I DOCUMENTI DI WIKILEAKS ITALIA 10 dicembre 2010 terza puntata
Gas, da Yukos al Kazakistan gli affari tra Putin e Berlusconi
Gas connection, i segreti della spartizione. Quali i vantaggi per il Paese della relazione tra i due? Chi sono i reali beneficiari dell'intreccio? Un esponente del board di Gazprom riferisce di un investimento del premier italiano in un giacimento kazako
da Roma GIUSEPPE D'AVANZO, da Milano ANDREA GRECO, da New York FEDERICO RAMPINI

Si deve ricordarlo, parliamo della corruzione negli affari energetici. Di come, per usare le parole del Dipartimento di Stato, "la relazione tra Putin e Berlusconi sia funzionale a inoculare corruzione negli altri Paesi, dividere l'Europa, renderla vulnerabile al ricatto energetico della Russia". Questo lo sfondo. Ora un dettaglio: c'è un biglietto autografo di Berlusconi. Il Cavaliere lo consegna nelle mani di Putin per indicare un "signor Nessuno" (Bruno Mentasti) come la testa di legno  -  di chi? di Berlusconi stesso? di una consorteria amica e quale?  -  che dovrà favorire l'ingresso dei russi nel mercato italiano. Quel biglietto autografo è un'impronta digitale. È il sigillo di un metodo che consiglia a Hillary Clinton di chiedere notizie della "torbida connection" tra Putin e Berlusconi segnalata dall'ambasciatore a Roma, Ronald Spogli. Mostra abitudini costanti.

Gazprom "che fa tutt'uno con Putin" dirotta - denuncia il Dipartimento di Stato - "pagamenti ai politici nei paesi "a valle" perché assecondino i piani della Russia". Queste parole descrivono con cura l'"affare Mentasti". Fallito il colpo gobbo, condotto con troppa rozzezza, le grandi manovre non s'interrompono. Tracce di corruzione si avvistano, per lo meno, in altre due storie che vale la pena raccontare.

"La spartizione della refurtiva"
(dove, questa volta, è Putin a chiedere un "aiutino" a Berlusconi)

Se parliamo di politica energetica, si confrontano due argomenti tra Europa e Russia. Gli europei in coro chiedono ai russi di giocare con le stesse regole. I russi dicono a ciascuno degli europei: ti do il gas, se mi fai entrare nel tuo mercato. Berlusconi accetta le pretese di Putin. Se necessario, corre a dargli una mano. Sostiene, per esempio, il premier russo quando, nel novembre del 2003, Vladimir Vladimirovic caccia in galera Mikhail Khodorkovskij, l'uomo più ricco di Russia, proprietario della quinta compagnia petrolifera del mondo, la Yukos. Le accuse parlano di frode fiscale e appropriazione indebita - in pochi giorni gli sequestrano il suo 40 per cento di azioni Yukos - ma in realtà, come tutto il mondo sa, Khodorkovskij paga la decisione di finanziare la campagna dei partiti di opposizione a Putin. Berlusconi è l'unico leader occidentale a trovare legittimo l'agguato "sovietico" dell'amico del Cremlino. Un giudizio che ribadisce il 20 maggio 2004. Un paio di mesi ancora - è ormai novembre - e il Cavaliere accompagnato da tre ministri ritorna a Mosca per occuparsi ancora di energia. Come scrive Lorenzo Gianotti in una biografia di Putin di prossima pubblicazione, un quotidiano moscovita (Izvestija) svela (9 novembre 2004) che il possibile acquirente di Menatep (la società finanziaria cui fanno capo gli attivi di Yukos) è "il primo ministro e confidente di Putin, Silvio Berlusconi". È un fatto che il Cavaliere si dà molto da fare per convincere Vittorio Mincato (allora amministratore delegato di Eni) a partecipare all'affare. Mincato non ne vuole sapere, resiste, e oggi c'è chi può raccontare come tra Mincato e Stefano Cao (allora direttore generale di Eni) il motto in quei giorni fosse "non partecipiamo alla spartizione della refurtiva". Via Mincato e nel cono d'ombra Cao, il quadro cambia. Eni e Enel saranno le uniche società occidentali che acquisiranno asset della Yukos di Khodorkovskij e la fetta più grossa: il 20 per cento delle azioni di Gazpromneft' per 4,2 miliardi di dollari. Un caso da manuale di portage finanziario (Eni acquista asset a proprio nome, in realtà si impegna a cederli successivamente a Gazprom). Per dirla nel modo schietto dei testimoni di quell'affare, un classico di "spartizione della refurtiva" sottratta a Khodorkovskij. Con la grottesca appendice - emersa dai dispacci diplomatici pubblicati da WikiLeaks - di un appello in extremis di Berlusconi a Putin per garantire il riacquisto a prezzi adeguati da parte di Gazprom: nel 2009 il prezzo del gas è talmente basso che il braccio energetico del Cremlino è in difficoltà nell'esercizio di quell'opzione call.

