1 febbraio 2010 rivelazioni shock al processo Mori:
«Ciancimino e i boss investirono su Milano 2»
Il figlio dell'ex sindaco di Palermo al processo ai generali dei carabinieri accusati di favoreggiamento alla mafia.
«Provenzano aveva immunità assoluta».«Mio padre aveva "linea rossa" con boss, politici e 007». «Dopo accertamenti commissione antimafia investimenti diversificati in una grande realizzazione alla periferia di Milano: Milano 2».

Le rivelazioni di Ciancimino al processo Mori

I soldi investiti dal padre, don Vito Ciancimino, a Milano 2, i piani di Riina per uccidere Piero Grasso, Calogero Mannino e Carlo Vizzini, l'immunità territoriale di cui Bernardo Provenzano ha goduto anche nel periodo delle stragi del 1992. Sono rivelazioni bomba quelle che Massimo Ciancimino, figlio dell'ex sindaco di Palermo, sta facendo ai magistrati che lo stanno ascoltando come testimone nell'aula bunker dell'Ucciardone, a  Palermo, nell'ambito del processo al generale dei carabinieri Mario Mori e al generale Mauro Obino, che sono accusati di favoreggiamento aggravato alla mafia.

"Sono tranquillo. Deporrò in questo processo, dicendo tutta la verità", ha detto Ciancimino prima di entrare nell'aula. Ma il testimone denuncia anche intimidazioni da parte dei servizi.  «Nel maggio del 2009 ho ricevuto la visita di un uomo dei servizio segreti, nella mia casa di Bologna, e mi accusò di essere venuto meno agli impegni presi. Mi ha chiaramente intimidito dicendomi che la strada che avevo cominciato a percorrere non mi avrebbe dato alcun beneficio». Secondo Ciancimino jr.  gli 007 non avrebbero gradito la sua decisione di iniziare a fare le dichiarazioni ai magistrati sulla presunta trattativa tra Stato e mafia dopo le stragi del '92. E proprio sulla presunta trattativa, il testimone lancia pesanti accuse verso due ex ministri: «I ministri Rognoni e Mancino erano a conoscenza del dialogo intrapreso tra mio padre con il vice comandante del Ros, Mario Mori. Me lo disse mio padre che lo aveva saputo da un esponente dei servizi segreti".

"Dopo le inchieste e le denunce della commissione antimafia e il caso della sua querela al capo della polizia, mio padre decise di spostare i suoi investimenti lontano da Palermo", ha detto Ciancimino jr, ricostruendo gli affari di suo padre con i boss di mafia Salvatore e Antonino Buscemi e Franco Bonura. "Mio padre li chiamava i 'gemelli'. Ricordo negli anni '60 molte riunioni domenicale al ristorante la Scuderia a Palermo. Quando mio padre era assessore ai lavori pubblici dava indicazioni su un terreno che sarebbe diventato edificabile. Quei guadagni finivano in delle società in cui mio padre era interessato".

Negli anni '70 poi dopo gli accertamenti della commissione antimafia Don Vito Ciancimino decide di diversificare. "Alcuni suoi amici di allora Ciarrapico e Caltagirone e altri costruttori romani gli dicono di investire in Canada dove sono in preparazione le Olimpiadi di Montreal". Ma anche altri soldi saranno destinati a un altro progetto. "Una grande realizzazione alla periferia di Milano che è stata poi chiamata Milano 2". Ciancimino junior ha spiegato di aver acquisito queste informazioni sia direttamente dal padre sia attraverso la lettura di agende e documenti dello stesso genitore. "Insieme avremmo dovuto fare un memoriale per questo gli chiedevo sempre chiarimenti su qualcosa che ritenevo interessante".

Ciancimino è ritenuto dalla procura uno dei testimoni chiave della cosiddetta trattativa tra Stato e mafia che avrebbe visto il Ros dei carabinieri tra i protagonisti. Ai due ufficiali si contesta il mancato arresto, nel '95, del capomafia Bernardo Provenzano, all'epoca latitante. Secondo l'accusa proprio il blitz fallito per scelta dei carabinieri, sarebbe stato una delle poste in gioco nell'accordo tra pezzi dello Stato e le istituzioni.

