L'omicidio di Nicola Calipari: La Cia all'aeroporto era stata informata
I nostri servizi: segnalati tutti gli spostamenti.
Si cerca il satellitare di Calipari scomparso dopo la sparatoria
 La ricostruzione dell'omicidio 07 marzo 2005 Giovanni Bianconi Fiorenza Sarzanini
ROMA - La tragedia s’era appena consumata, i proiettili avevano finito di piovere, Nicola Calipari era già morto, Giuliana Sgrena ferita. «Ricordo che si sono avvicinati una decina di soldati - ha raccontato nel suo interrogatorio l’ufficiale del carabinieri che guidava l’auto degli italiani -, io ho messo fuori le mani e sono sceso. Mi hanno fatto inginocchiare». I militari statunitensi hanno sequestrato l’arma del carabiniere, il quale ha avuto solo il tempo di una telefonata a Roma per comunicare che non c’era più niente da festeggiare. Poi gli hanno tolto il telefonino, e prima dei chiarimenti tutte le comunicazioni sono state interrotte. Adesso è proprio sulle comunicazioni che si concentrerà una parte importante dell’inchiesta aperta per i reati di omicidio volontario e tentato omicidio che dovrebbe far luce sulla drammatica liberazione della giornalista del manifesto rimasta segregata in Iraq per un mese. Accertamenti per risalire ai contatti telefonici del funzionario del Sismi che ne ha ottenuto il rilascio poco prima di rimanere ucciso al posto di blocco Usa. Il cellulare di servizio che Calipari aveva addosso è già a disposizione degli investigatori, i quali dovranno estrarne i tabulati per ricostruire le chiamate fatte e ricevute negli ultimi giorni e nelle ultime ore. Per capire con chi ha parlato, in Italia e in Iraq; per verificare le relazioni che hanno anticipato e preparato la missione a Bagdad di venerdì 4 marzo.

Ma Calipari aveva anche uno o forse due telefoni satellitari che al momento non si sa dove siano. Probabilmente ancora in mano agli americani che li hanno presi dopo la sparatoria, e allora bisognerà chiedere di acquisirli. Anche lì ci possono essere tracce dei contatti avuti dal poliziotto in servizio al Sismi, che sarebbero utili a ricostruire un quadro attendibile su chi era informato della sua missione segreta. E anche su chi, in Italia, conosceva non solo il motivo della missione, ma anche le modalità con cui è stata portata a termine. Ancora mentre stavano per raggiungere l’aeroporto, Calipari ha chiamato. «Ha effettuato alcune telefonate - ha testimoniato il carabiniere che l’accompagnava - per avvisare il dispositivo di cui facevano parte l’ufficiale di collegamento che ci aveva fornito i badge (l’accredito per circolare armati, oltre all’auto su cui si trovavano, ndr ) e l’ufficiale americano richiesto come collegamento per facilitarci il rientro». E’ il funzionario degli Stati Uniti che stava all’aeroporto ed era stato avvisato dell’arrivo di Calipari e dell’ufficiale dell’Arma, nel primo pomeriggio di venerdì, nonché del motivo per cui erano sbarcati in Iraq. Ma secondo una versione accreditata dalla nostra intelligence , all’aeroporto c’era anche un rappresentate del Servizio segreto americano, la Cia. Forse lo stesso capocentro di Bagdad. Pure lui messo a conoscenza della missione. Su questo punto qualcosa di più potrà dire l’ufficiale di collegamento italiano indicato dal carabiniere, che potrebbe diventare un testimone decisivo di questa brutta storia.