Questi i fatti. Ora una domanda: che interesse ha l'Italia a prestarsi al saccheggio dell'impero Yukos, uno dei tanti, troppi episodi opachi dell'attività del Cane a sei zampe in Russia? Le malignità a Mosca nella comunità dei tecnici degli affari energetici si sciupano. Uno "scambio" ci sarebbe stato. Diverse fonti ritengono che proprio qui potrebbe risiedere, protetto dal segreto di Stato, l'interesse personale di Berlusconi. Un membro del board di Gazprom e un suo assistente hanno confessato a un interlocutore che Repubblica ritiene attendibile che, in cambio dell'appoggio all'espansione in Europa occidentale di Gazprom, Putin abbia aperto a Berlusconi la strada ai giacimenti di gas pre-caspici in Kazakistan; metano poi depurato nella vicina centrale russa di Orenburg e lì immesso nei tubi verso Occidente. E' una ricostruzione meticolosa che è impossibile verificare con fonti indipendenti e facilmente sarà smentita. Qui se ne dà conto per comprendere meglio il discredito che circonda - anche in Russia - l'"amicizia" tra Berlusconi e Putin. Dunque, a metà del decennio Duemila, il Cavaliere avrebbe investito, in uno dei giacimenti contigui al grande bacino di Karachaganakh oltre mezzo miliardo di dollari, per un rendimento annuo che, alle attuali (e calanti) valutazioni di mercato, potrebbe fruttargli tra i 100 e i 130 milioni di dollari l'anno di profitto. Il flusso di denaro finirebbe sul conto corrente di una banca russa, intestato a una fiduciaria locale appartenente a una società straniera. Se fosse davvero così, se davvero al Cavaliere fosse stato permesso di partecipare all'estrazione e alla vendita in Europa di quel gas, per Eni oltre al danno si aggiungerebbe la beffa, visto che in quell'area il gruppo italiano è padrone di miliardi di metri cubi di gas, ma non è mai riuscito a esportarlo nei ricchi mercati occidentali. Eni si è sempre dovuta accontentare di cederlo.

I misteri di Karachaganakh
(dove si scopre che Eni rinuncia a una parte dei suoi profitti, non si sa perché)

