L'INCHIESTA/Chi comanda nelle grandi città Palermo sommersa dal partito del nulla 28 gennaio 2007 ALBERTO STATERA PALERMO - A Milano non c'è più Enrico Cuccia, a Palermo non c'è più Vito Guarrasi. "Cu è chistu?". È la sicula, storica incarnazione del potere. Scomparsi adesso i due massimi sacerdoti del potere nelle due Italie, che nel potere talvolta si ricomponevano, tutto si frantuma, si scombina in un bradisismo che confonde le linee di comando e ne fa una poltiglia persino qui nella patria del "cummannari è megghiu che futtiri". Diversi: l'uno un omino grigio in eterno fumo di Londra, l'altro in regolamentare lino chiaro, panama e sigaro, si vedevano, si consultavano, scherzavano persino, con l'autoironia dei veri potenti, sul loro potere e sulla reciproca cattiva fama, come confessò il gran khan palermitano prima di morire. Oggi se a Palermo chiedi di Guarrasi ti rispondono, per l'appunto: "Cu è?". Originario di Alcamo, dove la sua famiglia possedeva i vigneti "Rapitalà", giovane aiutante del generale Giuseppe Castellano fu testimone dell'armistizio di Cassibile con gli anglo-americani. Nei decenni successivi, non c'è stato evento siciliano o nazionale, politico o economico, che non lo abbia visto, sempre a cavallo tra democristiani e comunisti, protagonista silente e tenebroso: dall'autonomia regionale al milazzismo, dall'assassinio di Enrico Mattei alla bancarotta di Michele Sindona, dal finto rapimento di Graziano Verzotto - veneto di Padova diventato vicerè della Sicilia democristian-mafiosa come i veneti Silvio e Antonio Gava lo furono della Napoli democristian-camorrista - fino alla scomparsa di Mauro De Mauro. L'industria del sale, poi il petrolio, le esattorie delle imposte appaltate ai cugini Nino e Ignazio Salvo, le imprese irizzate o enizzate, la politica e gli affari furono, nel bene e più spesso nel male, il pane quotidiano dell'avvocato Guarrasi, che in Sicilia incarnò la "stanza di compensazione" dei poteri legali e illegali. Un Cuccia in salsa siciliana. Che non c'è più, come il cugino siculo-milanese di via Filodrammatici. Oggi sbarchi a Punta Raisi, aeroporto "Falcone-Borsellino", chiedi chi comanda e ti guardano come un marziano. Non solo Guarrasi, non c'è più Salvo Lima, né il cardinale Ernesto Ruffini né l'ex ministro delle Partecipazioni statali Nino Gullotti. Non ci sono più i Cavalieri dell'apocalisse, i signori del cemento Graci, Rendo, Costanzo e Finocchiaro, che collezionavano tutti gli appalti. Giulio Andreotti, assolto dalle colpe mafiose, fa il padre della Patria. I nobili, dai Tasca d'Almerita in giù, son tutti lì nei palazzi di campagna tra migliaia di ettari di vigneti a saggiare la gradazione dei loro vini, che vendono a milioni di ettolitri. I mafiosi della nuova generazione non ammazzano poi più tanto, fanno il "pizzo", con i piccoli imprenditori consenzienti. Compreso Totò Schillaci che, dismesse le insegne mondiali, chiede protezione ai picciotti per difendere la sua scuola di calcio palermitana. Il procuratore capo Francesco Messineo, annunciando di aver sgominato il racket del pizzo della Noce - diciassette arresti l'altro giorno - dice che ci sono "emergenze criminali ben più intense nel paese", ma condanna l'acquiescenza dei negozianti che pagano ormai il pizzo come fosse una legittima tassa comunale. E il sostituto Alfredo Morvillo - quarantotto arresti due giorni dopo - quella della politica complice, che ha istituzionalizzato la Palermo dei favori. E favori è dir poco. Tira scirocco su Palermo. Leoluca Orlando, che il 4 febbraio affronterà le primarie per la candidatura a sindaco la prossima primavera, dice che non c'è più "un punto unico di sintesi del potere, in assenza di ogni cultura di governo e di sano comando". Un "partito del nulla", una