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Martedì 12 maggio 2009, 17:29"il potere pastorale è tutt’altro che tramontato, infatti aspetti centrali della sua meccanica hanno trovato una larga diffusione nell’epoca moderna” Michel Foucault
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La diffusione dello studio, promosso dal Sole 24 ore,
sulla marcata tendenza degli operai a votare a destra ha suscitato a sinistra
reazioni di panico più o meno espresso esplicitamente. Questo panico
può anche essere razionalmente produttivo se si comprende il tessuto
antropologico che genera queste tendenze. E qui, prima di tutto, dobbiamo
comprendere una cosa: non è tanto scomparsa la classe operaia quanto
si è estinta la cultura operaia per come l’avevamo conosciuta. Chi
osserva le ristrutturazioni della classe operaia si trova quindi di fronte
allo stesso rompicapo che ormai conosce bene anche chi cerca una nuova
cultura di classe nei lavoratori della conoscenza: dove c’è sfruttamento
del lavoro da parte del capitale non c’è cultura collettiva da parte
dei subordinati. Siano questi operai della piccola e media industria, interinali
della grande distribuzione o lavoratori cognitivi. In questo caso resuscitare
la vecchia dicotomia tra classe in sé, che esiste di fatto, e classe
per sé, che di fatto non si manifesta, serve solo ad aumentare la
bibliografia in materia di fenomenologie piegate inutilmente ad uso politico.
Oppure a far tornare di moda un tardo idealismo della coscienza di classe,
timoroso di una prognosi epocale sulla crisi della consapevolezza del lavoro.
E’ infatti curioso, in assenza di una cultura collettiva
dell’antagonismo del lavoro, che siano rare le riflessioni sul rapporto
tra scomparsa della stessa base materiale delle culture antagoniste tradizionali
(fine della trasmissione delle culture che usavano il territorio urbano
come media, della trasmissione generazionale di tipo orale e cartacea,
della centralità del sapere legata alla figura dell’intellettuale
critico) ed imporsi della ristrutturazione del sapere popolare entro una
base digitale e mediale (dove le manifestazioni della cultura popolare
sono sussunte dal linguaggio ancora egemonico utilizzato dalla televisione
generalista che incontra, semplifica e spoliticizza qualsiasi espressione
culturale dal basso anche digitale ). Su questo tema si preferisce affidare
la risoluzione del dilemma dell’assenza di una manifestazione delle culture
dal basso nell’universo del lavoro interrogando stregoni di qualche secolo
fa come se la filosofia da sola potesse trasformare il mondo con le armi
concettuali precedenti alla rivoluzione industriale. Eppure Marx era stato
chiaro: “i filosofi hanno solo interpretato il mondo in modi diversi: ora
si tratta di mutarlo” (decima tesi su Feuerbach). Il punto, profondamente
marxiano, è quindi che quel sapere che muta il mondo stravolge anche
i caratteri e le discipline della conoscenza necessaria per mutarlo. Però,
una volta abbandonato un atteggiamento da stregoni del sapere, il dilemma
dell’assenza di culture dal basso è quindi concettualmente presto
risolto. Se si segue una lettura antropologica si capisce infatti come
negli ultimi decenni, alla fine della base materiale delle culture antagoniste,
abbia seguito la ricombinazione delle culture popolari dal basso entro
piattaforme mediali nelle quali la rappresentazione delle classi subalterne
è neutralizzata e subordinata. Alla fine delle culture antagoniste
tradizionali ha seguito quindi una cultura mediale verticale, che per natura
cerca di imporsi come centrale nella società, che alimenta comportamenti
diffusi di subordinazione entro tutta la morfologia sociale proprio perché
li interpreta. Finché le culture digitali dal basso non riescono
a rompere questa centralità del media mainstream che propone con
successo comportamenti sociali subordinati, questa condizione di marginalità
delle culture antagoniste è destinata a riprodursi.
