Hop on Pop, la svolta razzista di Silvio Berlusconi
Strano destino quello della Psicologia delle masse, letto e saccheggiato da Mussolini,
usato involontariamente con profitto da Berlusconi: hop on pop, saltando sul popolare, applicando Le Bon.

Martedì 12 maggio 2009, 17:29"il potere pastorale è tutt’altro che tramontato, infatti
aspetti centrali della sua meccanica hanno trovato una larga diffusione nell’epoca moderna”
Michel Foucault

La diffusione dello studio, promosso dal Sole 24 ore, sulla marcata tendenza degli operai a votare a destra ha suscitato a sinistra reazioni di panico più o meno espresso esplicitamente. Questo panico può anche essere razionalmente produttivo se si comprende il tessuto antropologico che genera queste tendenze. E qui, prima di tutto, dobbiamo comprendere una cosa: non è tanto scomparsa la classe operaia quanto si è estinta la cultura operaia per come l’avevamo conosciuta. Chi osserva le ristrutturazioni della classe operaia si trova quindi di fronte allo stesso rompicapo che ormai conosce bene anche chi cerca una nuova cultura di classe nei lavoratori della conoscenza: dove c’è sfruttamento del lavoro da parte del capitale non c’è cultura collettiva da parte dei subordinati. Siano questi operai della piccola e media industria, interinali della grande distribuzione o lavoratori cognitivi. In questo caso resuscitare la vecchia dicotomia tra classe in sé, che esiste di fatto, e classe per sé, che di fatto non si manifesta, serve solo ad aumentare la bibliografia in materia di fenomenologie piegate inutilmente ad uso politico. Oppure a far tornare di moda un tardo idealismo della coscienza di classe, timoroso di una prognosi epocale sulla crisi della consapevolezza del lavoro.
E’ infatti curioso, in assenza di una cultura collettiva dell’antagonismo del lavoro, che siano rare le riflessioni sul rapporto tra scomparsa della stessa base materiale delle culture antagoniste tradizionali (fine della trasmissione delle culture che usavano il territorio urbano come media, della trasmissione generazionale di tipo orale e cartacea, della centralità del sapere legata alla figura dell’intellettuale critico) ed imporsi della ristrutturazione del sapere popolare entro una base digitale e mediale (dove le manifestazioni della cultura popolare sono sussunte dal linguaggio ancora egemonico utilizzato dalla televisione generalista che incontra, semplifica e spoliticizza qualsiasi espressione culturale dal basso anche digitale ). Su questo tema si preferisce affidare la risoluzione del dilemma dell’assenza di una manifestazione delle culture dal basso nell’universo del lavoro interrogando stregoni di qualche secolo fa come se la filosofia da sola potesse trasformare il mondo con le armi concettuali precedenti alla rivoluzione industriale. Eppure Marx era stato chiaro: “i filosofi hanno solo interpretato il mondo in modi diversi: ora si tratta di mutarlo” (decima tesi su Feuerbach). Il punto, profondamente marxiano, è quindi che quel sapere che muta il mondo stravolge anche i caratteri e le discipline della conoscenza necessaria per mutarlo. Però, una volta abbandonato un atteggiamento da stregoni del sapere, il dilemma dell’assenza di culture dal basso è quindi concettualmente presto risolto. Se si segue una lettura antropologica si capisce infatti come negli ultimi decenni, alla fine della base materiale delle culture antagoniste, abbia seguito la ricombinazione delle culture popolari dal basso entro piattaforme mediali nelle quali la rappresentazione delle classi subalterne è neutralizzata e subordinata. Alla fine delle culture antagoniste tradizionali ha seguito quindi una cultura mediale verticale, che per natura cerca di imporsi come centrale nella società, che alimenta comportamenti diffusi di subordinazione entro tutta la morfologia sociale proprio perché li interpreta. Finché le culture digitali dal basso non riescono a rompere questa centralità del media mainstream che propone con successo comportamenti sociali subordinati, questa condizione di marginalità delle culture antagoniste è destinata a riprodursi.