La storia è più o meno questa. A sfruttare quest'immenso campo di gas condensato (petrolio leggero) e metano è un consorzio controllato per il 32,5 per cento a testa da Eni e British Gas; 20 per cento Chevron Texaco; 15 per cento Lukoil. In attesa del completamento del gasdotto Blue Stream (gioiello della maestria ingegneristica dell'italiana Saipem, che dalla Russia meridionale raggiunge Ankara sotto il Mar Nero), si pattuisce di cedere la materia prima semilavorata ai russi. Ma nel 2003 il "Blue Dream" - come lo chiamano, superbi, gli americani - diventa realtà, senza ospitare il gas "italiano" di Karachaganakh. Gli accordi sono riscritti nel giugno 2007: in base al nuovo dettato, Eni e il consorzio venderanno dal 2012 a una compartecipata russo-kazaka 16 miliardi di metri cubi l'anno di raw gas a un valore stimabile in 50 dollari per unità di mille metri cubi, mentre in Europa il prezzo del prodotto finale è sui 300 dollari. Ai 50 dollari vanno aggiunti i costi di depurazione e trasporto. Più o meno, altri 150 dollari. Dunque, mille metri cubi di gas costano 200 dollari circa. A conti fatti il minore introito è di 19 miliardi di dollari per il consorzio; e un terzo per l'Eni. Perché gli italiani rinunciano a questa montagna di quattrini? A vantaggio di chi? Mario Reali, per un paio di decenni l'uomo a Mosca dell'Eni, insieme al vice direttore generale Pietro Cavanna propone nel 2003 di costruire apposta una raffineria Eni in Kazakistan. Per due anni i manager italiani si scontrano con la feroce contrarietà dei russi, e anche l'ipotesi di cercare sbocchi nel futuro gasdotto Nabucco naufraga per il niet del Cremlino. Paolo Scaroni. amministratore delegato di Eni, forse dovrebbe spiegare ai suoi investitori perché ha ceduto su quegli accordi al ribasso. Reali già nel 2007 a Report dichiarava: "Quel gas che l'Eni svende potrebbe essere inviato in Italia tramite il gasdotto russo-ucraino-slovacco che arriva a Baumngarten (Tag). Perché si regalano ad altri quei soldi?".

Riepiloghiamo. Abbiamo appreso come ci siano molti modi per "inoculare corruzione" nell'Europa occidentale a vantaggio degli interessi russi. Sappiamo che qualche risvolto riguarda l'Italia, Berlusconi, Eni. Concessione di giacimenti metaniferi da sfruttare in proprio. Svendita del gas venduto a basso costo per concedere agli intermediari di tagliarsi una fetta di torta. E' ora di avviarsi a una conclusione.

Epilogo con sorpresa e qualche domanda
(dove si apprende che al Cremlino la parabola di Berlusconi è in declino)

Sono indizi, in fondo. I soli che è possibile, al momento, estrarre dal calderone di segreti che proteggono il business energetico. Ricordiamo i segnali e che cosa ci dicono. Un foglio scritto a mano da Berlusconi. Un suo amico, senza arte né parte, candidato ad arricchirsi senza muovere paglia, non si sa a nome di chi, ma si conosce grazie a chi. Ancora. Le chiacchiere intorno alle quote personali del Cavaliere in un giacimento in Kazakistan, i margini intascati dalla sua vendita in Occidente, curata dai russi. Infine, i cento dollari per ogni mille tonnellate di metri cubi di gas intascati lasciati misteriosamente ai russi e ai kazaki. Si potrebbero ricordare altre questioni: il progetto South Stream ad esempio perché, come ha spiegato a Repubblica un alto funzionario del Dipartimento di Stato, Jeffrey Mankoff, "i gasdotti, con miliardi di dollari di investimenti, sono il meccanismo privilegiato per una corruzione su vasta scala". South Stream, il gasdotto sotto il Mar Nero fortemente voluto dai russi, è talmente faraonico, costoso e - dopo i recenti ribassi del prezzo del gas - diseconomico che Eni s'è affrettata a cedere quote del consorzio costruttore (dove affiancava Gazprom con il 50%). Mercoledì sera, a cena con la stampa italiana a New York, il presidente dell'Eni Roberto Poli ha accennato alla possibilità di un dietrofront nel progetto, valutata la sua effettiva convenienza.

L'affare Mentasti, la spoliazione di Yukos, il progetto South Stream portano alla luce qualche filo: Berlusconi si muove a Mosca più come imprenditore di se stesso che come capo del governo anche se, come capo del governo, abusa della sua autorità politica per condizionare gli affari di Eni in Eurasia e coccolarsi così Putin, un alleato che per molti ragioni può essergli utile. Silvio e Vladimir Vladimirovic hanno in comune, con Winston Churchill, la convinzione politica che "la democrazia funziona quando a decidere sono in due e uno è malato" e la certezza economica che "non esiste amicizia, esistono soltanto interessi comuni". È quest'ultimo convincimento che ha cominciato a erodere, al di là degli abbracci di convenienza, il loro sodalizio politico-economico.

