Buon Natale dalla ciminiera
30 dicembre 2010 Guido Tedoldi
«Chi ci va stasera alla ciminiera?». Il direttore butta lì la domanda con noncuranza. La risposta negativa viene a tutti, anche se nessuno apre
la bocca per pronunciarla. Sempre con noncuranza, quasi senza nemmeno sollevare lo sguardo dallo schema di pagina che ha davanti, il direttore domanda chi stava seguendo la storia della fonderia, «...Ditoleddi, non eri tu?». Annuisco. In effetti ero io che per tutto il primo mese sono andato là sotto a parlare con quelli del presidio. Poi però la storia si era un po’ ingrossata, c’era stato l’interesse dei media nazionali, e allora era stato
lo stesso direttore a prendersela in carico. Ciò succedeva quest’estate. Oggi, a Natale, improvvisamente torna a me, ah ah.

«Dovrebbe esserci una messa – dico – l’aveva annunciata Piepoli, il segretario cittadino del sindacato. Ma se continua a piovere così, forse salta tutto». Il direttore fa un cenno soddisfatto con la testa, si complimenta per il fatto che mi sono tenuto aggiornato sugli eventi. Mi dice che uno sguardo bisogna comunque andare a darlo, senza accontentarsi di telefonare. Noto lo sguardo in tralice di Sara, rivolto non all’aguzzino che rompe le scatole bensì a me perché non rifiuto quest’incarico di urgenza dubbia. Potevamo forse passarla insieme, questa serata. Se glielo avessi chiesto, naturalmente. Se avessi fatto l’uomo. Se lei non avesse altri posti in cui stare insieme ad altre persone. Bene, la vita e il lavoro mi chiamano da un’altra parte. E qui alla ciminiera, piove. Viene giù da tre giorni, verrà giù per almeno altri tre secondo le previsioni del tempo in tv. All’inizio tentava di nevicare, poi si è un po’ sciolta. Non so cosa sia meglio per quelli lassù. La neve perlomeno forma uno strato isolante, quando supera un tot di centimetri; la pioggia no, scioglie le ossa e la determinazione. Il presidio è quasi vuoto. Rispetto ai primi giorni, quando faceva caldo e qui venivano le troupe delle tv, si è molto rimpicciolito. Ad agosto c’erano una decina di tende, e per i figli degli operai era stato allestito una specie di asilo nido, con campo giochi e doposcuola. Roba grossa, a segnare la volontà di resistenza di una comunità di 400 operai che non volevano rassegnarsi alla delocalizzazione. Adesso c’è solo una specie di baracca messa su con i pallet e riparata con teloni di plastica pesante. L’arredamento è un tavolino con una tovaglia a fiorelloni stampati, una sola lampada da campeggio che fa una luce forte e fredda, e un cavo volante che porta al generatore, il quale va in continuazione producendo una vibrazione calda di solidarietà. La temperatura all’interno non è molto diversa da quella esterna, anche se c’è una stufetta sotto il tavolo. Cioè, più che altro una seconda luce considerata l’efficacia termica. Ci sono due mogli di operai della fonderia che si sono asserragliati sulla ciminiera, e due altri operai, facce che ho già visto ma non riesco ad associare a nomi. Mi verranno in mente forse domani notte, se mi ci impegno un po’. Chiedo di Piepoli. Il tipo cui l’ho chiesto e una delle mogli non dicono niente, perché mi hanno riconosciuto in quanto giornalista e sanno che il mio taccuino non è quasi mai chiuso, ma le loro facce si sono per un attimo immalinconite. Domando se ci sarà la messa. Mi indicano un angolo della baracca, dove c’è un televisorino portatile. «Quella del papa», dicono in coro. Questa battuta se la sono preparata da un po’, ha il sapore dell’amarezza accettata a fatica. Se fossi un giornalista normale potrei finirla qui. Andarmene a casa, sul tragitto telefonare magari a Sara, dirle che ho finito. Poi stanotte ci sarà gente ancora in giro fino a tardi, dopo la messa di mezzanotte, qualcosa da fare in compagnia si trova. La notizia (bè, notizietta) ce l’ho. 40 o 50 righe le posso scrivere al volo. Magari il direttore prenderà spunto addirittura per un pezzo di colore. Ma siccome sono Ugo Ditoleddi, non mi basta. C’è qualcosa in questa nottata. Sarà la pioggia, saranno le 7 persone lassù. Domando a tutti e nessuno in particolare se lassù hanno di che coprirsi. Una delle mogli guarda l’aria in una direzione che io non posso vedere, e forse vorrebbe rispondere che non si è mai abbastanza coperti a 30 metri da terra, in un posto esposto alle intemperie, lontani da casa e dai figli. L’altra guarda me, e mi rassicura che sì, hanno tutto per resistere, e intendono stare su finché sarà necessario. Rimango