Dopo l'omicidio di Salvo Lima, avvenuto il 12 marzo 1992, racconta il testimone, il padre incontrò Provenzano. «Mio padre disse che quanto accaduto a Lima era terribile perché la vittima si è sicuramente resa conto di quello che stava succedendo». Ciancimino Jr ha spiegato che suo padre «una settimana e dieci giorni dopo l'omicidio» venne a Palermo e si incontrò con Provenzano in una abitazione dai due considerata sicura vicino via Leonardo da Vinci. «La morte di Lima fu un elemento di rottura - ha detto - Riina aveva mandato a dire di non preoccuparsi ma il suo linguaggio era l'inizio della fine. Mio padre mi spiegò che quello messo in atto da Riina era un programma di una follia pura, una serie di politici e magistrati sarebbero stati eliminati tra loro Piero Grasso, il ministro Vizzini e Calogero Mannino».

Ciancimino junior sta ricostruendo in aula le frequentazioni del padre, ma anche gli incontri a cui avrebbe partecipato lo stesso Massimo quando era più giovane."Avevo saputo da mio padre che Provenzano godeva di una sorta di 'immunità territoriale che gli permetteva di muoversi liberamente" durante la sua latitanza "grazie a un accordo che aveva stipulato mio padre stesso". "Questa immunità era garantita da «un accordo alla stipula del quale era presente anche mio padre e che risale al maggio del 1992".
 

"Scoprii che la persona che conoscevo come 'signor Lo Verde' era Bernardo Provenzano negli anni Ottanta mentre mi trovavo dal barbiere a Palermo. Sfogliando una rivista, mi pare 'Epoca', vidi una sua foto e nella didascalia c'era scritto che si trattava del boss latitante Bernardo Provenzano. Quando ne parlai con mio padre, lui mi disse: 'Stai attento con il signor Lo Verde, perché da questa situazione non ti salva nessuno'. Mio padre dava a Provenzano del tu, mentre lui chiamava mio padre 'ingegnere', anche se in realtà gli mancavano due materie alla laurea. "Mio padre conosceva Riina da quando erano ragazzi. Tra loro il rapporto è sempre stato teso. Mio padre non lo stimava e preferiva Provenzano perché riteneva che avesse un più elevato spessore culturale", ha detto Ciancimino. "Mio padre aveva inventato una specie di sistema di spartizione degli appalti: potremmo chiamarlo il sistema. D'accordo con Bernardo Provenzano gli appalti venivano spartiti equamente tra tutti i partiti, in consiglio comunale, a seconda della loro rappresentatività". Il testimone ha anche raccontato che suo padre, appositamente, faceva attendere Riina quando questi lo andava a trovare e ne rifiutava i regali ritenendo che portassero sfortuna. "Era un rapporto fatto di contrasti. L'ho visto almeno tre-quattro volte a casa mia. Parlo degli anni Ottanta. Riina veniva spessissimo per le feste comandate. Ma ricordo che quando erano in camera arrivavano delle urla dalla stanza".

Don Vito aveva una sorta di 'linea rossa', cioè un numero di telefono "sempre a disposizione" per i boss ma anche i politici. “Mio padre aveva a Palermo e a Mondello la 'linea rossa' sempre a disposizione di queste persone, e soprattutto di Lo Verde (Provenzano ndr). Ma anche di Gioia, Lima, Ruffini, e del signor Franco o Carlo”. Secondo Ciancimino gli ultimi due sarebbero degli agenti dei servizi segreti.  "Mi è capitato di ricevere o consegnare direttamente nelle mani dell'ingegner Lo Verde, cioè di Bernardo Provenzano qualche lettera, specialmente nell'ultimo periodo. Anche perché nel momento in cui certi personaggi venivano a mancare, mio padre era diventato molto più prudente. Capitò anche nel 1992".

"Mio padre usava particolare accortezza per lo scambio di 'pizzini' con Bernardo Provenzano. Spesso, essendo un po' maniacale per sua forma mentis, le buttava nel water o le bruciava, o le tagliava a pezzetti". "Spesso -dice ancora- faceva le fotocopie perché temeva che si potessero trovare le impronte, anche quando scriveva le lettere usava addirittura dei guanti". Alla domanda se erano intercorsi rapporti di tipo economico tra Vito Ciancimino e Bernardo Provenzano, Ciancimino ha risposto di sì.

"Nel 1990, grazie alle sue amicizie che aveva in Corte di Cassazione, mio padre riuscì a fare annullare l'ordine di custodia che fu emesso dal gip Grillo per la vicenda mafia e appalti", ha detto ancora Ciancimino jr. La sezione della Cassazione che emise il provvedimento di annullamento era la prima, presieduta all'epoca da Corrado Carnevale.