I magistrati italiani chiederanno di poter ascoltare anche gli americani coinvolti, compresi quelli messi a parte dell’operazione. Per adesso la rogatoria trasmessa «alle competenti autorità» tramite il Dipartimento di Giustizia degli Usa si riferisce soltanto all’identificazione delle persone che stavano sul mezzo che ha bloccato l’auto degli italiani facendo fuoco, e all’acquisizione di tutti i report e le relazioni di servizio compilate dopo la tragedia. La richiesta del ministero della Giustizia di Roma è stata inoltrata con la massima celerità, ma le risposte potrebbero non arrivare mai. Nel trattato di cooperazione tra i due Stati è infatti prevista la facoltà di rifiutare informazioni legate ad eventuali segreti militari. L’indagine su quanto è avvenuto in quel drammatico venerdì, comunque, andrà avanti anche sul fronte italiano. C’è da chiarire con chi, a Roma, Calipari aveva concordato la missione e le sue modalità. Compresa la decisione di muoversi in quel teatro di guerra con un solo mezzo non blindato e l’ostaggio appena liberato a bordo, senza altra protezione che il lasciapassare rilasciato dalle forze della Coalizione e le due pistole ricevute in dotazione. Con tutti i rischi che una simile scelta comporta. Venerdì sera, subito dopo l’accaduto, s’è parlato di due o tre macchine coinvolte nella sparatoria, e di un altro funzionario italiano ferito. Poi tutto s’è ridotto alla Toyota Corolla sulla quale viaggiavano Calipari, la Sgrena e l’ufficiale dei carabinieri che ha ribadito questa versione: nella sua ricostruzione non c’erano altri sotto il fuoco americano, e non era stato predisposto alcun convoglio.

Il carabiniere ha detto nell’interrogatorio che lui non sa con chi Calipari abbia scelto di agire in questo modo, decideva tutto il poliziotto che del resto era il capo dell’Ufficio operazioni internazionali del Sismi. Uomo esperto e dal grado elevato, certamente, che poteva anche stabilire di assumersi dei rischi. Magari resi obbligatori dalla trattativa condotta per il rilascio della Sgrena e dalle condizioni imposte per ottenerlo, sia con i rappresentanti degli Ulema che con altri intermediari. E per evitare interferenze dell’ultimora che avrebbero potuto far saltare l’operazione. O comunque intralciarla nella fase più delicata. Problemi che potevano verificarsi in Iraq, ma anche arrivare dall’Italia. Tutto questo può spiegare la decisione di muoversi nella maniera meno visibile possibile, ma realmente Calipari è l’unico ad averla presa? Sul tragico epilogo del sequestro Sgrena è in corso anche un’inchiesta interna al servizio segreto militare, e i magistrati potranno chiedere di attingere informazioni da lì. Per accertare l’accaduto e per acquisire ulteriori elementi su quanto e quando gli americani abbiano saputo di ciò che gli 007 stavano facendo quel giorno a Bagdad. Premessa necessaria per valutare il fuoco aperto sull’auto con l’ostaggio a bordo.

Le testimonianze dell’ufficiale dei carabinieri e di Giuliana Sgrena concordano nel riferire che c’è stata quasi simultaneità tra l’accensione della luce che indicava l’alt, a poche centinaia di metri dall’aeroporto, e la sparatoria. C’è concordia anche sul fatto che il fuoco sia durato alcuni secondi, addirittura dieci, arrivando a circa trecento colpi, nonostante un solo proiettile abbia colpito Calipari. La Toyota non avrebbe insomma avuto il tempo di fermarsi per permettere l’identificazione dei passeggeri. Al contrario di ciò che sarebbe avvenuto nel tratto di strada percorso fino a quel punto. Nella testimonianza del carabiniere non ci sono riferimenti a precedenti posti di blocco superati. La giornalista del manifesto , invece, ha riferito che in due o tre occasioni l’auto ha incontrato non veri e propri check-point, ma postazioni di controllo davanti alle quali la macchina ha rallentato senza che nessuno intimasse lo stop. Perché non ha destato alcuna attenzione, oppure perché era stata riconosciuta e lasciata andare? Anche questa domanda potrà trovare una risposta convincente solo se si accerterà chi, quando e di che cosa - tra gli americani - era stato avvertito che due agenti segreti italiani erano andati a riprendere la loro connazionale rapita un mese prima a Bagdad.