in piedi, sull’ingresso del presidio. Loro sono seduti intorno al tavolo, i piedi vicini alla stufetta. Alle mie spalle la pioggia produce un fruscio continuo. Da qualche parte c’è il rumore di uno sgocciolamento, ma non si capisce da dove possa provenire a causa del brontolio anche lui continuo del generatore. E si sente un rumore di campanelle, come quelle delle slitte di Babbo Natale nei film. Mi giro. E in effetti è una slitta da Babbo Natale, con tiro di renne e interni in pelliccia. Forse un po’ più rustica di come appare nei film, ma questo solo a voler tagliare il capello in quattro. Il tizio che la conduce è credibile, nel senso che la barba sembra sua e non frutto di un travestimento, e anche l’abito ha un’aria usata, come se fosse indossato abitualmente e non soltanto poche ore l’anno tra un passaggio in lavatrice e una stirata come si deve. E non manca il saccone dei regali, naturalmente. Il tizio scende, mi fa l’occhiolino. Mi scosto per lasciarlo entrare, e il suo ingresso è tutt’uno con un saluto roboante, una risata e la richiesta di qualcosa da bere. Sul tavolo è stata messa una bottiglia, non sono riuscito a capire da dove sia saltata fuori. Uno degli operai versa in bicchieri di carta, riempiendoli a metà. Il liquido è trasparente, ma non è certo acqua. «Sono già stato su – dice Babbo Natale – ho ricevuto la vostra lettera. Ci sono cose che non posso regalare nemmeno io. Posso darvi molti oggetti, cibo, giocattoli per i vostri figli. Cose che fanno benino all’anima, ma che si esauriscono in fretta. Le cose più durature, più vere... sono al di là del mio potere. Non ho una fabbrica di costruzione di giocattoli nella quale assumervi, quella è una cosa di fantasia». Si abbandona su una sedia, comparsa anche lei da un posto che non ho visto. Uno degli operai gli dà una pacca leggera su un braccio, consolatoria. Sperava in qualcosa di più, forse, ma se nemmeno Babbo Natale ce la fa, allora... bè, bisognerà farsene una ragione, e prendere semmai provvedimenti diversi. Una delle mogli gli domanda se sa come andrà a finire. Babbo Natale tenta di guardarla negli occhi, ma non ci riesce, «io non so prevedere il futuro» dice. Si mettono a parlare del più e del meno, come fosse la cosa più normale. Lui domanda delle loro famiglie, delle loro situazioni. È come se li conoscesse da quando erano bambini, e forse è effettivamente così. Gli dicono della scuola dei figli, dell’aiuto che ricevono dai parenti, del sostegno della comunità. Gli raccontano dei sette che sono scesi dalla ciminiera tre settimane fa, perché sono stati assunti in un’altra fabbrica ed era un’occasione che non potevano rifiutare. Uno degli operai parla meno degli altri, ma si aspettano tutti che dica qualcosa. Anche Babbo Natale, che non gli fa domande dirette ma lo sollecita con un movimento amichevole del corpo. «Con l’inizio del­l’anno andrò via da qui – dice il tipo – con alcuni amici abbiamo comprato un capannone nella zona industriale nuova, cominciamo un’altra attività». C’è un sospiro, una specie di sospensione della paura. La vita continua. La si fa continuare. Da fuori proviene un suono di campanelle. Sono le renne che chiamano. «Devo andare», dice Babbo Natale. Gli offrono un altro giro di liquore, ma non accetta perché «deve guidare». Guardo la slitta, parcheggiata in un posto dove la pioggia non la bagna, e il saccone di regali non c’è più. In effetti adesso occupa uno degli angoli del presidio, tiene via quasi metà dello spazio. Prima di andarsene Babbo Natale lo apre e ne toglie un pacco, e me lo mette in mano. Mi fa l’occhiolino. Sono sorpreso, se ho capito cos’è... wow, è proprio quello che... come faceva a saperlo? Ma non faccio in tempo a ringraziarlo, è già andato via. Cerco con lo sguardo le facce degli altri del presidio, per cercare conferma o smentita a quello che ho visto. Mi sembra di essere l’unico stordito che non ha capito bene cosa sia successo. Una delle mogli sta facendo l’inventario dei regali, e sa a chi consegnarli perché sono muniti di biglietto con il nome del destinatario. Mi arriva in mano un bicchiere di carta, riempito per metà di liquore. Lo mando giù a piccoli sorsi.
Se facessi come nei film, tutto d’un fiato, finirei steso il fiato dopo.
Una delle mogli prende di tasca il telefonino, e chiama il marito, 30 metri più su.
È il momento degli auguri. È il momento in cui io sono di troppo.
Metto giù il bicchiere, «buon Natale», dico. Ricambiano gli auguri. Esco.