Quest'anno
usciranno in 150 mila ma solo poco più della metà verrà
assunto. E nel 2005 il numero è sceso rispetto
allo scorso anno
Sempre meno neolaureati trovano
un posto di lavoro
26 settembre 2005
Per qualcuno impieghi precari nel pubblico.
Intanto a emigrare dal Sud in difficoltà sono soprattuto
i "cervelli". Il gap tra donne e uomini
Tanto rumore per nulla. Un mercato del lavoro più flessibile,
un sistema universitario più volte riformato e un crescente numero
di immatricolati e laureati. Ma le cose, a conti fatti, non sembrano migliorare.
Sì, perché gli obiettivi declamati continuano a sfuggire.
I giovani, i laureati, le migliori risorse del Paese si vedono in buon
numero costrette a rimanere fuori dalla realtà produttiva o ad accontentarsi
di un impiego precario o di gran lunga inferiore al titolo raggiunto.
Il numero di immatricolati che, anche grazie al passaggio a un nuovo
ordinamento universitario, ha ripreso a crescere negli ultimi anni (330
mila iscritti nell'anno 2003-2004) non trova sbocco sul mercato dell'occupazione.
Secondo alcune stime quest'anno usciranno dalle facoltà delle università
italiane 153 mila nuovi laureati. Un numero che si va a sommare a quelli
che sono ancora in 'parcheggio' in attesa di un impiego. Quanta corrispondenza
c'è tra le loro attese e i fabbisogni delle imprese?
Da questo grande bacino di giovani ad alto potenziale, le aziende
pescano con molta parsimonia preferendo sempre più spesso i diplomati.
Secondo l'indagine Excelsior realizzata da Unioncamere, nel 2005 delle
648 mila assunzioni solo 57 mila riguarderanno i laureati. E un terzo di
queste assunzioni saranno con contratti a tempo determinato o di apprendistato.
A questi si aggiungono i circa 30 mila che finiranno con contratti precari
nella Pubblica amministrazione.
Sbocchi occupazionali. Sono dati preoccupanti che vengono confermati
anche dall'ultima indagine di Almalaurea, il consorzio interuniversitario
che raccoglie 43 atenei italiani, secondo cui nell'ultimo anno la percentuale
dei giovani che hanno trovato lavoro a un anno dalla laurea si è
contratta, rispetto all'anno scorso, di quasi un punto percentuale scendendo
al 54,2% (era il 54,9%) e di 2,7 punti percentuali rispetto a due anni
fa (vedi tabella).
Ingegneria in testa. A lamentarsi di meno sono i laureati in ingegneria
con il 76,1% di occupati a un anno dal conseguimento del titolo. In generale,
rispetto agli anni scorsi, la contrazione è stata più contenuta
per i laureati del gruppo scientifico mentre più acuta per i laureati
del gruppo letterario. (vedi tabella)
Senza pari opportunità. Sono le donne a rimetterci di più.
La differenza con gli uomini è cresciuta e ha raggiunto quest'anno
gli otto punti percentuali: a un anno dalla laurea lavorano il 51 per cento
delle donne contro il 59% degli uomini. Nel 1999 il gap era pari a solo
un terzo di quello di oggi (il 2,7%).
Pochi euro in tasca. Ma quanto si ritrova in busta paga un giovane
laureato di alto profilo? Poco, molto poco. Lo stipendio netto mensile
a un anno dalla laurea raggiunge i 986 euro. Rispetto all'anno scorso si
è registrato un aumento di 17 euro pari all'1,8%, ovvero leggermente
inferiore al tasso di crescita del costo della vita. Più elevata
la retribuzione degli uomini (pari a 1.108 euro) di quella delle donne
(883 euro). Il settore che paga di più è quello delle aziende
chimiche.
In azienda con lo stage. Per quanto riguarda i canali di accesso
al mercato sono sempre importanti i contatti personali, anche se è
cresciuto in maniera significativa, negli ultimi anni, il peso dell'esperienza
di un periodo di tirocinio nelle aziende.