Se tutto questo favorisce una risposta elettorale,
e di comportamenti, di destra da parte del ceto sociale erede della classe
operaia tradizionale non c’è quindi da stupirsi se il potere pastorale
berlusconiano coltiva il razzismo in assenza di protagonismo delle culture
antagoniste. Quello di Berlusconi infatti è un autentico potere
pastorale, riletto alla luce del potere di attrazione sociale e politico
della televisione generalista sui saperi e i comportamenti del tessuto
sociale. Vede Berlusconi come guida e pastore della società italiana,
il media generalista come governo di questa egemonia di guida e come strumento
di selezione dei comportamenti e dell’immaginario, le culture antagoniste
come lontano elemento subalterno. Il razzismo alimentato da Berlusconi
si rivela quindi come una strategia di complemento del potere pastorale:
radicalizza, nel doppio senso di estremizzare e di dare radici, la tendenza
dei ceti subalterni ad essere governati sul piano politico e su quello
dei contenuti.
Non a caso quindi in Hop on Pop (2002) di Henry Jenkins,
McPherson e Shattuc nel momento in cui si cerca di comprendere il rapporto
tra politica e digitalizzazione, ormai compiuta, delle culture popolari
si fa attenzione al processo di embedding delle culture mediali generaliste
nei comportamenti. Queste promuovono, secondo gli autori, un processo di
intimizzazione dei contenuti nella vita quotidiana che finisce, aggiungiamo
noi, per emarginare le culture antagoniste. Che sono lontane dal saper
trasmettere intimità alla sostanza del corpo sociale che è,
invece, governata dal potere pastorale che in questo paese coincide con
il proprietario del maggior network televisivo fattosi ancora più
pastore nel momento in cui ha assunto anche il potere politico. Quindi,
nel momento in cui in Hop on Pop si denuncia l’errore, da parte dei cultural
studies, di non aver capito la politicità di questi studi noi possiamo
dire: in ciò che è impolitico e spoliticizzante nei comportamenti
dei ceti subalterni riusciamo a capire cosa manca alle culture antagoniste
per rompere l’egemonia del potere pastorale mediale. E, in questa prospettiva
di lettura, riusciamo anche a comprendere come questo potere pastorale
sia politico nel momento in qui è in grado di togliere sia visibilità
che significato autonomo alle figure del lavoro. E in questo senso, dal
consenso operaio a destra alle dichiarazioni pubbliche di Berlusconi su
“l’Italia non è un paese multietnico” il passo è breve quando
l’egemonia politica e culturale sono assicurate. E l’affermazione di risposta
a Berlusconi, fatta da un ampio spettro di soggetti dalla chiesa alle associazioni
più radicali, “l’Italia è già un paese multietnico”
in questo contesto rischia di essere la classica frase vera che non ha
alcun effetto sul reale. Infatti se l’Italia, da diversi lustri, è
un paese multietnico non lo è infatti, e da sempre, su ciò
che costituisce centro e gerarchia della società ovvero la rappresentazione
di questo paese nei media generalisti. E qui giova ricordare che in Hop
on Pop si ricostruisce quel terreno antropologico che favorisce l’immaginario
multietnico della società americana in serie televisive storiche
come Star Trek (che radicalizza la mescolanza etnica nell’idea di cooperazione
tra specie diverse). Quest’esempio di Star Trek come tessuto antropologico
dell’accettazione del multietnico nel politico americano era stato citato
di nuovo dallo stesso Jenkins poco prima dell’elezione di Obama. Detto
questo bisogna considerare quindi come Berlusconi faccia, nel suo “l’Italia
non è uno paese multietnico”, non tanto rimozione dello stato del
paese reale ma soprattutto separazione tra l’immaginario televisivo dominante
sull’Italia e quello sugli Usa da parte dello stesso pubblico televisivo
italiano. Perché se il media dominante è il centro d’attrazione
di immaginario e comportamenti che gerarchizza e connette l’intera società,
separare l’immaginario televisivo italiano da quello americano significa
valorizzare l’immagine autarchica mediaticamente trasmessa della nostra
società a fini di potere politico pastorale. In questo modo si cerca
di chiudere le culture subalterne nel cerchio magico che vuole comportamenti
elettorali di destra trovare un piano antropologico profondo come garantito
da fenomeni razzisti. Una permanente riserva di voti e di comportamenti
pronti ad erogare consensi ad un potere pastorale che si mostra come stabile.
