Gli italiani del '48 e quelli del 2010
62 anni fa (un fiato per la storia) erano italiani, erano calabresi i clandestini che tentavano di passare in Francia.
Eravamo noi i senegalesi, i maghrebini, i disperati d’Europa. Nessuno vuole ricordare: dai leghisti del Nord ai berlusconiani del Sud. Il sonno della memoria genera mostri come il razzismo. Gli interessi di “rapina” fanno il resto. Perché la Rai - che ne ha diritti ancora per un po’ - non proietta in ore possibili "Il cammino della speranza" (1950) di Pietro Germi, odissea di clandestini siciliani diretti in Francia? Dall’800 trenta milioni di italiani sono andati per il mondo come muratori, minatori, fonditori, scaricatori, braccianti agricoli, ecc. I lavori che i locali respingevano e che, da anni, anche i giovani italiani rifiutano, nello stesso Sud dove la disoccupazione giovanile è altissima. È per questo, non per buonismo, che importiamo braccia. Salvo poi - là dove le mafie controllano tutto - pagarli, alloggiarli, trattarli da schiavi. Troppo comodo. Possibile che Stato, Regioni, Comuni, sindacati non possano fare nulla di positivo, di preventivo, di tempestivo in materia?

Il cammino della speranza
La chiusura di una solfara lascia senza lavoro gli abitanti di un piccolo paese della Sicilia. Le proteste e la lotta che culmina in momenti drammatici, non servono a nulla e la disperazione induce alcuni ad ascoltare la proposta di Ciccio che promette – dietro adeguato compenso – di farli emigrare in Francia. Anche se la paura è grande, tutti si privano dei pochi, sacrificati risparmi e li consegnano a Ciccio, pronti a partire verso il nord con le famiglie. Inizia il lungo viaggio attraverso l’Italia. Tra gli emigranti ci sono Saro (vedovo con prole) e Barbara, legata al pregiudicato Vanni, il quale all’ultimo momento si unisce al gruppo. Alla stazione di Roma Ciccio – che ha denunciato Vanni – scompare e tra gli emigranti iniziano a serpeggiare incomprensioni e sfiducia. Vanni riesce ad evitare l’arresto, ma ai suoi compagni viene consegnato il foglio di via. Il gruppo decide di continuare comunque il cammino verso la Francia. In Emilia vengono ingaggiati per il raccolto in una fattoria durante uno sciopero dei braccianti del luogo, con i quali ingaggiano uno scontro in cui la figlia di Saro viene ferita al capo da un sasso. Costretti a partire dal precipitare degli eventi, si allontanano lasciando Saro con la figlia inferma e con Barbara. Il gruppo si riunisce alla frontiera, dove giunge anche Vanni che, geloso del legame nato tra Barbara e Saro, affronta il rivale in un duello rusticano sulla neve. Superata la frontiera gli emigranti vengono fermati dai finanzieri francesi i quali, appreso da dove sono partiti, li lasciano passare.

Lungo i confini troverete sempre i soldati, soldati dell’una e dell’altra parte, con diverse uniformi e diverso linguaggio,
ma quassù, dove la solitudine è grande, gli uomini sono meno soli e certamente più vicini che nelle vie e nei caffè
delle nostre città dove la gente si urta e si mescola senza guardarsi in faccia... Perché i confini sono tracciati sulle carte,
ma sulla terra come Dio la fece, per quanto si percorrano i mari, per quanto si cerchi e si frughi lungo il corso dei fiumi
e lungo il crinale delle montagne, non ci sono confini, su questa terra.



Il cammino della speranza 1950, film di Pietro Germi
Regia:
Pietro Germi;
soggetto:
Pietro Germi, Federico Fellini, Tullio Pinelli (ispirato al romanzo Cuori negli abissi di Nino Di Maria);
sceneggiatura:
Federico Fellini, Tullio Pinelli;
fotografia: Leonida Barboni; scenografia: Luigi Ricci; musica: Carlo Rustichelli;
montaggio: Rolando Benedetti;
interpreti:
Raf Vallone, Elena Varzi, Saro Urzì, Saro Arcidiacono, Franco Navarra, Liliana Lattanzi, Mirella Ciotti, Carmela Trovato; produzione:
Luigi Rovere per Lux Film;
distribuzione: Lux; Italia, 1950, 107’.