Il caso Mezzogiorno. Ed eccoci alle tormentate regioni del Sud. Trovano
impiego a un anno dalla laurea solo il 41 dei laureati del Sud Italia,
più di venti punti percentuali in meno dei loro pari gradi del Nord
(65 per cento). Le disparità sono evidenti anche in termini di busta
paga: il laureato del Nord guadagna 1.330 euro mentre al Sud ci si deve
accontentare di 1.132 euro. Senza dire che i laureati del Sud sono obbligati
a lasciare, il prima possibile, le terre d'origine. Secondo i dati Svimez,
in cinque anni sono partiti 200 mila giovani tra i 20 e i 30 anni. E a
svuotare di risorse il Sud sono soprattutto i "cervelli" ovvero coloro
che si sono laureati con il massimo dei voti. Il 37% di chi si è
mosso ha conseguito il diploma di laurea con la votazione massima di 110
e lode e il 43,9 per cento ha un voto tra 100 e 109. E molti di loro finiscono
per fare lavori dove la laurea non viene considerata come requisito essenziale.
L'allarme del professor Cammelli,
presidente di Almalaurea:
"Rischiamouna generazione di intelligenze deluse".
E apriamo ai laureati di altri Paesi
"Diamo aiuti alle
impreseper scommettere sui giovani"
26/settembre2005 FEDERICO PACE
"Il
rischio che stiamo correndo è di creare generazioni di laureati
delusi senza un futuro davanti a sé". E' allarmata l'analisi sull'ingresso
dei laureati nel mondo del lavoro del professor Andrea Cammelli, Presidente
del consorzio interuniversitario Almalaurea. Professor
Cammelli, lei studia i giovani laureati da molti anni, ritiene che ci sia
un modo per agevolare la loro entrata sul mercato del lavoro? "La
gran parte delle imprese oggi assume diplomati piuttosto che laureati.
La proposta che mi sento di lanciare è che ci si dovrebbe dar da
fare per introdurre una defiscalizzazione sugli oneri per quelle aziende
che assumono laureati. Se le imprese vogliono introdurre competitività
devono utilizzare risorse umane di alto profilo. E non solo italiani". Anche
laureati da altri Paesi? "E perché no? Che vengano anche
da altri Paesi, che si aprano le frontiere. Negli anni precedenti le nostre
aziende hanno basato la loro competitività più sui prezzi
che sulla qualità delle risorse umane. Si deve cambiare. Quel che
più importa ora è che esse devono cambiare atteggiamento
e, se non lo fanno da sole, bisogna dare loro qualche stimolo. Per questo
penso alle agevolazioni fiscali". Quest'anno
le imprese assumeranno meno laureati dell'anno scorso. In qualche modo
alcuni laureati si vedono costretti a scegliere tra l'opzione master o
quella di accettare un lavoro da "diplomati". Lei cosa suggerisce di fare? "Credo
che messa così la condizione dei laureati diventi una specie di
guerra. Ci sono altri numeri che destano preoccupazione. I laureati che
hanno partecipato ai progetti internazionali Erasmus e Socrates trovano
lavoro con una probabilità più o meno identica a quella dei
laureati che sono rimasti in Italia (solo un punto percentuale in più).
Mi chiedo se è mai possibile che questi laureati, ovvero giovani
cha hanno tagliato il cordone ombelicale con la famiglia, che conoscono
le lingue, che mostrano di essere disposti a trasferirsi, non riescano
a farsi preferire dalle aziende. Allora mi viene da pensare che sono le
aziende che preferiscono accontentarsi".
La laurea breve che doveva favorire
l'incontro dei giovani con il mondo delle aziende, secondo alcuni, non
è riuscita a raggiungere i suoi obiettivi. E' così? "Noi
negli ultimi anni abbiamo ceduto più di 400 mila curriculum alle
aziende e debbo dire che le imprese non sembrano distinguere tra laurea
breve e laurea a 5 anni. Ho paura però che ci sia una specie di
luogo comune avviato dalle università insoddisfatte dalla riforma
e spinto verso la società. Non nego che ci siano problemi, ma questa
idea diffusa e non verificata, che i laureati brevi siano meno 'pronti'
al lavoro dei laureati a 5 anni, è tutta da verificare". Come
è cambiato in questi ultimi anni il rapporto dei giovani con il
futuro? "Un tempo, succedeva che uno studiava con slancio e
la convinzione che se ci si dava da fare velocemente, si finiva in una
delle nostre grandi aziende, penso all'Olivetti ad esempio. Oggi tutto
questo non c'è più. Le nuove aziende però stanno faticosamente
rimettendo i conti a posto. Ma devono spicciarsi perché ai ragazzi
dobbiamo dare una speranza". (26
settembre 2005)
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