Eravamo noi i senegalesi, i maghrebini, i disperati d’Europa. Nessuno vuole ricordare: dai leghisti del Nord ai berlusconiani del Sud. Il sonno della memoria genera mostri come il razzismo. Gli interessi di “rapina” fanno il resto. Perché la Rai - che ne ha diritti ancora per un po’ - non proietta in ore possibili "Il cammino della speranza" (1950) di Pietro Germi, odissea di clandestini siciliani diretti in Francia? Dall’800 trenta milioni di italiani sono andati per il mondo come muratori, minatori, fonditori, scaricatori, braccianti agricoli, ecc. I lavori che i locali respingevano e che, da anni, anche i giovani italiani rifiutano, nello stesso Sud dove la disoccupazione giovanile è altissima. È per questo, non per buonismo, che importiamo braccia. Salvo poi - là dove le mafie controllano tutto - pagarli, alloggiarli, trattarli da schiavi. Troppo comodo. Possibile che Stato, Regioni, Comuni, sindacati non possano fare nulla di positivo, di preventivo, di tempestivo in materia? |
Lungo i confini troverete sempre i soldati, soldati dell’una e dell’altra parte, con diverse uniformi e diverso linguaggio,
ma quassù, dove la solitudine è grande, gli uomini sono meno soli e certamente più vicini che nelle vie e nei caffè
delle nostre città dove la gente si urta e si mescola senza guardarsi in faccia... Perché i confini sono tracciati sulle carte,
ma sulla terra come Dio la fece, per quanto si percorrano i mari, per quanto si cerchi e si frughi lungo il corso dei fiumi
e lungo il crinale delle montagne, non ci sono confini, su questa terra.
(Enrico Giacovelli, Pietro Germi)
|
Figlio di un operaio e di una sarta, Pietro Germi dopo gli studi all’Istituto Nautico, nel 1937 si trasferisce a Roma per iscriversi al Centro Sperimentale di Cinematografia, dove segue dapprima il corso di recitazione, per passare ben presto a quello di regia, diretto da Alessandro Blasetti. Per Blasetti nel 1939 scrive Retroscena, film al quale collabora anche in qualità di assistente alla regia. Esordisce nel 1945 con Il testimone ed ottiene il primo riconoscimento di pubblico con In nome della legge (1949), film che sposa gli stilemi del western con l’ambientazione in una Sicilia dominata dal problema della mafia. Dopo aver raggiunto il successo con misurati melodrammi d’ambiente popolare (Il ferroviere, 1955) e piccolo borghese (L’uomo di paglia, 1958), Germi passa al registro della commedia, centrando immediatamente il bersaglio con Divorzio all’italiana (1961). Il film ottiene l’Oscar per la sceneggiatura ed è da molti considerato il film iniziatore del cosiddetto filone della “commedia all’italiana”, termine già usato dalla critica anni prima in relazione a film come Un americano a Roma e I soliti ignoti. La descrizione amara di un ambiente sociale e di una mentalità vengono portate avanti anche nel successivo Sedotta e abbandonata (1963), che affronta tematiche e presenta personaggi similari ma ne accentua i toni grotteschi e la concitazione narrativa. Intenti di satira di costume ed acre moralismo trovano un perfetto punto di fusione in Signore e signori (1965), dove nel mirino del regista finisce la perbenista provincia veneta, che nasconde dietro l’ossequio formale al cattolicesimo infiniti ed inconfessabili vizi. Dopo il poco noto L’immorale (1967), inizia l’inarrestabile decadenza dell’autore: Serafino (1968) e Le castagne sono buone (1970) tessono improbabili elogi dell’ingenuità e dei buoni sentimenti, mentre Alfredo Alfredo (1972) è una fiacca commedia antidivorzista. Mentre sta lavorando al progetto di Amici miei (poi ereditato da Mario Monicelli), Germi scompare prematuramente per un´affezione epatica. Cineasta sottovalutato, artigiano di talento (Fellini lo chiamava “il grande falegname”, mescolando aspetto fisico e valore professionale), è un narratore di storie impeccabile, capace di coniugare istanze artistiche e ragioni spettacolari, nella direzione d’un cinema più statunitense che nostrano. |