Alcuni incontri tra Vito Ciancimino e il vicecomandante del Ros, sarebbero avvenuti prima della strage di via d'Amelio, avvenuta il 19 luglio '92, dove fu ucciso Paolo Borsellino e la sua scorta. «Dopo la consegna del 'Papellò, avvenuta il 29 giugno del '92, che mi fu dato insieme ad una lettera da consegnare a mio padre, e che mi venne data dal dottore Antonino Cinà». Sempre rispondendo alle domande del magistrato Ciancimino jr, ha spiegato che gli incontri duravano circa una ora e mezza e si svolgevano in casa dell'ex primo cittadino di Palermo. «È successo alcune volte, due o tre, dopo la morte del giudice Falcone e poi dopo», ha spiegato. «Per mio padre comunque era sbagliato cercare il dialogo con Cosa nostra, dopo le stragi. Lui diceva che era come mettere benzina nel radiatore. Era sbagliato parlare con Riina».
 


I verbali del figlio di Don Vito su Mori e Obinu
11 gennaio 2010 Nicola Biondo

Da due anni è diventato il testimone delle più delicate inchieste di mafia. Massimo Ciancimino, 45 anni, figlio di Vito, ex-sindaco Dc di Palermo, una vita passata tra la politica e la mafia. Ad oggi ha reso una sessantina di verbali alle procure di Palermo, Caltanissetta e Catania. Di questi oltre una ventina stanno per essere depositati dai Pm Nino Di Matteo e Antonio Ingroia al processo per la mancata cattura di Binu Provenzano. Temi che scottano, pezzi di storia criminale e non solo. Lontani i tempi per Ciancimino jr delle feste della movida palermitana che negli anni ’80 e ’90 lo vedevano sempre in prima fila. Oggi che vive sotto scorta l’unica cosa che gli fa perdere il sorriso è la parola pentito. «Di cosa dovrei pentirmi? Il mio cognome non l’ho scelto. Solo i miei errori mi appartengono,ma ho ancora tempo per rimediare». Forse è pure per rimediare che da due anni rilascia una mole impressionante di dichiarazioni alle procure di mezza Italia, anche se le malelingue dicono che la scelta di parlare con i magistrati va fatta risalire alla cattura di Provenzano, l’amico di una vita di suo padre. Dal carcere, il boss non lo potrebbe più proteggere. Cresciuto all’ombra di don Vito – da cui ha ereditato il gusto per gli affari e una certa diabolica velocità di pensiero – le dichiarazioni di Ciancimino jr potrebbero rivoluzionare tante mezze verità. Da quella sulla trattativa tra Stato e mafia che sarebbe iniziata subito dopo la morte di Giovanni Falcone nel maggio 1992, a quella sulla strage di via D’Amelio. 

Non solo parole, quelle di Massimo, ma carte, tantissime carte, tutte provenienti dall’archivio paterno e consegnate ai magistrati. Dal famigerato Papello ad una serie di lettere che Provenzano, l’unico corleonese scampato alla reazione dello Stato dopo la mattanza del ’92-’93, inviava all’ex-sindaco. Le dichiarazioni che Massimo Ciancimino rende dal 2008 ai Pm non scavano però solo nei segreti della fine della prima repubblica ma arrivano fino al cuore della seconda. Il filo rosso è sempre quello dei documenti del padre. In alcuni di essidon Vito si rivolgerebbe al Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi. Altri riguarderebbero unsenatore del centro destra con cui Provenzano sarebbe stato in contatto. Una parte di questo racconto sta per essere messo agli atti di un processo poco conosciuto eppure molto importante, che vede imputati due alti ufficiali dei carabinieri, il generale Mario Mori e il colonnello Mauro Obinu. L’accusa è di non aver arrestato il31 ottobre 1995 Binu Provenzano in un casolare della provincia palermitana. Una vicenda che –secondo la Procura – va inserita come un tassello nel puzzle della trattativa tra stato e Cosa nostra: Provenzano sarebbe stato, attraverso Vito Ciancimino e altri, il garante di un patto per il quale la mafia targata Binu avrebbe,comeè avvenuto, riposto nel fodero l’arma delle stragi in cambio di una mano libera per gli affari e un cono d’ombra nelle indagini. Che don Vito abbia interloquito con lo Stato era noto ben prima della metamorfosi del figlio Massimo. 