Se tutto questo favorisce una risposta elettorale, e di comportamenti, di destra da parte del ceto sociale erede della classe operaia tradizionale non c’è quindi da stupirsi se il potere pastorale berlusconiano coltiva il razzismo in assenza di protagonismo delle culture antagoniste. Quello di Berlusconi infatti è un autentico potere pastorale, riletto alla luce del potere di attrazione sociale e politico della televisione generalista sui saperi e i comportamenti del tessuto sociale. Vede Berlusconi come guida e pastore della società italiana, il media generalista come governo di questa egemonia di guida e come strumento di selezione dei comportamenti e dell’immaginario, le culture antagoniste come lontano elemento subalterno. Il razzismo alimentato da Berlusconi si rivela quindi come una strategia di complemento del potere pastorale: radicalizza, nel doppio senso di estremizzare e di dare radici, la tendenza dei ceti subalterni ad essere governati sul piano politico e su quello dei contenuti.
Non a caso quindi in Hop on Pop (2002) di Henry Jenkins, McPherson e Shattuc nel momento in cui si cerca di comprendere il rapporto tra politica e digitalizzazione, ormai compiuta, delle culture popolari si fa attenzione al processo di embedding delle culture mediali generaliste nei comportamenti. Queste promuovono, secondo gli autori, un processo di intimizzazione dei contenuti nella vita quotidiana che finisce, aggiungiamo noi, per emarginare le culture antagoniste. Che sono lontane dal saper trasmettere intimità alla sostanza del corpo sociale che è, invece, governata dal potere pastorale che in questo paese coincide con il proprietario del maggior network televisivo fattosi ancora più pastore nel momento in cui ha assunto anche il potere politico. Quindi, nel momento in cui in Hop on Pop si denuncia l’errore, da parte dei cultural studies, di non aver capito la politicità di questi studi noi possiamo dire: in ciò che è impolitico e spoliticizzante nei comportamenti dei ceti subalterni riusciamo a capire cosa manca alle culture antagoniste per rompere l’egemonia del potere pastorale mediale. E, in questa prospettiva di lettura, riusciamo anche a comprendere come questo potere pastorale sia politico nel momento in qui è in grado di togliere sia visibilità che significato autonomo alle figure del lavoro. E in questo senso, dal consenso operaio a destra alle dichiarazioni pubbliche di Berlusconi su “l’Italia non è un paese multietnico” il passo è breve quando l’egemonia politica e culturale sono assicurate. E l’affermazione di risposta a Berlusconi, fatta da un ampio spettro di soggetti dalla chiesa alle associazioni più radicali, “l’Italia è già un paese multietnico” in questo contesto rischia di essere la classica frase vera che non ha alcun effetto sul reale. Infatti se l’Italia, da diversi lustri, è un paese multietnico non lo è infatti, e da sempre, su ciò che costituisce centro e gerarchia della società ovvero la rappresentazione di questo paese nei media generalisti. E qui giova ricordare che in Hop on Pop si ricostruisce quel terreno antropologico che favorisce l’immaginario multietnico della società americana in serie televisive storiche come Star Trek (che radicalizza la mescolanza etnica nell’idea di cooperazione tra specie diverse). Quest’esempio di Star Trek come tessuto antropologico dell’accettazione del multietnico nel politico americano era stato citato di nuovo dallo stesso Jenkins poco prima dell’elezione di Obama. Detto questo bisogna considerare quindi come Berlusconi faccia, nel suo “l’Italia non è uno paese multietnico”, non tanto rimozione dello stato del paese reale ma soprattutto separazione tra l’immaginario televisivo dominante sull’Italia e quello sugli Usa da parte dello stesso pubblico televisivo italiano. Perché se il media dominante è il centro d’attrazione di immaginario e comportamenti che gerarchizza e connette l’intera società, separare