«Dovrebbe esserci una messa – dico – l’aveva
annunciata Piepoli, il segretario cittadino del sindacato. Ma se continua
a piovere così, forse salta tutto». Il direttore fa un cenno
soddisfatto con la testa, si complimenta per il fatto che mi sono tenuto
aggiornato sugli eventi. Mi dice che uno sguardo bisogna comunque andare
a darlo, senza accontentarsi di telefonare. Noto lo sguardo in tralice
di Sara, rivolto non all’aguzzino che rompe le scatole bensì a me
perché non rifiuto quest’incarico di urgenza dubbia. Potevamo forse
passarla insieme, questa serata. Se glielo avessi chiesto, naturalmente.
Se avessi fatto l’uomo. Se lei non avesse altri posti in cui stare insieme
ad altre persone. Bene, la vita e il lavoro mi chiamano da un’altra parte.
E qui alla ciminiera, piove. Viene giù da tre giorni, verrà
giù per almeno altri tre secondo le previsioni del tempo in tv.
All’inizio tentava di nevicare, poi si è un po’ sciolta. Non so
cosa sia meglio per quelli lassù. La neve perlomeno forma uno strato
isolante, quando supera un tot di centimetri; la pioggia no, scioglie le
ossa e la determinazione. Il presidio è quasi vuoto. Rispetto ai
primi giorni, quando faceva caldo e qui venivano le troupe delle tv, si
è molto rimpicciolito. Ad agosto c’erano una decina di tende, e
per i figli degli operai era stato allestito una specie di asilo nido,
con campo giochi e doposcuola. Roba grossa, a segnare la volontà
di resistenza di una comunità di 400 operai che non volevano rassegnarsi
alla delocalizzazione. Adesso c’è solo una specie di baracca messa
su con i pallet e riparata con teloni di plastica pesante. L’arredamento
è un tavolino con una tovaglia a fiorelloni stampati, una sola lampada
da campeggio che fa una luce forte e fredda, e un cavo volante che porta
al generatore, il quale va in continuazione producendo una vibrazione calda
di solidarietà. La temperatura all’interno non è molto diversa
da quella esterna, anche se c’è una stufetta sotto il tavolo. Cioè,
più che altro una seconda luce considerata l’efficacia termica.
Ci sono due mogli di operai della fonderia che si sono asserragliati sulla
ciminiera, e due altri operai, facce che ho già visto ma non riesco
ad associare a nomi. Mi verranno in mente forse domani notte, se mi ci
impegno un po’. Chiedo di Piepoli. Il tipo cui l’ho chiesto e una delle
mogli non dicono niente, perché mi hanno riconosciuto in quanto
giornalista e sanno che il mio taccuino non è quasi mai chiuso,
ma le loro facce si sono per un attimo immalinconite. Domando se ci sarà
la messa. Mi indicano un angolo della baracca, dove c’è un televisorino
portatile. «Quella del papa», dicono in coro. Questa battuta
se la sono preparata da un po’, ha il sapore dell’amarezza accettata a
fatica. Se fossi un giornalista normale potrei finirla qui. Andarmene a
casa, sul tragitto telefonare magari a Sara, dirle che ho finito. Poi stanotte
ci sarà gente ancora in giro fino a tardi, dopo la messa di mezzanotte,
qualcosa da fare in compagnia si trova. La notizia (bè, notizietta)
ce l’ho. 40 o 50 righe le posso scrivere al volo. Magari il direttore prenderà
spunto addirittura per un pezzo di colore. Ma siccome sono Ugo Ditoleddi,
non mi basta. C’è qualcosa in questa nottata. Sarà la pioggia,
saranno le 7 persone lassù. Domando a tutti e nessuno in particolare
se lassù hanno di che coprirsi. Una delle mogli guarda l’aria in
una direzione che io non posso vedere, e forse vorrebbe rispondere che
non si è mai abbastanza coperti a 30 metri da terra, in un posto
esposto alle intemperie, lontani da casa e dai figli. L’altra guarda me,
e mi rassicura che sì, hanno tutto per resistere, e intendono stare
su finché sarà necessario. Rimango in piedi, sull’ingresso
del presidio. Loro sono seduti intorno al tavolo, i piedi vicini alla stufetta.
Alle mie spalle la pioggia produce un fruscio continuo. Da qualche parte
c’è il rumore di uno sgocciolamento, ma non si capisce da dove possa
provenire a causa del brontolio anche lui continuo del generatore. E si
sente un rumore di campanelle, come quelle delle slitte di Babbo Natale
nei film. Mi giro. E in effetti è una slitta da Babbo Natale, con
tiro di renne e interni in pelliccia. Forse un po’ più rustica di
come appare nei film, ma questo solo a voler tagliare il capello in quattro.
