano la necessità di nascondere attività politicamente inconfessabili affidandosi ai service della criminalità organizzata. La lunga storia del sito Enea di Rotondella in Basilicata è un esempio di scuola. Secondo i dati raccolti dalla commissione presieduta da Russo, ogni anno spariscono in Italia «tra i 6 e gli 8 milioni di tonnellate di rifiuti pericolosi che è come dire una collina alta 300 metri». In sedici anni la massa delle sostanze sparse illegalmente nell' ambiente arriva all' altezza del Monte Bianco. Per lungo tempo, spiega il parlamentare del Pdl, i rifiuti prodotti al Nord percolavano lungo la penisola fino allo smaltimento illegale a Sud: «Punto di snodo essenziale di questa attività era l' area della Toscana e della Liguria». Quel golfo dei veleni e dei misteri che parte da La Speziae arrivaa Livorno. Da qui negli anni ' 90 sono partite le navi destinate al naufragio sulle coste di fronte alla Calabria o alla Somalia. Da La Spezia è partita nel dicembre del 1990 la Jolly Rosso, ormai ridenomianta Rosso, dell' armatore Ignazio Messina. Sempre a La Spezia il pm Tarditi ha scoperto il gravissimo inquinamento della discarica di Pittelli - sulla collina che guarda il porto commerciale - di proprietà di Orazio Duvia, uno dei signori italiani dei rifiuti. «A Pittelli- ricorda l' avvocato di Legambiente Riccardo Lamma - fu trovato di tutto e in due dei cinque strati della discarica le trivelle non sono riuscite ad arrivare». Nella parte analizzata sono saltati fuori, tra gli altri, alcuni fusti dell' Union Carbide, la società responsabile del disastro di Bophal. «Durante i lavori di bonifica - riferiscono gli abitanti della zona - un operaio forò con la benna un bidone e morì il giorno dopo per la nube tossica sprigionata». L' arresto di Duvia e di altri 9 personaggi coinvolti nel disastro ambientale è del 28 ottobre 1996. Partendo dall' indagine di Tarditi un pool di giornalisti di Famiglia Cristiana riuscìa risalire al traffico di rifiuti verso la Somalia e all' omicidio di Ilaria Alpi. La procura di La Spezia invece è stata meno efficiente: il pm astigiano trasmise gli atti, per competenza territoriale, nel dicembre del ' 96. Incredibilmente ancora oggi non si è concluso il dibattimento in primo grado: la speranza degli imputati superstiti è di conquistare, nel 2011, la prescrizione dei reati. Le dichiarazioni all' Espresso del pentito Fonti, che parla di due affondamenti, uno di fronte a Livorno e uno di fronte a La Spezia, hanno spinto Legambiente a chiedere nuove indagini di fronte al porto ligure: «Le analisi condotte dell' Ircam e rese note in un rapporto del 2005 - rivela la legale degli ambientalisti, Valentina Antonini - mettono in evidenza "livelli preoccupanti di rame" e altri metalli nella rada di fronte alla città. Vogliamo sapere se questo è dovuto all' inquinamento di chi negli anni scorsi può aver gettato in mare rifiuti tossici che finirebbero per rappresentare un grave pericolo per la sicurezza dei cittadini». Per questo Antonini presenterà nei prossimi giorni un esposto alla procura chiedendo che sul punto venga sentito Fonti. Il business dell' inquinamento nasce dai costi molto alti dello smaltimento legale: «Abbassare i © RIPRODUZIONE RISERVATA prezzi dello smaltimento pulito è la vera scommessa da vincere», dice Paolo Russo. Oggi la differenza è decisamente favorevole alla soluzione criminale. Secondo uno studio inglese e i risultati delle indagini di Legambiente, trattare in modo legale una tonnellata di sostanze pericolose in Occidente può costare tra i 100 e i 2.000 euro, a seconda del tipo di rifiuto. In Africa il tariffario per sostanze