borghesia mafiosizzata, un blocco sociale spurio, un'economia assente, se non per il "keynesismo delinquenziale" che negli ultimi cinque anni ha dilapidato ventimila miliardi di lire dell'Unione europea in chiese, formazione professionale, precari e clientele varie. Il capo del "partito del nulla" siede a palazzo dei Normanni sulla poltrona di presidente della regione. Si chiama Totò Cuffaro, detto "Puffaro", per via del fisico brevilineo e rotondo (lui, comprensivo, si definisce un po' "pacchionello") o "Zu Vasavasa" per i baci che schiocca a tutti quelli che incontra, soprattutto ai matrimoni e ai battesimi, che sono il suo palco politico preferito. Alle signore incinte è riservata, per sua dichiarazione, una toccata del pancione. Sotto processo per favoreggiamento di Cosa Nostra, Cuffaro ha 18.239 dipendenti, di cui 5.016 precari, più 30.745 lavoratori forestali, con un bilancio di 26 miliardi, di cui 17 per stipendi e 8 per la sanità, e un archivio privatissimo computerizzato con i nomi e le abitudini di 50 mila elettori. La sanità, ecco la cornucopia, il grande business politico e personale del governatore, che è medico, e che in materia è titolare di un record mondiale: 1.720 strutture mediche private accreditate e convenzionate in Sicilia, contro le 70 in Lombardia. Roberto Formigoni, che come lui a Milano ha ottime entrature "cielline" e sanitarie, può andare a nascondersi. Proconsole cuffariano nella sanità - o piuttosto viceversa - è don Luigi Verzè, il prete della multinazionale "San Raffaele", portatore dell'evangelica missione di curare bene i ricchi, che vola in jet privato e che il papa Paolo VI in persona accusò del peccato terreno di voler fare soltanto soldi. E Michele Aiello, presunto prestanome del boss Bernardo Provenzano, che da costruttore di strade interpoderali, con "Puffaro" si è fatto, a sua volta, ras locale della sanità. Dal bar-ristorante Lacuba di piazza dei Marinai, ritrovo fighettoso di destra, vigila Gianfranco Micciché, come sempre eccitatissimo. Figlio di un dirigente del Banco di Sicilia, strappato agli ozi palermitani da Marcello Dell'Utri che lo assunse in Publitalia, Micciché è tuttora considerato l'artefice del voto che consegnò Palermo e la Sicilia a Silvio Berlusconi con sessantuno deputati su sessantuno. Fama che oscura persino quella ben meritata di suo fratello Gaetano, stella crescente di Imi-San Paolo-Intesa, il polo bancario di Giovanni Bazoli, Corrado Passera e Enrico Salza, supersimpatizzanti dell'attuale maggioranza governativa prodiana. Bella coppia Cuffaro-Miccicché: "La vecchia mafia dell'Udc e la nuova mafia di Forza Italia", li bolla senza tanti complimenti Leoluca Orlando, che, se vincerà le primarie, è convinto di tornare sindaco, anche se il centrodestra spaventato gli opporrà l'ex ministro socialdemocratico Carlo Vizzini. Poi, giù giù per li rami, Enrico La Loggia, figlio di superba tradizione democristiana, ma considerato più verboso che fattivo, e Diego Cammarata, il sindaco, semplice soldato del partito del nulla: "A Palazzo dell'Aquila e dintorni - sintetizza Orlando, che alle primarie se la deve vedere con la candidata diesse Alessandra Siragusa - vivono le tre scimmiette che non vedono, non sentono, non parlano, semplicemente esternalizzano le funzioni e gli affari". Per gli appalti bisogna scendere al porto e fare anticamera dal presidente Nino Bevilacqua, che tiene il relativo sportello. Agli eventi ci pensa Davide Rampello, alle attività sociali monsignor Diliberto dalla parrocchia di San Gaetano di Brancaccio, a tutto il resto Silvio Liotta, ex segretario generale dell'Assemblea regionale e protesi vivente del Micciché, quello del bar-ristorante di piazza dei Marinai. Poi una pletora di lobbisti e avvocati d'affari, tra i quali