Ettore Scola: «Sto con i rom brutti, sporchi e cattivi»
9 novembre 2007 Roberto Cotroneo
Ma che città è diventata Roma? La grande capitale che nei decenni ha accolto immigrazioni di ogni tipo. Oppure sta cambiando? La tollerante città che ha convissuto con le borgate e le periferie, trasformandole in argomenti e luoghi persino letterari e cinematografici, oppure una nuova città, tesa e con problemi di ordine pubblico e di sicurezza, come vuole la destra? Dopo la tragedia della donna assassinata sono in molti a chiedersi che luogo sia mai diventato. E forse sono anche troppi quelli che cominciano a dipingere la città del Vaticano e della Politica come un punto nevralgico, e in negativo, di tutte le contraddizioni dell’era globale.

Ma forse così non è, anche se l'emotività incontrollabile può generare fantasmi ed equivoci. Forse in fondo Roma non è molto cambiata dai tempi in cui Pier Paolo Pasolini girava Accattone e frequentava le borgate, o Ettore Scola firmava uno dei suoi film più celebri: Brutti, sporchi e cattivi. 

Era il 1976, e il grande regista scrisse la sceneggiatura per un film interamente ambientato in una baraccopoli, a due passi dal Vaticano. La storia di un patriarca pugliese, impersonato da Nino Manfredi, immigrato in una borgata romana, che per far dispetto alla sua tribù familiare, si porta a casa una prostituta grassa e brutta imponendo la sua presenza agli altri della famiglia, moglie compresa, che cercano di avvelenarlo nella speranza di mettere le mani su un milione che lui ha ottenuto come indennizzo per un occhio perso. 

Un film grottesco, antipopulista, che all’epoca suscitò forti polemiche, anche perché non dava un’immagine edulcorata e ideologica del sottoproletariato. Ma, anzi, semmai un’idea vera e cruda di un mondo di sommersi. Oggi i sommersi non sono più i sottoproletari italiani, ma gli stranieri.
Siamo andati a trovare Scola, per capire con lui, come è cambiata questa città.
E se oggi è possibile scrivere un film sui nuovi mondi fatti da emarginati poverissimi e stranieri.

Scola, come le venne allora l’idea di "Brutti sporchi e cattivi"?
«Intanto già nel 1968 avevo voglia di fare un film sull’immigrazione dei ragazzi che dal sud andavano a lavorare alla Fiat di Torino. Era Trevico-Torino. Io sono nato a Trevico, un paese in provincia di Avellino. Le immigrazioni sono tutte diverse ma con cause ed effetti identici. La prima emigrazione fu quella degli italiani che andarono a lavorare in America o in Germania; la seconda quella che dal sud portò i meridionali nel triangolo industriale; e poi quella di Roma, delle borgate, di cui aveva parlato Pasolini».

Quella che Pasolini chiamava: il genocidio culturale.
«Infatti. La spinta è stata la stessa per i due film: per Trevico-Torino e poi Brutti, sporchi e cattivi. Ho sempre ho avuto un interesse per questi temi. Sarà che quando ero bambino e c’era la festa del paese, lo ricordo bene, veniva la banda, la gente dai paesi attorno, le bancarelle, le processioni, e venivano gli zingari, i rom. E mi ricordo che a noi bambini ci dicevano: non uscite, attenti. E una volta un pastorello fu trovato morto dietro un cascinale, e ci fu la convinzione che erano stati gli zingari».

Invece?
«Mio padre era il medico condotto del paese. E capì invece che il bambino era stato ucciso dal calcio di un mulo.
Ma già era iniziata la caccia agli zingari».

Lei si è trasferito a Roma che aveva cinque anni. Come la ricorda quella Roma delle borgate?
«Quella tolleranza romana, di quegli anni, credo non esista più. Come non esiste più una tolleranza italiana. Noi italiani non abbiamo mai avuto un sentimento nazionale profondo. Non abbiamo mai avuto un’identità da difendere. Roma aveva una tolleranza che era poi anche figlia dell’indifferenza romana. Questo atteggiamento romano di chi guarda, e guarda passare chiunque. E quindi diventava anche una virtù, una garanzia, per lo straniero, di maggiore anonimato».