dello stesso tipo va da 2,5 a 50 euro a tonnellata, come dire quattrocento volte di meno. Un risparmio medio di 1.000 euro a tonnellata che in Italia vuol dire un business illegale di 8 miliardi all' anno. Luciano Tarditi spiega che «uno dei sistemi utilizzati è quello del cosiddetto giro bolla». Con una serie di trattamenti fittizi i rifiuti pericolosi vengono ridotti a rifiuti assimilabili a quelli urbani e finiscono in discarica con questi ultimi. «Il fatto grave - aggiunge Russo - è che in questo modo le sostanze tossiche possono finire nel compost venduto agli agricoltori come concime. Anni fa sono stati sequestrati per questo motivo 4 ettari di terreno già coltivatia mais e ovviamente inquinati». Non si saprebbe quale dei due mali, l' inquinamento dei mario quello delle campagne, sia il peggiore. Ma come vedremo, soprattutto quando i rifiuti sono radioattivi, il primo è spesso la conseguenza del secondo. (2.continua) -

PAOLO GRISERI FRANCESCO VIVIANO LA SPEZIA
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Dalle navi dei veleni ai rifiuti radioattivi si indaga sulle morti sospette
29 settembre 2009

Vista dall' alto, dai satelliti, la zona è calda: «In media cinque gradi in più. Un' anomalia vistosa e preoccupante. Lo dicono i tecnici, lo confermano le prime indagini di questi mesi». Purtroppo lo confermano anche le statistiche sui tumori nella zona: il procuratore di Paola, Bruno Giordano, non deve solo occuparsi delle navi sommerse al largo della costa, che ormai sono diventate di competenza della Dda di Catanzaro: «In realtà - spiega - la nostra indagineè partita dalla discarica radioattiva di Serra d' Aiello lungo il corso del fiume Oliva. Oggi siamo in attesa di avere i risultati della analisi sul terreno e dell' indagine sanitaria». Perché le statistiche sui morti per tumore nella zona sono preoccupanti: «Siamo in presenza di un eccesso significativo di mortalità nell' area del distretto sanitario di Amantea rispetto a restante territorio regionale» scrive nella sua relazione Giacomino Brancati, l' esperto nominato dalla procura per l' indagine epidemiologica. Brancati osserva «un eccesso di tumori maligni della tiroide» e, sia pur «nell' impossibilità di esprimersi in termini di causalità netta», parla di «una quantitàe una tipologia di inquinanti nel bacino del fiume Oliva tali da poter determinare un danno per la salute dei residenti». Segue un elenco di sostanze: «cesio 137, antimonio, cadmio». Il caso di Serra d' Aiello non è purtroppo isolato. Discariche illegali di rifiuti radioattivi sono state create in diverse zone dell' Italia. Soprattutto tra la seconda metà degli anni ' 80 (dopo Chernobyl e il referendum italiano sul nucleare) e la prima metà degli anni ' 90: «La necessità di disfarsi in fretta delle scorie - dice Giuseppe Onufrio di Greenpeace Italia - favorì il business dello smaltimento illegale». Già nel 2004 il boss Francesco Fonti, il pentito che ha rivelato il luogo dell' affondamento della nave recentemente ritrovata al largo della Calabria (grazie anche all' impegno dell' assessore regionale Silvestro Greco), aveva affermato che «nell' 87 l' affare dello smaltimento illegale dei rifiuti radioattivi valeva per la ' ndrangheta circa 200 miliardi all' anno». Una cifra che giustificava ampiamente l' affondamento di vecchie carrette del mare e che presupponeva solidi rapporti con la politica e l' alta finanza. Nell' interrogatorio di cinque anni fa Fonti aveva fatto i nomi di alcuni esponenti locali del Psi e del leader della Dc Emilio Colombo. Il traffico aveva come perno il centro Enea di Rotondella, in Basilicata. Da qui sarebbero partite