brilla Nicola Piazza, cui si dice che piacerebbe assai fare il Guarrasi del nuovo millennio. E il sindaco? Dicono che ricordi Carmelo Scoma, un suo predecessore degli anni Settanta che, scendendo da Palazzo dell'Aquila, dove si soffermava non troppo a lungo, e incrociando il cronista Armando Vaccarella lo apostrofava: "Armà, novità oggi in comune? " Ma quando Cammarata va a mangiare a Mondello lascia a Palazzo dell'Aquila 5.820 dipendenti, 3.353 precari, lavoratori socialmente utili pagati con trasferimenti statali, 3.402 lavoratori del "pip" (niente equivoci, per favore, è l'acronimo di piano inserimento professionale), pagati con trasferimenti regionali e una macchina comunale che costa 25 milioni al mese, su un bilancio complessivo di 3 miliardi e 202 milioni. Alla nuova e un po' scalcinata università del potere palermitano hanno detto che degli elettori devi possedere le anime: e qual è il modo migliore se non la distribuzione di lavori precari, che consegnano migliaia e migliaia di anime all'arbitrio dei politici? "Chi è potente? Chi ha assai - dice un vecchio proverbio siciliano - e chi non ha niente". Tira scirocco su Palermo, si annuvola, ma nel grigio che incede sparano dai muri centinaia di manifesti rosso fuoco di tutte le dimensioni, insidiati soltanto da quelli della candidata diessina alle primarie, che illustrano le magnifiche sorti e progressive della città: "La Zisa, patrimonio ritrovato", "Il tram non è più un desiderio", "Anello ferroviario verso il traguardo", "Restaurate statue e fontane, splende il giardino inglese", "Palermo, rinascimento a colpi di cantiere". Salvo poi scoprire che il tram è un desiderio, l'anello ferroviario un sogno, il risanamento del centro e della Vucciria un incubo e il rinascimento una bella favola. Si dovevano portare 50 mila nuovi residenti, da sommare ai 21 mila superstiti, ma l'ultimo censimento del degrado conta 282 immobili cadenti, 90 dei quali abitati; dei 70 milioni di euro di contributi pubblici, ne sono stati utilizzati non più di 30 mila. Il panificio, la macelleria, la drogheria a piazza del Garraffello sono sbarrate, di notte ci si aggira in un deserto surreale e terrificante. Peggio di trentacinque anni fa quando il risanamento del centro storico era l'oggetto dei pranzi al "Charleston" di Gaetano Caltagirone, palazzinaro di fede andreottiana, con il segretario socialista Giacomo Mancini. Ma a onor del vero, tra i tanti che sparano dai muri scrostati, c'è anche un manifesto non truffaldino: "Palermo a cinque stelle", dice. E non mente: sorgono come funghi alberghi a quattro e cinque stelle, in vecchi palazzi storici, in dimore nobiliari, in nuovi grattacieli vetrati. Non si contano più le inaugurazioni. Francesco Caltagirone Bellavista, dell'Acqua Pia Antica Marcia, con il San Domenico di Taormina, l'Excelsior di Catania e l'Hotel des Estrangers di Siracusa, ha preso a Palermo Villa Igiea e l'Hotel des Palmes. Grandi pezzi di storia. Per dirne una, al des Palmes visse per mezzo secolo senza mai uscirne il barone Giuseppe Di Stefano di Castelvetrano, chi dice per una condanna alla reclusione di lusso per uno sgarbo alla mafia, chi dice - come Gaetano Savatteri, autore per Laterza de "I Siciliani" - perché non aveva una lira e l'albergo lo ospitava gratuitamente in cambio della pubblicità che faceva alla casa invitando famosi personaggi, da Maria Callas a Mario Del Monaco, da Renato Guttuso a Carla Fracci. "Una banalità ricorrente", secondo Leoluca Orlando il rilancio di Palermo come città turistica di lusso. E lo stesso Caltagirone, che sta investendo molti denari qui, come a Venezia e in Liguria, dice che sì, che "Palermo e la Sicilia sono un museo a cielo aperto, il turismo può essere un motore, ma non l'unico". E sapete di che si