Nel suo salotto palermitano e romano prendevano posto politici e magistrati,maanche giornalisti, uomini dei servizi segreti, imprenditori famosi e ufficiali dei carabinieri. Tra questi con certezza vi furono appunto Mori e De Donno. Nel corso di questi incontri tra l’estate e l’autunno del ’92, secondoil figlio di Vito, sarebbe avvenuto il passaggio di mano del Papello e furono poste le condizioni per la cattura di Riina, “tradito” dal compare di una vita Provenzano. Una circostanza sempre negata dai due ufficiali. Intanto Ciancimino jr, dopo essere stato condannato in appello a 3 anni e 4 mesi per aver riciclato parte dell’eredità paterna, è atteso il prossimo primo febbraio al processo per la mancata cattura di Provenzano. Proprio nell’aula bunker dell’Ucciardone, teatro del maxiprocesso dove sfilarono i grandi pentiti di mafia.



La «riforma» di Cosa Nostra, il papello
e quelle leggi sulla giustizia in Italia
17 ottobre 2009 di Nicola Biondo

«Stiamo indagando su dieci anni di trattativa» dice all’Unità il Pm palermitano Nino Di Matteo a poche ore dalla consegna del Papello. Dieci anni il cui inizio è la strage di Capaci, maggio ’92, e la cui fine, o meglio punto di svolta, è il proclama di Leoluca Bagarella del luglio 2002 indirizzato alle forze politiche. Nel mezzo c’è il sangue di Borsellino e Falcone e delle vittime delle stragi del ’93, a Milano e Firenze, e un grande sforzo investigativo di magistratura e forze di polizia come mai era avvenuto in passato. Ma anche molte, troppe, aree grigie e un sensibile mutamento di clima intorno alla lotta antimafia. La trattativa insomma èun workin progress,nonsi esaurisce, secondo gli investigatori, al papello o agli scritti di Vito Ciancimino ma va oltre. 

COME FINÌ LA TRATTATIVA? 
La prima domanda che gli investigatori si pongono è se e quali punti del papello hanno avuto effettiva realizzazione in questa «lunga trattativa». La revisione del maxiprocesso ad esempio non è mai stata all’ordine del giorno. Negli ultimi anni però sono state molte le proposte di legge presentate per ottenere nuove norme per la revisione dei processi da ancorare, secondo unodei promotori Gaetano Pecorella – avvocato del premier – alle sentenze della Corte europea. Per quanto riguarda il 41bis e la legge sui pentiti è sotto gli occhi di tutti che le nuove leggi non garantiscono più buoni risultati. L’isolamento dei boss è ormai un ricordo del passato e la legge sui pentiti ha ottenuto un unico risultato: da anni ormai non si pente quasi più nessuno. Sulla revisione della legge Rognoni-La Torre basta dire che sono migliaia ogni anno i beni confiscati che non vengono riutilizzati, come denuncia da tempo la Agenzia del demanio. Le richieste di Riina contemplano anche la possibilità di dissociarsi da Cosa nostra, una exit strategy che garantirebbe la possibilità di accedere ai benefici carcerari senza l’obbligo di rivelare nulla. Una idea che ha fatto capolino più volte nelle aule parlamentari e per la quale ha mostrato interesse finanche un alto magistrato come Giovanni Tinebra, ex-capo della procura di Caltanissetta. La chiusura dei super carceri, come quelli dell’Asinara, è ormai invece una realtà. Mentre la trattativa progrediva è poi arrivata la riforma del c.d. «giusto- processo» che permette la scelta del silenzio ai testi o ai collaboratori mentre nessuna disposizione è stava varata per tutelare chi testimonia nei processi di mafia. 

LA RIFORMA DI COSA NOSTRA 
I dodici punti del papello, di cui questi sono i nodi essenziali, rivelano la grande riforma della giustizia di Cosa Nostra. Che non può non ricordare i temi dell’agenda dell’attuale governo. Di chi in fondo in nome di un garantismo disinvolto vorrebbe i magistrati sottoposti a forme di controllo e le indagini depotenziate con l’abolizione delle intercettazioni. Binu Provenzano lo aveva promesso al popolo di Cosa Nostra consumato dalla politica delle stragi: «Servono dieci anni per tornare all’antica». L’orizzonte della trattativa sarebbe stato allora «più ampio»: far nascere una nuova mafia in un nuovo Stato. In questo senso il papello di Riina nasce «vecchio» perché il suo alter ego Provenzano lo ha emendato e in parte realizzato, nella previsione diunarimozione collettiva del problema mafia. E si arriva così al redde rationem, a quel proclama di Bagarella del 2002 che accusa gli avvocati diventati parlamentari di non occuparsi più dei loro clienti mafiosi, che tira in ballo le forze politiche che giocano «sulla pelle dei detenuti». Una dichiarazione di guerra contro il patto di Provenzano che vedrà la sua manifestazione più clamorosa inuno striscione apparso pochi mesi dopo allo stadio di Palermo: «Uniti contro il 41bis, Berlusconi dimentica la Sicilia». Ci sono tappe visibili e meno visibili di questa trattativa. Unasicuramente è la scandalosa latitanza di don Binu: secondo la Procura di Palermo andrebbe addebitata proprio ad uno dei protagonisti della trattativa con Ciancimino, il generale Mario Mori oggi sotto processo per avere omesso di catturare il padrino pur essendo a conoscenza di uno dei luoghi che abitualmente frequentava fino al 2001. Processo che riprende martedì prossimo con l’audizione di Luciano Violante. 



