Seppure la crescita del settore, sono oggi 400 mila le persone che vi lavorano, ha permesso a un elevato numero di persone di trovare un posto, le condizioni di lavoro di chi con i call center deve misurarsi tutti i giorni sono tutt’altro che buone.
Organizzazione del lavoro, salute, soddisfazione e prospettive. Tutto ai minimi. Tutto legato insieme in una specie di spirale che si torce su se stessa. Tra quelli che in un call center ci lavorano, sette su dieci (il 66,7%) pensano ormai che il proprio lavoro non possa avere un’evoluzione positiva all’interno dell’azienda ed altrettanto pessimistiche sono le attese rispetto alle opportunità esterne: nove su dieci ritengono che sia difficile cambiare lavoro e trovarne uno migliore. Per una paga che in termini orari oscilla tra i 5 e i 7 euro così che pare naturale che il 40 per cento consideri molto deludente la propria retribuzione.
Una telefonata dietro l’altra, un problema da risolvere dietro l’altro. Per chi si trova a dovere gestire le telefonate in entrata, lo stress è rappresentato soprattutto dai ritmi, dall’ossessione di dovere chiudere le chiamate entro qualche minuto. E pare quasi assurdo che non possa essere accolta la richiesta di chi, tra i testimoni, dice che “la cosa ideale sarebbe avere un intervallo, un minuto, tra una telefonata e l’altra”.
Ma anche quando si tratta di attività di telemarketing le cose non cambiano. “Le liste dei clienti - ci ha detto Paola Pierantoni, responsabile sportello sicurezza Cgil Genova e coordinatrice dell’indagine (leggi intervista integrale)- vengono date dall’azienda, le telefonate vengono sparate in cuffia con un sistema automatico che cerca i numeri. Alle persone arrivano in cuffia anche i fax con i conseguenti problemi di salute per le scariche di rumore pesante”. Senza contare che spesso i call center vengono realizzati senza tenere conto delle caratteristiche del lavoro che vi verrà svolto. E la rumorosità, insieme alle condizioni climatiche è tra le cause di maggior disagio dei lavoratori.
Se è vero che nei sei call center messi sotto osservazione, il 65,8% è rappresentato da dipendenti contro il 30,4 per cento dei lavoratori a progetto, va detto pure che nel Regno Unito, come fanno notare gli autori della ricerca, il 92 per cento degli addetti dei call center hanno un contratto permanente. La “stabilizzazione” dei lavoratori, quella promessa dall’accordo nazionale tra Assocallcenter e sindacati siglato nel 2004, non pare proprio esserci stata. In uno dei call center presi in esame (Call & Call) si sarebbero dovuti stabilizzare il 60% dei lavoratori entro il 2008. Ad oggi in questo call center è dipendente solo il 5,2 % degli operatori in cuffia.
Ci sono dei casi positivi. Casi in cui dove si fa formazione, si offre agli operatori un minimo di rotazione con attività lontane dalle “cuffiette”. Ma è poco. Ancora troppo poco.
Solo quattro su dieci si dicono tranquilli per il proprio impiego mentre quasi il 35% sente di essere precario. E non per propria scelta. Già, le scelte. Solo uno su dieci dichiara di avere deciso la condizione “provvisoria” in cui si trova. Quasi la metà dei lavoratori ha più di quarant’anni e solo uno su cinque di loro non è ancora trentenne (vedi tabella). Il settore mantiene la sua natura “femminile” (il 77,2 per cento degli addetti è formato da donne) e sono proprio le donne quelle che, in proporzione, hanno meno accesso alla stabilizzazione contrattuale. E questo non per scelta, visto che solo il 12,5 per cento di loro si ritrova “precaria” per volontà.
Il lavoro nei call center sembra venire meno a anche quella missione importante che è la realizzazione delle proprie capacità professionali (vedi tabella). Tale distacco dal lavoro avviene in maniera più accentuata dove la comunicazione telefonica è soggetta a rigidi limiti di tempo. E sono soprattutto quelli che ci lavorano già da tempo a provare i più elevati livelli di insoddisfazione personale.
In Italia, rispetto all’Europa, le cose forse vanno anche un poco peggio. “I call center in outsourcing - ci ha detto Giovanna Altieri, direttore Ires-Cgil (vedi intervista integrale) - sono relativamente più localizzati nel Sud Italia. Grazie ai contributi europei molti imprenditori hanno delocalizzato l’azienda in queste aree dove è molto diffusa l’esternalizzazione. Sono frequenti i casi di poca chiarezza tra intrecci proprietari, ambiguità tra esternalizzazione e internalizzazione di servizi e appalti pubblici.”