lamenta per le sue attività in Sicilia, terra d'origine della sua famiglia? Del "potere frazionato, che non decide, delle burocrazie che contano più della politica, delle furbizie italiane elevate qui all'ennesima potenza". E ha anche una ricetta: "Governi di grande coalizione a Roma e in periferia". Una specie di governo come quello che tentò a Palermo Silvio Milazzo, con democristiani, missini e comunisti? Più o meno le stesse lamentele di Caltagirone quelle del patron del Palermo Maurizio Zamparini, che vuole costruire una Zamparini-City - il potere del calcio funzionale alle speculazioni immobiliari - su 288 mia metri quadrati al confine dello Zen: un centro commerciale di 30 mila metri quadri tra Roccella e Brancaccio, corredato di servizi e impianti sportivi. Vicino ci vuol fare il nuovo stadio, al posto del velodromo, ma avverte i politici: datemi l'ok subito, pena la perdita dei campionati europei del 2012. Tira lo scirocco su Palermo. Borghesi, nobili e politici lo sfidano a Mondello, nei circoli titolati, i veri crocicchi dei "poteri frazionati". A "La Vela", o al "Lauria", sotto lo sguardo compiaciuto del presidente Gabriele Guccione Alù. E' qui che la "cupola - non - cupola" si ricompone all'ombra del ritratto dell'ammiraglio Ruggero de Lauria. Ma non dite che è mafia. |
Si respira una brutta aria a Barcellona Pozzo di Gotto. E girano pure delle brutte voci. Antonio Mazzeo – Redazione terrelibere.org Sei mesi dopo la conclusione dell’indagine conoscitiva della commissione prefettizia sulle infiltrazioni mafiose al Comune, sul tavolo del ministro degli Interni giace una relazione che descrive gravi deviazioni amministrative e le frequentazioni rituali tra boss e politici locali. Eppure, ad oggi, Giuliano Amato non ha ancora predisposto il decreto di scioglimento da sottoporre al Consiglio dei ministri. A settembre 2006 sembrava cosa fatta. Si disse che era questione di giorni. Poi iniziò un altalenante susseguirsi di conferme e di smentite. Attraverso ripetute interviste a giornali ed emittenti televisive, il sindaco Candeloro Nania, cugino del più noto senatore di An Domenico, rivelò di essere stato ricevuto da alti funzionari del Viminale e di avere dimostrato agli stessi l'insussistenza, a suo dire, dei presupposti per lo scioglimento dell'amministrazione comunale da lui guidata. Intanto si facevano pressanti le “insinuazioni” che vedevano lo scioglimento sacrificato da una “trattativa” tra gli amministratori di centrodestra protetti dal potente parlamentare barcellonese ed uno o più esponenti regionali dei Ds e della Margherita, finanche un senatore dell’Unione eletto nell’isola e persino un sottosegretario meridionale. “Tu ci metti una buona parola a Roma e noi disertiamo di tanto in tanto le risicate votazioni a palazzo Madama”, il succo dell’accordo. Il tutto veniva messo nero su bianco da alcuni organi di stampa locali. Scontata una levata di scudi delle segreterie dei due maggiori partiti del centrosinistra e di An, la richiesta della testa dell’incauto giornalista e magari una sfilza di querele da parte dei parlamentari chiamati in ballo. E invece un inquietante silenzio-assenso. Iniziava allora a circolare in versione integrale il contenuto della “segreta” relazione prefettizia ed il sindaco Nania, a nome della maggioranza, chiedeva ufficialmente l’archiviazione della procedura di scioglimento del Comune contestando alcuni dei rilievi (i meno significativi) dei commissari. Continuava l’agonia di una città oppressa dalla violenza, che aveva sperato però di incamminarsi in un difficile percorso di liberazione dal condizionamento criminale. Certo le voci indignate sono state poche, troppo poche. Le maggiori associazioni antimafia d’Italia, riunitesi a Barcellona l’8 gennaio scorso