Questo non vuol dire che Berlusconi smetterà di far trasmettere
le repliche di Star Trek ma che valorizzerà le immagini non multietniche
della società italiana trasmesse dalla televisione generalista.
Motivo in più per comprendere che questo al potere è un regime
dello spettacolo che si fa regime politico nel corollario di un’egemonia
sull’informazione e sui comportamenti diffusi. E qui una cosa è
sicura: o c’è un traumatico salto epistemologico nel fare politica
dal basso o nessuno uscirà politicamente vivo di qui. E in un contesto
in cui, vista la portata della crisi, la sopravvivenza è messa in
discussione per molti anche sul piano materiale. E qui bisogna ricordare,
su questi temi, l'indirizzo strategico di Gustave Le Bon nella Psicologia
delle masse: "Le istituzioni e le leggi sono la manifestazione della nostra
anima, l'espressione dei suoi bisogni. Mutando quest'anima, istituzioni
e leggi non saprebbero cambiarla". Ed è inutile su questo piano
pensare un potere pastorale semplicemente come un biopotere. Dalle origini
e tanto più nella società della conoscenza questo è
un potere sull'anima. E questo potere pastorale parla alla dimensione inquieta
dell'anima, quella che non è contenibile dalle leggi, per indirizzarla
verso un governo dove tra pastore e governati non c'è mediazione
della norma ma immediatezza delle sensazioni. C'è solo l'empatia
tra capo e subordinati, in diretta tv che penetra su tutte le piattaforme
mediali, nelle battute scambiate per sms, nelle conversazioni private,
nei forum, nelle chat, circolando come un virus sui treni, nei bar e nelle
soste agli Autogrill.
E in questa dimensione non c'è costituzione
che tenga, per quanto formalmente rigida. La rivoluzione conservatrice
è matura, sulle spalle di una tv commerciale. Chi non sa raccogliere
questa sfida è ai margini della società e fuori dal mondo
della politica. E qui, sicuramente molti si aggrapperanno al reale, alle
norme, alla costituzione, al dato di fatto che l'Italia è già
una società multietnica per sperare di neutralizzare il messaggio
di Berlusconi, costruendosi quella convinzione che vuole il dato di fatto
occultato oggi pronto a sbocciare come riconosciuto da tutti domani. Non
si può che rispondere loro che con un altro passo della Psicologia
delle masse: "in effetti, la prospettiva può trasformare il cubo
in piramide o in un quadrato, il cerchio in ellisse o in una linea diritta,
e queste forme fittizie sono molto più importanti da considerare
delle forme reali". Potenza della prospettiva, che invece nel Rinascimento
emerge come rappresentazione di un nuovo realismo, è quella di governare
la psicologia e i comportamenti delle masse indirizzandole al di fuori
delle forme reali. E' il fenomeno che Le Bon chiama contraddizione tra
ragion pura, quella delle forme apriori, e ragion pratica, quella dell'agire
politico. E Berlusconi la prospettiva la governa anche fenomenologicamente:
mentre nel Rinascimento il governo della prospettiva è nella rappresentazione
pittorica della finestra entro il quadro, in una impressione realistica
di profondità, nella tv commerciale la finestra tecnologica dello
schermo dissolve la rappresentazione delle forme reali per arrivare direttamente
al governo dell'animo. Strano destino quello della Psicologia delle masse,
letto e saccheggiato da Mussolini, usato involontariamente con profitto
da Berlusconi: hop on pop, saltando sul popolare, applicando Le Bon.
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