Se si leggono le cronache di questi giorni ci si accorge che in tutta Italia c’è una specie di febbre che sta salendo. Ci sono i lavoratori a progetto del call center Cosmed, che lavora per conto di Sky, che protestano a Palermo. A Bologna, il sindacato degli atipici della Uil denuncia che nel call center di Hera gestito dalla Telework, lavorano "oltre 250 falsi collaboratori a progetto" che operano in condizioni di precarietà "non più sostenibili". E intanto a Roma centinaia di operatori a cui non è stato rinnovato il contratto dal mega call center di Atesia chiedono di venire reintegrati.
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Telecom | 7,1 |
Poste | 6,9 |
Call&Call | 5,8 |
CUP | 5,8 |
H3G | 5,4 |
ESSETI | 5,3 |
Call center, troppi passi indietro
Intervista a Giovanna Altieri, direttore Ires-Cgil
autrice dell’indagine "Lavorare nei call center: un'analisi europea"
Quali sono le condizioni italiane rispetto agli altri paesi europei?
Condividiamo di certo l’articolazione molto differenziata. Ci sono le agenzie di telemarketing, i call center aziendali in-house. I piccoli e i grandi call center, e all’interno dei piccoli call center ci sono quelli che svolgono attività molto specializzate con condizioni di lavoro e i livelli di soddisfazione, e i piccoli call center che invece sono l’ultima catena del “conto-terzismo” dove l’attività e la commessa che il call center riesce a spuntare è tutto giocato sul fattore del costo del lavoro. In Italia però abbiamo qualche criticità in più.
Ci faccia qualche esempio?
I call center in outsourcing sono relativamente più localizzati nel Sud Italia. Grazie ai contributi europei molti imprenditori hanno delocalizzato l’azienda in queste aree dove tra l’altro è molto diffusa l’esternalizzazione. Sono frequenti i casi di poca chiarezza tra intrecci proprietari, ambiguità tra esternalizzazione e internalizzazione di servizi e appalti pubblici. Come il caso del call center costituitosi in Sardegna grazie ai fondi regionali che poi ha chiuso lasciando a casa centinaia di ragazzi o l’episodio in Sicilia di un call center che ha chiuso per riaprire nella stessa città licenziando lavoratori a tempo determinato e assumendone con un’altra azienda con contratti a progetto.
Quali sono le ultime evoluzioni del settore?
L’età media di chi ci lavora sta crescendo. Sia perché si afferma il settore, sia perché i lavoratori rimangono. Sta crescendo in alcune realtà critiche del Sud e anche a Roma abbiamo adesso una presenza di lavoratrici intorno ai quarant’anni. C’è una quota significativa di donne adulte che hanno subito una prima esclusione dal mondo del lavoro e che poi sono rientrate. Non ci sono stati miglioramenti, c’è stata una forsennata rincorsa a una efficienza giocata sulla fabbrica dei minuti. Si è cercato di standardizzare il più possibile con una tecnologia facilitatrice del lavoro umano. Questo paradossalmente toglie ancora più peso alle capacità e rende i lavoratori più sostituibili.
Eppure è un settore strategico per le imprese…
Abbiamo in comune con il resto d’Europa anche la dinamica esponenziale del settore che attiene allo sviluppo delle nuove tecnologie, alla cultura del customer care, alla vendite differite. Ovunque questo settore è diventato l’interfaccia delle imprese con i clienti. Non è più soltanto l’acquisizione di nuovi clienti è tutta la cura del cliente.
Non c’è una contraddizione tra l’importanza del settore e le condizioni di lavoro?
Non si fa nessun investimento sulle persone nonostante sia una funzione strategica. Per cui noi abbiamo che il call center è impostato tutto sulla tecnologia, si dovrebbe superare questa visione e valorizzare anche le capacità della forza lavoro in una chiave più strategica. In questo momento il lavoro nei call center è fortemente strutturato e non consente di acquisire nessuno skill aggiuntivo.
E' per questo che c’è un turnover altissimo?
Questo è tipico di tutti i paese europei. L’unica strategia individuale che i lavoratori possono avere è quella di “uscire”. Registriamo dei tassi di mobilità molto elevata. Questa è una strategia aziendale di gestione del personale. Accanto alla flessibilità implicita nell’alto turnover c’è una flessibilità contrattuale diffusissima, una flessibilità temporale totale. Visto che ai lavoratori viene richiesta una disponibilità al part-time e ai turni.
Eppure, quasi paradossalmente, sono molti quelli che domandano di entrare a lavorare nei call center. Come si spiega?
In qualche modo il settore esercita un’attrattiva forse legata anche alla rappresentazione sociale del lavoro che hanno i giovani che accettano il lavoro nei call center mentre ne snobbano altri che magari stanno in gradini più bassi della gerarchia sociale ma che garantirebbero loro una retribuzione superiore. Questo lavoro nei call center è pure sempre un lavoro da colletto bianco che mette in rapporto con le nuove tecnologie. E’ un po’ un’attrazione fatale.