per ricordare il sacrificio del giornalista Beppe Alfano, avevano chiesto qualche sforzo in più per dare la spallata finale ad una consorteria politico-affaristica che appariva ormai moribonda. I partiti all’opposizione hanno invece nicchiato, hanno scelto di non alzare la voce, non hanno preteso spiegazioni ai propri rappresentanti di Roma e Palermo accusati di combine con l’avversario post-fascista. Per alcuni dei leader locali è già tempo di campagna acquisti e rimpolpare le liste in previsione della prossima tornata elettorale, che senza il decreto di Amato, scatterà a primavera. Domenica 14 gennaio c’è stato un colpo di teatro: nel corso di un comizio nella piazza centrale di Barcellona, il senatore Nania ha dichiarato di aver ricevuto personalmente da Giuliano Amato confidenze secondo le quali il Ministro stesso non “reputa sussistere i presupposti per lo scioglimento dell'amministrazione comunale ma che non è detto che egli riesca a respingere le poderose pressioni che gli vengono rivolte da personaggi che ambirebbero allo scioglimento per bieche convenienze politiche”. C’è chi ha letto le dichiarazioni del parlamentare come un’ammissione di sconfitta, mentre da Roma giungono voci che entro venerdì 19, massimo il 26 di gennaio, il Consiglio dei Ministri avrebbe commissariato Barcellona per mafia. La “soffiata” dalla capitale induce a pensare che si è alla svolta finale. Ma l’illusione dura poco. Lunedì 15, sindaco e assessori si presentano al lavoro spavaldi. C’è chi giura di averli sentiti festeggiare in sala giunta. “Amato non predisporrà il decreto, ormai è certo”, gridano alcuni. Dal Viminale si raccolgono implicite conferme. “Non potevamo fare di più, di fronte alle contro-osservazioni dei due Nania, Giuliano Amato avrebbe richiesto alla Prefettura di Messina ulteriori elementi a chiarimento. Gli sarebbe stato risposto che la situazione odierna è diversa e così il ministro ha deciso di soprassedere”. L’ennesimo trionfo del senatore nero. Ennesimo perché sono passati quasi quattro anni da quando sono pubbliche le risultanze delle inchieste sulle commistioni tra alcuni assessori e consiglieri e la criminalità organizzata nella gestione di importanti opere pubbliche in mezza Sicilia (“Operazione Omega-Icaro”), e nessuno, né a Messina, né a Palermo, né a Roma aveva ritenuto doveroso avviare un’indagine conoscitiva sul reale peso dell’infiltrazione mafiosa nella vita politico-amministrativa di Barcellona Pozzo di Gotto. L’immobilismo è durato sino al gennaio dello scorso anno, quando la Relazione di minoranza (oggi maggioranza di governo) della Commissione parlamentare antimafia dedicava alla città del Longano un capitolo intero. “La mafia barcellonese mostra di avere grande capacità di infiltrazione nel settore degli appalti pubblici e nelle amministrazioni locali … e l’indebita interferenza nella gestione del servizio di raccolta dei rifiuti”, dichiaravano i commissari. Poi un passaggio ancora più sconvolgente: “L’importanza di Barcellona negli equilibri di Cosa Nostra è risultata anche nelle vicende della strategia stragista che colpì la Sicilia nel 1992. Molti collaboratori di giustizia hanno riferito che proprio nella provincia messinese si tennero alcune riunioni fra uomini di Cosa Nostra ed interlocutori esterni. Ma al di là di questo c’è il fatto, riferito da Brusca, che il telecomando da lui stesso azionato il 23 maggio 1992 a Capaci gli venne personalmente recapitato da Giuseppe Gullotti…”. Barcellona la Corleone del XXI secolo, si disse. Lo scioglimento per mafia del Consiglio apparve la strada obbligata per ridare barlumi di legalità e trasparenza alla vita amministrativa della città. Ma c’erano le elezioni politiche alle porte e si ritenne, tacitamente, che la questione non