E’ in corso in Sicilia la rivolta delle zucchine.
E non è di ora il boicottaggio tedesco alle
arance rosse di Sicilia. Ma non è questo il solo motivo di interesse.
Da anni chiedo che si guardi con un diverso approccio al «povero»
Mezzogiorno: le statistiche reiterate sul nostro reddito medio inferiore
a quello del Centro-Nord, la polemica (a vuoto) sulla fuga dei cervelli,
etc. puntano su un’immagine del Sud che è quella disegnata dalla
meridionalistica degli anni ’60-70. Una immagine del Mezzogiorno che non
c’è più, e che la vulgata politico-mediatica si ostina a
custodire perché fa comodo - per motivi che ho più volte
esaminato, e che non serve qui riprendere - ignorare il cambiamento che
c’è stato, ma è andato per vie differenti da quelle previste
nei progetti della Svimez, del Formez e delle agenzie meridionalistiche.
Negli anni ’90 l’analfabetismo non c’era più (e un ruolo decisivo
hanno svolto la media unificata, e la diffusione dei linguaggi multimediali),
si è chiusa la parabola dell’emigrazione «povera», si
è di molto
ridotta la povertà strutturale, l’incremento
dell’età media è ai livelli europei (anche grazie alla diffusione
della sanità pubblica), la cultura religiosa ha qui caratteri «moderni»
(diffusione del protestantesimo e di sette minori, ma anche impatto del
Vaticano II presso clero e laicato cattolici) e l’italiano regionale tiene
a bada ogni artificioso tentativo di «ritorno al dialetto»,
dialetto che nondimeno permane e ha vitalità non solo nel linguaggio
colloquiale ma anche nell’espressione letteraria. E le tradizioni popolari,
il folklore sono stati da tempo promossi ad antropologia culturale, etc.
Più bassa che in altre parti del paese, che pur ristagna nelle bassure
della «transizione», è nel Sud la cultura politica -
assai condizionata dalla composizione e dai caratteri del nuovo medio ceto,
di modesto profilo e appagato dall’impiego pubblico - ove non si chiedono
competenze, non si misura la produttività, non esistono responsabilità
e trasparenza. Altro che fannullonismo! Lo strato alto è occupato
da quanti lucrano pubblici stipendi, ma si spendono poi nel secondo lavoro
- che a volte si identifica con la fascia automatica del «premio
di progetto», o conosce le tentazioni della corruzione accanto al
servilismo clientelare. Ora questo ventre molle appare in grado di sopportare
il peso della malattia che gli è cresciuta dentro, l’inoccupazione
dei figli - vale a dire l’esistenza di almeno due generazioni di giovani,
demotivati dalla «cultura» al tempo stesso scettica e
cinica dei padri. Sono anni che da queste stesse colonne provo a definir
questo male, vale a dire il mancato ingresso di generazioni nel mondo del
lavoro, come il vero cancro dell’organismo meridionale. Se n’è accorto
persino il mago Brunetta, che vuole una legge per tagliare il cordone ombelicale
ai diciottenni. E di tutto ciò le mafie, che sono ancor esse molto
differenti anche nelle gerarchie rispettive dalla «vecchia mafia»,
sono l’espressione piuttosto che la causa. La crisi presente, che la cultura
non solo politica si è dichiarata impotente a interpretare, e la
classe politica a governare, ha mescolato materiali incendiari di varia
provenienza: le sacche di schiavitù che consentono al Sud di produrre
a costi competitivi son cresciute per l’ignavia dei governi che sono intervenuti
in modo maldestro, mutandone dimensioni e carattere, sono come ricadute
su sé stesse - vesciche sgonfie - appena il crollo dei consumi,
e la conseguente ristrutturazione del mercato hanno colpito la parte non
delocalizzabile del sistema, l’agricoltura. Già alla fine degli
anni ’90 in Francia come in Germania, in Gran Bretagna come in Olanda o
Danimarca l’unico prodotto agricolo meridionale presente nei supermercati
era l’uva Italia: a fornire gli agrumi (non solo del Magreb, ma anche dell’America
meridionale) era in particolare la Spagna che faceva da tramite; e quanto
ai vini la maggiore minaccia veniva al mercato non protetto dell’Europa
dal Sud-Africa e dagli Stati Uniti, non certo dal buon vino siciliano pugliese
o campano. Conseguenza scontata e prevedibile era un’ulteriore pressione
sugli schiavi «immigrati clandestini»: e qui era la mafia dovunque
a fornire i caporali. Quando la pressione si è fatta disumana, e
contagiosa la disperazione del piccolo produttore, quel che è accaduto
a Rosarno (dove erano aggiunti elementi che avevamo visto svilupparsi,
nel corso della modernizzazione e della realizzazione del porto canale
di Gioia Tauro) poteva accadere, e accade magari in forme attenuate altrove
in tutto il Mezzogiorno agricolo.
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