Il pentito Giuffrè «Forza Italia e Dell’Utri referenti di Cosa Nostra»
 08 ottobre 2009 Nicola Biondo

«Quando Dc e Psi si avviarono al tramonto, in Cosa nostra nacque un nuovo discorso politico. Un nuovo soggetto politico andava appoggiato: era Forza Italia». Ha l’incedere lento e autorevole del Don Corleone cinematografico. Ma Nino Giuffré ex-capomafia delle Madonie, una vita passata accanto a Provenzano e Riina, usa parole precise per descrivere il patto tra politica e mafia. Lo ha fatto ieri all’aula bunker di Rebibbia a Roma nel corso del processo Mori per la mancata cattura di Provenzano. L’interrogatorio che continuerà domani ha ripercorso la trasformazione di Cosa nostra dalla fase stragista di Riina a quella «invisibile » di Binu. «La diversità di vedute all’interno di Cosa nostra – ha detto Giuffré – si manifestava in una diversa strategia: da una mafia molto appariscente a una mafia silenziosa che era la politica principale di Provenzano ». 

Tra i protagonisti di questa trasformazione – secondo Giuffré - c’è Vito Ciancimino, l’ex-sindaco di Palermo, che nel 1992 ha intrattenuto rapporti mai fino in fondo chiariti con il generale del Ros Mario Mori, culminati secondo il figlio Massimo nel passaggio del «papello», la lista di richieste di Riina allo Stato. Don Vito secondo Giuffré sarebbe stato il «coautore della metamorfosi di Cosa nostra con l’abbandono della strategia stragista». La ricostruzione di Giuffré affronta quindi i buchi neri di quella stagione di bombe e trattative, nel pieno disfacimento della prima repubblica: dall’arresto di Riina alla mancata perquisizione del suo covo, dalle voci che volevano Provenzano «sbirro», alle gole profonde nelle forze dell’ordine che informavano Riina. 

Nel corso degli anni – dice il collaboratore di giustizia – «mi sono accorto che non erano accadimenti casuali, ma da inserire in una precisa volontà. Quandopoi ci fu il periodo dei grandi arresti e solo Provenzano rimase fuori, ho sospettato anche io di lui». Binu quindi sarebbe stato il «profeta» della nuova Cosa nostra in accordo con pezzi dello Stato. È lui – dice Giuffré - che incarica prima Vito Ciancimino di risolvere i problemi dell’organizzazione (confisca dei beni, ergastoli, collaboratori di giustizia, benefici carcerari) e che poi trova il contatto con un nuovo interlocutore politico Marcello Dell’Utri tramite diversi intermediari: il costruttore Gianni Ienna e i fratelli Filippo e Giuseppe Graviano, organizzatori e mandanti delle stragi del ’93. Per sistemare questi «guai» racconta Giuffré, Provenzano diceva che «ci voleva un po’ di pazienza e che in dieci anni si sarebbero appianati». Il pentito conferma la versione di Luigi Ilardo, il boss infiltrato che nell’ottobre del ‘95 ha incontrato Binu riferendo luoghi e personaggi della latitanza del boss, rivelando in diretta il patto tra Fi e Cosa nostra con la «mediazione» di Dell’Utri. Ma quelle informazioni finite al Ros di Mori non vennero utilizzate. Da qui il processo al generale per la mancata cattura. Rimane però da chiarire come poteva fare Ciancimino a trattare dopo il suo arresto nel ‘92. I Pm Nino Di Matteo e Antonio Ingroia hanno chiesto di sentire il figlio di Ciancimino, Giovanni, e Luciano Violante sugli incontri tra Mori e l’ex-sindaco.