dovesse avvelenare il libero confronto tra le parti. Prodi vinse anche se di un soffio ma si preferì far passare impunemente anche la tornata per il rinnovo del Parlamento regionale. Quasi non si dovesse disturbare il grande manovratore locale. Finalmente a giugno 2006 giunsero i quattro commissari nominati dal Prefetto Stefano Scammacca che in meno di un mese definirono la realtà barcellonese come “molto inquietante”. “La mafia imprenditrice, quella delle connivenze con alcuni membri delle istituzioni e, per finire, quella che si insinua nel settore della politica, dei servizi pubblici e della pubblica amministrazione sono le connotazioni più recenti della criminalità organizzata barcellonese”, si legge in una delle centoquarantasei pagine di relazione. Centoquarantasei pagine in cui che sarebbero state smontate da una “richiesta di archiviazione” a firma dell’amministrazione di appena 8 pagine, più 9 schede di “osservazioni”. A cui si sarebbe aggiunto, e in modo determinante, un “supplemento esplicativo” a firma del Prefetto Stefano Scammacca. Amato ha preferito credere più a lui che al “collega” Antonio Nunziante a capo della commissione ispettiva, promosso intanto a Prefetto di Forlì. Poco meno di un anno fa, il 15 marzo 2006, Stefano Scammacca non aveva certo dato un bell’esempio di alto funzionario dello Stato. Chiamato a deporre come teste al processo di Catania sul “rais” dei supermercati della Sicilia orientale, Sebastiano Scuto, imputato di mafia, il Prefetto di Messina ha risposto con ben trenta “non ricordo”. Ha tuttavia ammesso “un rapporto amichevole” con l’imprenditore. Tanto amichevole da svendergli una Macerati del ’68. Ma questa è un’altra brutta storia. Il gioco al massacro E così ancora una volta a Barcellona le frasi più ricorrenti sono “semu tutti i stissi” o “il mafioso, tanto, lo abbracciavano tutti”. E trapelano vere e proprie perle bipartisan. Uno dei temi che ha destato l’interesse dei commissari è stato ad esempio quello della locazione di immobili sede di uffici pubblici comunali. Rovistando tra le carte si è scoperto che il 18 ottobre 2001 il Comune di Barcellona stipulò un contratto della durata di 6 anni con tale Alessandro Cattafi, amministratore unico della Dibeca Snc di Barcellona, “in sostituzione di Nicoletta Di Benedetto, proprietaria dell’immobile, dietro corresponsione di un canone annuo fissato in 27.888,67 euro”. Alessandro Cattafi e Nicoletta Di Benedetto risultano essere rispettivamente figlio e madre dell’avvocato Rosario Cattafi, sottoposto dal luglio 2000, data antecedente alla stipula della locazione, alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza con obbligo di soggiorno per cinque anni. Certo le colpe dei padri non ricadono automaticamente sui figli, ma sarebbe bastata una capatina alla Camera di commercio per verificare che la società in questione non occultava per nulla il suo vero dominus: il nome completo è infatti “Dibeca snc di Cattafi Rosario & C”, oggetto la gestione di lavori edili, stradali, marittimi e ferroviari. Amministratore unico della società sino al 1987, Agostino Cattafi, fratello di Rosario, poi sindaco del comune di Furnari. Rosario Cattafi è descritto dai commissari prefettizi come uno dei “soggetti di livello superiore” che si muovono per mediare i contatti tra i vertici di Cosa Nostra e “taluni membri delle istituzioni operanti specialmente nel settore della politica, della giustizia e delle pubbliche amministrazioni”. Le indagini hanno accertato i rapporti tra il legale e “numerosi esponenti della criminalità organizzata provinciale e regionale, con particolare riferimento a Francesco Rugolo, ai vertici del gruppo barcellonese, ucciso il 26 febbraio 1987”. Cattafi è stato pure “compare di anello” del boss Giuseppe