Il tizio che la conduce è credibile, nel senso che la barba sembra
sua e non frutto di un travestimento, e anche l’abito ha un’aria usata,
come se fosse indossato abitualmente e non soltanto poche ore l’anno tra
un passaggio in lavatrice e una stirata come si deve. E non manca il saccone
dei regali, naturalmente. Il tizio scende, mi fa l’occhiolino. Mi scosto
per lasciarlo entrare, e il suo ingresso è tutt’uno con un saluto
roboante, una risata e la richiesta di qualcosa da bere. Sul tavolo è
stata messa una bottiglia, non sono riuscito a capire da dove sia saltata
fuori. Uno degli operai versa in bicchieri di carta, riempiendoli a metà.
Il liquido è trasparente, ma non è certo acqua. «Sono
già stato su – dice Babbo Natale – ho ricevuto la vostra lettera.
Ci sono cose che non posso regalare nemmeno io. Posso darvi molti oggetti,
cibo, giocattoli per i vostri figli. Cose che fanno benino all’anima, ma
che si esauriscono in fretta. Le cose più durature, più vere…
sono al di là del mio potere. Non ho una fabbrica di costruzione
di giocattoli nella quale assumervi, quella è una cosa di fantasia».
Si abbandona su una sedia, comparsa anche lei da un posto che non ho visto.
Uno degli operai gli dà una pacca leggera su un braccio, consolatoria.
Sperava in qualcosa di più, forse, ma se nemmeno Babbo Natale ce
la fa, allora… bè, bisognerà farsene una ragione, e prendere
semmai provvedimenti diversi. Una delle mogli gli domanda se sa come andrà
a finire. Babbo Natale tenta di guardarla negli occhi, ma non ci riesce,
«io non so prevedere il futuro» dice. Si mettono a parlare
del più e del meno, come fosse la cosa più normale. Lui domanda
delle loro famiglie, delle loro situazioni. È come se li conoscesse
da quando erano bambini, e forse è effettivamente così. Gli
dicono della scuola dei figli, dell’aiuto che ricevono dai parenti, del
sostegno della comunità. Gli raccontano dei sette che sono scesi
dalla ciminiera tre settimane fa, perché sono stati assunti in un’altra
fabbrica ed era un’occasione che non potevano rifiutare. Uno degli operai
parla meno degli altri, ma si aspettano tutti che dica qualcosa. Anche
Babbo Natale, che non gli fa domande dirette ma lo sollecita con un movimento
amichevole del corpo. «Con l’inizio dell’anno andrò via
da qui – dice il tipo – con alcuni amici abbiamo comprato un capannone
nella zona industriale nuova, cominciamo un’altra attività».
C’è un sospiro, una specie di sospensione della paura. La vita continua.
La si fa continuare. Da fuori proviene un suono di campanelle. Sono le
renne che chiamano. «Devo andare», dice Babbo Natale. Gli offrono
un altro giro di liquore, ma non accetta perché «deve guidare».
Guardo la slitta, parcheggiata in un posto dove la pioggia non la bagna,
e il saccone di regali non c’è più. In effetti adesso occupa
uno degli angoli del presidio, tiene via quasi metà dello spazio.
Prima di andarsene Babbo Natale lo apre e ne toglie un pacco, e me lo mette
in mano. Mi fa l’occhiolino. Sono sorpreso, se ho capito cos’è…
wow, è proprio quello che… come faceva a saperlo? Ma non faccio
in tempo a ringraziarlo, è già andato via. Cerco con lo sguardo
le facce degli altri del presidio, per cercare conferma o smentita a quello
che ho visto. Mi sembra di essere l’unico stordito che non ha capito bene
cosa sia successo. Una delle mogli sta facendo l’inventario dei regali,
e sa a chi consegnarli perché sono muniti di biglietto con il nome
del destinatario. Mi arriva in mano un bicchiere di carta, riempito per
metà di liquore. Lo mando giù a piccoli sorsi.
Se facessi come nei film, tutto d’un fiato, finirei
steso il fiato dopo.
Una delle mogli prende di tasca il telefonino, e chiama
il marito, 30 metri più su.
È il momento degli auguri. È il momento
in cui io sono di troppo.
Metto giù il bicchiere, «buon Natale»,
dico. Ricambiano gli auguri. Esco.
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