almeno quattro spedizioni: nell' 87, nell' 89, nel ' 91 e nel ' 93. Rocambolesco e inquietante il viaggio del primo carico: una parte (10 camion stipati di fusti) venne scaricata a poca distanza, sul greto del Basento, in località Bernalda. Ma il resto del materiale, altri 30 camion, finì in Somalia partendo da Livorno e Marina di Carrara. La nave «Lynx» da Marina di Carrara doveva andare a scaricare a Gibuti. Ma qui venne respinta dalla polizia francese: «Rimase al largo due mesi - ricorda Fonti - fino a quando il broker, la società romana "Finchart" collegata alla finanziaria svizzera "Achair&parner" di Lugano, decise che si sarebbe scaricato a Porto Carvelo in Venezuela». Il governo di Caracas se ne accorse e nel settembre dell' 87 impose all' Italia di riprendersi i fusti. Che vennero caricati su una nuova nave diretta in Siria. Da qui, dopo un nuovo trasbordo, giunsero in Somalia e vennero probabilmente interrati sotto la strada, allora in costruzione, che partiva da Bosaso. Nell' interrogatorio del 24 aprile 2004 Fonti rivela altri due particolari che potrebbero ora essere il punto di partenza di nuove indagini. Il primo è l' affondamento nello Ionio di due navi dei veleni: «A fine ' 91, inizio ' 92, nella zona che va da Policoro a Ginosa, davanti alla costa della Basilicata, sono state affondate due navi». A bordo ci sarebbero «bidoni chiusi dentro dei container provenienti da Trisala», cioè dal centro Enea di Rotondella. Il pm di Potenza, Felicia Genovese, incalza: «Sono affondate come?». «Di proposito». «Come si chiamano queste navi?». «Una si chiama Anne e l' altra Euro River, entrambe battevano bandiera maltese». «Come fa ad individuare quella parte di mare?», chiede il pm. Nella risposta Fonti rivela il secondo, importante, particolare: «Una volta, nel ' 93, parlando con l' ingegnere Giorgio Comerio a Milano, mi disse che lui aveva dato ordine al capitano di affondare queste navi che avevano all' interno rifiuti, fanghi e scorie». Nella figura di Giorgio Comerio da Garlasco ci eravamo già imbattuti all' inizio di questo racconto. Si tratta dell' ingegnere che aveva collaborato al centro Euratom di Ispra per realizzare il sistema con cui conficcare sul fondo degli oceanie del Mediterraneo le scorie radioattive. Progetto poi rifiutato dai governi. Comerio lo aveva fatto proprio, tentando di venderlo ad alcuni stati africani come la Somalia e la Sierra Leone. È lui uno dei tramiti con le finanziarie europee che compaiono nei dossier sui rifiuti. Un mare di società come la International Veco services con sede nel Lussemburgo, a sua volta socia della Trefinance Sa, sempre lussemburghese,e la Fitrade services international dell' avvocato londinese David Mills. Nella casa di Comerio, durante la perquisizione ordinata dal pm di Reggio Calabria, il capitano di vascello Natale De Grazia, aveva inspiegabilmente trovato una cartellina con il certificato di morte di Ilaria Alpi. Era il settembre del 1995. A dicembre De Grazia morì improvvisamente (e da tempo i familiari chiedono la verità su quella morte). Il 28 gennaio 2005, «su richiesta della Commissione parlamentare di inchiesta sulla morte di Ilaria Alpi», il pm di Reggio Calabria, Gabriella Cama «procede all' apertura dei plichi dove sono contenuti i documenti sequestrati al fine di rinvenire gli atti richiesti». Il verbale è un crescendo: «Constatato che il plico risulta danneggiato... vi sono 21 cartelline di colore azzurro... si dà atto che manca la numero 4.... non si trovano i documenti... non si rinviene il certificato di morte di Ilaria Alpi». (3. Fine) -

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