Com’erano le borgate nella Roma di Pasolini, che lei ha conosciuto bene?

«Molta percezione di Roma "centro" di quelle che erano le borgate era molto influenzata da Pasolini. Pasolini era un intellettuale molto influente, e fuori dal coro. Ed era molto seguito. Accattone fu un film bellissimo e illuminante. E dieci anni dopo pensai di riprenderlo e di continuarlo con Brutti, sporchi e cattivi».

Erano cambiate molte cose?
«Forse era ancora più disumana la mia borgata, rispetto a quella di Pasolini. Io feci leggere la sceneggiatura del film a Pasolini, e avevamo anche pensato a un prologo. Dove Pasolini appariva all’inizio del film e spiegava cosa era cambiato in dieci anni. Ma venne ucciso prima di girare quella scena. E il film uscì senza prologo».

Lei andò con Pasolini a vedere le baraccopoli?
«Sì, e mi presentò molti suoi conoscenti che divennero attori del film. Ettore Garofalo, ad esempio, quello di Mamma Roma».

E come erano le borgate?
«Erano mondi a parte da cui i baraccati uscivano per arrivare al centro di Roma. Io ricordo orribili marce di protesta dei borghesi, dei benestanti, fatte nel centro di Roma, contro la metropolitana che portava la gente delle borgate al centro della città».

C’era una percezione di pericolo nella città?
«No, pericolo no. C’era una divisione strettamente sociale».

Quando lei girò il film cercò di raccontare il mondo dei baraccati nel modo più realistico e crudo possibile.
«Manfredi fu bravissimo. E il film fu accolto abbastanza male. Goffredo Fofi mi accusò di essere un regista razzista che giocava sul destino dei diseredati. Mi stupì, perché non capì il lato swiftiano del mio film».

Ma oggi si potrebbe fare un film sui rumeni e sui rom di Tor Bella Monaca?
«Certo, si dovrebbe fare. Credo che però ci sia un po’ di disaffezione per il nostro paese. Io ricordo l’amore che si aveva per il nostro paese. Gente come Elsa Morante, Zavattini, Rossellini, Pavese, De Sica aveva affetto e dunque attenzione per il nostro paese. Oggi non si fa altro che dire che va tutto male. Invece bisognerebbe cercare di stimolare quel meglio che c’è in ognuno di noi».

Vuole dire che per capire bisogna aderire alle cose. Avere attenzione per i mondi altri, anche quelli più lontani da noi. Amare anche le contraddizioni?
«Penso di sì. Ormai prevale la paura, e il più indifeso si rifugia nei luoghi comuni. È il modo più semplice per consolarsi».

Quando lei ha letto la storia della donna uccisa dal baraccato nel quartiere di Tor di Quinto a Roma, ha pensato al suo film?
«Ho pensato: questo cosa provocherà? Ho letto di leggi speciali, di rimpatri. Mi sono venuti in mente i treni blindati... La storia non insegna mai niente, purtroppo».

Voi del mondo dell’emarginazione sapevate tutto. Noi non sappiamo nulla.
«È vero, oggi non sappiamo niente. E poi credo una cosa. Quando si andava a vedere Ladri di bicicletta, la perdita del lavoro di quell’imbianchino, finiva per appartenermi, appassionarmi e coinvolgermi. Anche se appartenevo a un’altra classe sociale, diventava una cosa mia».

L’arte, il cinema, la letteratura, come forme empatiche, emozionali, che ci rendono più tolleranti. Intende questo?
«Sì, e senza la mediazione della cultura lo straniero diventa solo pericolo. Oggi invece c’è un trionfo dell’irrazionalità. Non abbiamo gli strumenti per capire i nuovi Brutti, sporchi e cattivi. Io credo che la colpa sia proprio nostra: dei cineasti, dei giornalisti, degli scrittori, dei poeti, degli intellettuali, che nel passato hanno svolto un ruolo di mediazione, riuscendo a far capire quella che possiamo chiamare la diversità. E poi oggi non c’è più amore per questo paese. Se tu non ami il tuo paese, non ami più nulla, e difendi solo i tuoi interessi. Poi cerchiamo di non confonderci. Tutto questo non ha a che fare con la richiesta di legalità. Quella è ovvia e sacrosanta».