L’anno precedente Germi aveva affrontato, con In nome della legge, il problema della mafia, secondo i moduli del western. Ora con Il cammino della speranza, narra l’odissea di un gruppo di disperati, secondo il modulo del viaggio e sullo schema del fordiano Furore. C’è, nel racconto, affanno, vigore, ridondanza. Non scabra e “sporca” come di solito nei film del neorealismo, la fotografia – accuratamente effettata, a volte levigata, a volte di suggestivo impasto – aggiunge alla storia una patina di nobile artificio. Anche se il film nasce da un’analisi seria della situazione meridionale, la troppo incalzante drammaticità ed il “colore” eccessivo attenuano il valore della testimonianza. Per contro, essendo Germi un buon narratore ed un attento regista, certe figure di contorno e la fierezza di certi caratteri suscitano qua e là commozione autentica. Così il turgore naturalistico di molti passaggi (la fuga di Ciccio alla stazione Termini, lo sciopero, il duello sulla neve, ecc.) si innesta su una dolente visione delle pene umane, contrassegnata dalla constatazione – cristiana, umanitaria, pessimistica – che il lottare non sempre serve a qualcosa. Non un film consolatorio ma, piuttosto, la presentazione, accesa e romanzesca (e anche veristica), di una povertà rabbiosa che cerca riscatto con i mezzi più disparati.
(Maurizio Del Vecchio, in Fernaldo Di Giammatteo, Dizionario del cinema italiano)
Il film ebbe un cammino non meno difficile di quello dei suoi personaggi. In un primo tempo fu addirittura privato dei contributi ministeriali straordinari (che fino ad allora non erano mai stati negati, nemmeno al più infimo dei film): lo si giudicò infatti privo dei necessari requisiti tecnici ed artistici [...] poi, anche se i contribuiti gli vennero concessi da una commissione d’appello presieduta dal già onnipresente Andreotti, il film dovette comunque subire vari tagli, in particolare nelle sequenze in cui la polizia, descritta una volta tanto con un certo realismo, non ci faceva una gran figura. [...] Il cammino della speranza inizia in un certo senso dove finiscono "In nome della legge" e "La terra trema": da una miniera chiusa, da una presa di coscienza che induce ad abbandonare la terra natia per recuperare sotto altri cieli il diritto al lavoro e alla dignità. Se "In nome della legge" era neorealismo romanzesco, Il "Cammino della speranza" è neorealismo epico, una ballata popolare scandita dalle note malinconiche ma non rassegnate di Vitti ‘na crozza. È un film tutto italiano, ai limiti del regionalismo, un viaggio morale attraverso il paese, da Sud a Nord, come quelli di "Paisà" (Roberto Rossellini, 1946) e del futuro "Stanno tutti bene" (Giuseppe Tornatore, 1990).[...] Ma potrebbe essere anche una storia americana degli anni bui, e se un rimando appare davvero inevitabile è quello a "Furore" (1940) di John Ford: gli stessi poveri, perché i poveri sono uguali dappertutto; la stessa gente costretta a lasciare per sempre la terra dov’è nata e dove non potrà morire; lo stesso viaggio, stipati come bestie, attraverso la miseria e verso la speranza; gli stessi sguardi muti in cui al fondo della tristezza e della rassegnazione si accende ogni tanto qualche lampo di rabbia o perlomeno di consapevolezza.
(Enrico Giacovelli, Pietro Germi)

L´autore: Pietro Germi (Genova, 1914 - Roma, 1974)
Figlio di un operaio e di una sarta, Pietro Germi dopo gli studi all’Istituto Nautico,
nel 1937 si trasferisce a Roma per iscriversi al Centro Sperimentale di Cinematografia,
dove segue dapprima il corso di recitazione, per passare ben presto a quello di regia, diretto da Alessandro Blasetti.
Per Blasetti nel 1939 scrive Retroscena, film al quale collabora anche in qualità di assistente alla regia.
Esordisce nel 1945 con Il testimone ed ottiene il primo riconoscimento di pubblico con In nome della legge (1949), film che sposa gli stilemi del western con l’ambientazione in una Sicilia dominata dal problema della mafia. Dopo aver raggiunto il successo con misurati melodrammi d’ambiente popolare (Il ferroviere, 1955) e piccolo borghese (L’uomo di paglia, 1958), Germi passa al registro della commedia, centrando immediatamente il bersaglio con Divorzio all’italiana (1961). Il film ottiene l’Oscar per la sceneggiatura ed è da molti considerato il film iniziatore del cosiddetto filone della “commedia all’italiana”, termine già usato dalla critica anni prima in relazione a film come Un americano a Roma e I soliti ignoti.
La descrizione amara di un ambiente sociale e di una mentalità vengono portate avanti anche nel successivo Sedotta e abbandonata (1963), che affronta tematiche e presenta personaggi similari ma ne accentua i toni grotteschi e la concitazione narrativa. Intenti di satira di costume ed acre moralismo trovano un perfetto punto di fusione in Signore e signori (1965), dove nel mirino del regista finisce la perbenista provincia veneta, che nasconde dietro l’ossequio formale al cattolicesimo infiniti ed inconfessabili vizi. Dopo il poco noto L’immorale (1967), inizia l’inarrestabile decadenza dell’autore: Serafino (1968) e Le castagne sono buone (1970) tessono improbabili elogi dell’ingenuità e dei buoni sentimenti, mentre Alfredo Alfredo (1972) è una fiacca commedia antidivorzista. Mentre sta lavorando al progetto di Amici miei (poi ereditato da Mario Monicelli), Germi scompare prematuramente per un´affezione epatica. Cineasta sottovalutato, artigiano di talento (Fellini lo chiamava “il grande falegname”, mescolando aspetto fisico e valore professionale), è un narratore di storie impeccabile, capace di coniugare istanze artistiche e ragioni spettacolari, nella direzione d’un cinema più statunitense che nostrano.