Gullotti (quello citato nella Relazione dell’Antimafia come il fornitore del telecomando per l’attentato mortale contro il giudice Falcone, la moglie e la scorta del 1992), a capo della mafia del Longano perlomeno sino alla sua condanna definitiva per l’omicidio del giornalista Beppe Alfano. “Di assoluto rilievo – aggiungono i commissari - sono anche i rapporti che lo vedono legato al boss catanese Benedetto Santapaola ed a soggetti appartenenti alla cosca mafiosa di quest’ultimo. Numerosi collaboratori di giustizia hanno indicato Cattafi come personaggio inserito in importanti operazioni finanziarie illecite e di numerosi traffici di armi, in cui sono emersi gli interessi di importanti organizzazioni mafiose quali, oltre alla cosca Santapaola, le famiglie Carollo, Fidanzati, Ciulla e Bono”. Esponente di punta negli anni ’70 dell’estrema destra accanto a Pietro Rampulla, l’esperto artificiere di Cosa Nostra, Rosario Cattafi è stato pure indagato (e prosciolto) dalla DDA di Caltanissetta nell’ambito del procedimento sui “mandanti occulti” della strage di Capaci. Egli ha pure subito una pesante condanna, poi annullata, al processo sull’Autoparco della mafia di via Salomone a Milano. Con l’oscuro personaggio sarebbero stati sin troppo accondiscendenti quasi tutti i gruppi politici di Barcellona. “Fu l’allora giunta di centrosinistra con delibera del 15 giugno 2000, approvata dal sindaco Francesco Speciale e dagli assessori Ds Rocco Marazzitta, Giuseppe Saya e Vito Siracusa ad autorizzare l’amministrazione a stipulare il contratto di affitto con la società della famiglia Cattafi”, ha scritto Candeloro Nania nella sua richiesta di archiviazione della procedura di scioglimento del Comune di Barcellona. “L’atto di affitto è stato sottoscritto materialmente il 18 ottobre 2001 dall’allora Commissario regionale, dott. Zaccone”, ha replicato l’ex sindaco Speciale. E viene pure recuperata dagli archivi del Municipio una delibera del Consiglio comunale in data 9 maggio 2000 con cui si approvava una proposta di emendamento a firma dei capigruppo dei partiti del centrodestra Maurizio Marchetta, Nicola Marzullo, Santi Calderone e Danilo Gelsomino che elevava a 70.000 euro il capitolo di bilancio riservato annualmente all’affitto dei nuovi locali. Dunque il “regalo” a Cattafi & famiglia non era certo da imputare – solo - all’allora giunta di centrosinistra. Firmato poi il contratto dal Commissario nessuno se l’è poi sentita di tirarsi indietro e la Dibeca ha già incassato quasi 140.000 euro di canoni d’affitto. Per la cronaca, nello stabile “comunale” dei Cattafi ha sede anche la Croce Rossa Italiana – delegazione provinciale di Messina / Barcellona. “Io Cattafi lo conoscevo bene” Primo firmatario dell’emendamento sugli affitti, come abbiamo visto, tale Marchetta, astro ascendente di An, poi vicepresidente dell’odierno consiglio comunale. A lui la relazione prefettizia dedica più di un passaggio. Intanto perché notato in compagnia dello stesso avvocato Rosario Cattafi e di altri mafiosi di punta del gotha barcellonese, come ad esempio Giuseppe “Sem” Di Salvo, odierno reggente del clan. Maurizio Marchetta è stato indagato per associazione mafiosa finalizzata alla turbativa d’asta nel procedimento “Omega” e nei suoi confronti è stata proposta misura di prevenzione antimafia personale e patrimoniale. Il 26 maggio 2006 il Tribunale di Messina ha però rigettato la richiesta di confisca ordinando il dissequestro dei beni e, provvidenzialmente, solo due mesi fa, il reato per il 416bis è stato derubricato in associazione semplice. Anche l’avvocato Rosario Lizio, assessore alla “Pubblica Istruzione, promozione culturale, valorizzazione dei beni culturali, musei, biblioteche, sport e turismo” è stato notato perlomeno una