Il premier russo comincia a credere che con Berlusconi nei dintorni i suoi interessi possano soffrirne. Putin - dice chi ha modo di frequentarlo - è infastidito dal clamore che accompagna Berlusconi nel mondo, contrariato dalle sue dichiarazioni pubbliche spesso maldestre, irritato dalla presunzione e dalla vanagloria dell'italiano che vanta un potere che non ha e successi che non sono i suoi. Come quando, scandalizzando il Cremlino e i media russi, Berlusconi promise in un'intervista in Olanda che "se Putin avesse lasciato la politica", lo avrebbe "preso a lavorare" con lui. O, appena ieri, quando il Cavaliere si è gloriato di aver ottenuto lui, per conto dei russi, i Mondiali di calcio del 2018 a Mosca. È il ruolo del mattatore che ormai i russi beffeggiano. Chiamano Berlusconi, dyadya, zio, che detto da un bambino a un estraneo è un segno di rispetto, detto dagli adulti a un uomo di settantaquattro anni e soprattutto primo ministro è quasi un dileggio. Il fastidio del Cremlino per Berlusconi è "destinato ad avere anche una consistenza pubblica - sostiene una qualificata fonte italiana che vive a Mosca - se il governo di Berlusconi dovesse avere difficoltà o addirittura cadere". Per comprendere come le azioni in Russia del Cavaliere siano in ribasso, bisogna ritornare da dove siamo partiti, a Valentino Valentini. Per anni "intermediario segreto" tra il Cavaliere e Putin, oggi il segretario particolare di Berlusconi appare agli osservatori italiani a Mosca "in disgrazia". Rivela un'autorevole fonte bancaria che "l'ultima volta che, tre settimane fa, Valentini è venuto al Cremlino per preparare il summit di Sochi non è stato ricevuto dall'omologo assistente di Putin anche se si è intrattenuto nella capitale per due-tre giorni". Non aiutano la fortuna dell'Italia da quelle parti i mediocri affarucci che, lungo le rive del Mar Nero, Valentini ha messo su con un personaggio italiano, Pier Paolo Lodigiani, come lui emiliano, già fallito in Italia e malvisto a Mosca ma, con il ritorno a Palazzo Chigi di Berlusconi, nominato nell'agosto del 2008 "console generale onorario della Repubblica italiana delle regioni di Krasnodar e Stavropol, della repubblica di Daghestan, Inguscezia, Cecenia". Sono circostanze che nuocciono a Berlusconi che ci mette del suo. Due esempi. Il Cavaliere pare che abbia "ossessivamente chiesto a Vladimir Vladimirovic di trovare un oligarca che gli compri il Milan allo strabiliante prezzo di un miliardo di euro e Villa Certosa per 50 milioni". Quando è diventato pubblico il cable che definisce il presidente Dmitri Medvedev "un apprendista di Putin", nessuno a Mosca si è meravigliato che la moglie Svetlana Vladimirovna Medvedeva non si sia curata della smentita del nostro capo di governo e abbia confessato ai suoi amici: "Usciranno presto dispacci molto più compromettenti sulle dichiarazioni di Berlusconi".

Il nostro capo di governo è riuscito a screditarsi agli occhi dell'alleato americano per gli affari, anche personali, intrecciati con Putin e, nello stesso tempo, a irritare Vladimir Vladimirovic per lo stesso motivo: una smania ossessiva di business che pare non trovare mai un limite. Impresa stupefacente.

Berlusconi, anche nella veste di maggior azionista di Eni attraverso il Tesoro, può chiudere questo caso in fretta rispondendo alle domande più elementari. Qual è la missione degli intermediari che rappresentano al Cremlino le sue volontà? Chi erano i veri beneficiari del "progetto Mentasti" e dov'era qui l'interesse nazionale? Quali sono gli interessi nazionali che ha curato e cura con Putin? Quali utili ne ha ricavato Eni? Quali benefici ne hanno ricevuto consumatori e imprese? Quali vantaggi, le nostre alleanze in Europa e in Occidente?
 

(fine)
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