l’immaginario televisivo italiano da quello americano significa valorizzare l’immagine autarchica mediaticamente trasmessa della nostra società a fini di potere politico pastorale. In questo modo si cerca di chiudere le culture subalterne nel cerchio magico che vuole comportamenti elettorali di destra trovare un piano antropologico profondo come garantito da fenomeni razzisti. Una permanente riserva di voti e di comportamenti pronti ad erogare consensi ad un potere pastorale che si mostra come stabile. Questo non vuol dire che Berlusconi smetterà di far trasmettere le repliche di Star Trek ma che valorizzerà le immagini non multietniche della società italiana trasmesse dalla televisione generalista. Motivo in più per comprendere che questo al potere è un regime dello spettacolo che si fa regime politico nel corollario di un’egemonia sull’informazione e sui comportamenti diffusi. E qui una cosa è sicura: o c’è un traumatico salto epistemologico nel fare politica dal basso o nessuno uscirà politicamente vivo di qui. E in un contesto in cui, vista la portata della crisi, la sopravvivenza è messa in discussione per molti anche sul piano materiale. E qui bisogna ricordare, su questi temi, l'indirizzo strategico di Gustave Le Bon nella Psicologia delle masse: "Le istituzioni e le leggi sono la manifestazione della nostra anima, l'espressione dei suoi bisogni. Mutando quest'anima, istituzioni e leggi non saprebbero cambiarla". Ed è inutile su questo piano pensare un potere pastorale semplicemente come un biopotere. Dalle origini e tanto più nella società della conoscenza questo è un potere sull'anima. E questo potere pastorale parla alla dimensione inquieta dell'anima, quella che non è contenibile dalle leggi, per indirizzarla verso un governo dove tra pastore e governati non c'è mediazione della norma ma immediatezza delle sensazioni. C'è solo l'empatia tra capo e subordinati, in diretta tv che penetra su tutte le piattaforme mediali, nelle battute scambiate per sms, nelle conversazioni private, nei forum, nelle chat, circolando come un virus sui treni, nei bar e nelle soste agli Autogrill.
E in questa dimensione non c'è costituzione che tenga, per quanto formalmente rigida. La rivoluzione conservatrice è matura, sulle spalle di una tv commerciale. Chi non sa raccogliere questa sfida è ai margini della società e fuori dal mondo della politica. E qui, sicuramente molti si aggrapperanno al reale, alle norme, alla costituzione, al dato di fatto che l'Italia è già una società multietnica per sperare di neutralizzare il messaggio di Berlusconi, costruendosi quella convinzione che vuole il dato di fatto occultato oggi pronto a sbocciare come riconosciuto da tutti domani. Non si può che rispondere loro che con un altro passo della Psicologia delle masse: "in effetti, la prospettiva può trasformare il cubo in piramide o in un quadrato, il cerchio in ellisse o in una linea diritta, e queste forme fittizie sono molto più importanti da considerare delle forme reali". Potenza della prospettiva, che invece nel Rinascimento emerge come rappresentazione di un nuovo realismo, è quella di governare la psicologia e i comportamenti delle masse indirizzandole al di fuori delle forme reali. E' il fenomeno che Le Bon chiama contraddizione tra ragion pura, quella delle forme apriori, e ragion pratica, quella dell'agire politico. E Berlusconi la prospettiva la governa anche fenomenologicamente: mentre nel Rinascimento il governo della prospettiva è nella rappresentazione pittorica della finestra entro il quadro, in una impressione realistica di profondità, nella tv commerciale la finestra tecnologica dello schermo dissolve la rappresentazione delle forme reali per arrivare direttamente al governo dell'animo. Strano destino quello della Psicologia delle masse, letto e saccheggiato da Mussolini, usato involontariamente con profitto da Berlusconi: hop on pop, saltando sul popolare, applicando Le Bon.