volta in compagnia del “collega” Cattafi. E nella giunta Nania ha seduto per quasi tutto il mandato un secondo assessore “vicino” al controverso personaggio in odor di mafia e servizi segreti, il forzista Giuseppe Cannata, delega ai temi caldi dell’“Ambiente e della Sanità”. Cannata è stato descritto come “soggetto più volte trovato in compagnia di alcuni tra i più importanti e pericolosi appartenenti alla criminalità organizzata” (tra gli altri Sem Di Salvo, i fratelli Aldo e Salvatore Ofria, Cosimo Scardino, ecc.). Già condannato per emissione di assegni a vuoto, Cannata è imputato di tentata estorsione e falso in bilancio (reati per i quali fu arrestato nel maggio 1997). Candeloro Nania ha deciso di sbarazzarsi di lui solo il 3 ottobre 2006. “Sono intervenuto – ha dichiarato - quando ho avuto conoscenza e certezza che nelle note prefettizie e nella relazione Nunziante si faceva riferimento alle presunte frequentazioni del Cannata”. Evidentemente per il sindaco garantista non erano stati sufficienti manette e relazioni antimafia. Del resto il Cannata era cittadino al di sopra di ogni sospetto. La moglie sarebbe una dipendente del Ministero degli Interni al servizio della Prefettura di Messina e da due anni presterebbe servizio presso l’Ispettorato di Pubblica Sicurezza di Barcellona… |
Entro il 2008 verrà ampliata anche la base siciliana, per accogliere altri 6800 soldati americani e puntare soprattutto verso l’Africa. Un affare da milioni di euro avallato dall’amministrazione comunale che vede convergere il malaffare locale in un gioco di speculazione ambientale e abusi edilizi. La rabbia delle associazioni locali, l’interrogazione parlamentare del Prc www.peaceandjustice.it Dopo Vicenza, sarà la volta di Sigonella. Dal 2003 La Marina Militare degli Stati Uniti sta lavorando sotto silenzio al potenziamento della base siciliana, che presto verrà estesa, facendo posto a 6800 nuovi militari entro il gennaio 2008, molti di più che i circa duemila in arrivo a Vicenza. La costruzione delle 1.300 villette (più impianti sportivi, parcheggi e attrezzature per la sicurezza), in un’area di 76 ettari, per la quale serviranno 670mila metri cubi di cemento, è stata presentata appena Un’operazione programmata da tempo, per di più in una zona “a vincolo paesaggistico e archeologico”, approvata definitivamente nello scorso ottobre dal consiglio comunale di Lentini, che ha potere decisionale su Sigonella. Come riporta il dossier del Centro Studi Territoriali Ddisa di Lentini, che fa capo alla rivista “Giro di vite”, la delibera era stata preceduta da una proposta legislativa della Cdl che intendeva semplificare la legislazione esistente in materia di tutela urbanistica delle Nell’ordinanza del febbraio 2006 parte dell’opposizione votò con la maggioranza (compreso il futuro sindaco), e il progetto di variante del Piano Regolatore Generale fu approvato sfruttando oltretutto il commissariamento del Comune, successivo alla candidatura alla Camera del sindaco dimissionario Nello Neri (An), ripescato come primo dei non eletti in Sicilia, e attualmente deputato. Sullo sfondo, non soltanto il vassallaggio all’alleato americano, ma anche un i giochi di ruolo tra E’ dal 2003 che Sigonella è stata inserita nel programma di investimenti della Marina degli Usa, pronta a stanziare 675 milioni di dollari in giro per il mondo, facendo i conti con le frequenti illazioni (ultima quella di Francesco Cossiga) sull’esistenza di armi nucleari nella base siciliana. Così facendo il piano Mega IV, che prevede la realizzazione di una scuola nella base Nas1 (adibita a centro residenziale) e di altri sette edifici nella Nas2 (l’aeroporto e i depositi di armi) per totali 300 milioni di |
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