Quali sono le prospettive?
Non voglio essere negativa, ma la logica che sta prevalendo non fa sperare bene. Rispetto ai processi di professionalizzazione quello che viene messo in luce da qualcuno è che quanto più si diffonde l’interattività, tanto più si possono offrire dei servizi con dei contenuti professionali migliori. Forse, la cosa positiva, ed è già qualcosa, è che ora c’è maggiore consapevolezza sul problema della precarietà come condizione critica che produce effetti sociali molto gravi.
Lavorare nei call center: "Peggio della catena di montaggio"
Intervista a Paola Pierantoni, responsabile sportello sicurezza Cgil Genova
coordinatrice della ricerca "Call centers. Idee per un cambiamento".
Perché i call center al centro dell'attenzione?
E’ un settore trasversale a tutti i settori di lavoro in cui però c’è una grandissima difformità di condizioni. Si va da realtà dominate dal tempo pieno a tempo indeterminato a quelle in cui c’è solo il contratto a progetto. Con modalità organizzative diversissime. Profili professionali misteriosi. E’ un settore in cui non esiste una contrattazione organica dei livelli professionali, delle modalità organizzative, dei diritti di base. Il fatto che si spacci come lavoro autonomo a progetto un’attività che è regolata nei minimi dettagli è perlomeno buffo.
Non c’è un po’ di autonomia per chi fa attività di telemarketing?
Le liste dei clienti vengono date dall’azienda, le telefonate vengono sparate in cuffia con un sistema automatico che cerca i numeri. Alle persone arrivano in cuffia anche i fax con i conseguenti problemi di salute per le scariche di rumore pesante.
Insomma, quello dei call center continua a essere un grande buco nero…
A Genova abbiamo osservato grandi realtà, significative da un punto di vista occupazionale con più di cento dipendenti in una situazione in cui la dimensione media di impresa è molto più piccola. Eppure tutto è ancora ai margini dell’attenzione.
Cosa avete scoperto?
Abbiamo trovato un nesso evidente tra chi lamenta più frequentemente una relazione tra il proprio benessere psicologico e il lavoro e chi avverte in maniera molto più rilevante tutta una serie di disturbi (dalla secchezza oculare ai sensi di vertigine). Ci sono dei sintomi di tipo fisico causati o esaltati da uno stato di tensione e malessere di tipo psicologico, per lo stress della chiamata ma anche dallo stress della demotivazione. E' un viluppo. Gli elementi salute e sicurezza sono intrecciati molto profondamente con i fattori organizzativi.
Dove si sta meno peggio?
Noi abbiamo riscontrato una differenza sensibile di minore disagio professionale nel call center delle Poste perché lì vige un sistema di programmazione e rotazione tra le mansioni in maniera non discrezionale. E questo aiuta. In altre realtà invece avviene in termini discrezionali e diviene un elemento di disagio perché non si capisce il criterio per cui qualcuno viene rotato e altri no.
E per i tempi di durata delle telefonate?
Nei centro di inbound, ovvero dove gli operatori rispondono alle chiamate, si sta meglio dove le telefonate non sono soggette a un tempo massimo. Perché devono comunque giungere alla conclusione del problema. Gli operatori sentono quasi che il loro lavoro non è “perduto” nel nulla.
Ci sono altri esempi?
Nel call center delle Poste, anche se gli operatori hanno i tre minuti di tetto massimo a telefonata, il fatto di avere fatto una formazione migliore, di ruotare su mansioni diverse, lavorare in un ambiente progettato ad hoc rende le cose più accettabili. Ma per la gran parte, ci sono molti problemi per la rumorosità eccessivia e altri fattori che peggiorano un lavoro già difficile.
Quali sono i percorsi di carriera?
Quello del tutor è l’unico scalino di progressione di carriera a vista e anche i tutor guadagnano veramente poco più degli operatori, saranno cento euro in più al mese. In realtà il tutor ha un ruolo di guardiano non molto significativo. E’ una scala gerarchica brevissima e questo attraversa anche le realtà strutturate come Telecom o H3G.
Quasi la metà del vostro campione ha più di quarant’anni. Cosa sta succedendo?
Da un lato l’età elevata è legata alle riorganizzazioni aziendali di persone che vengono trasferite da altri posti ai call center. Ma nelle aziende di telemarketing, ci sono molte persone di quarant’anni che sono finite a fare questo lavoro perché gli andata male altrove (il negozietto che è fallito, chi ha dovuto lasciare un lavoro altrove) oppure donne che avevano lavori anche più interessanti ma che le occupavano più tempo.
Quali sono le storie che avete raccolto?
Fa un po' effetto scoprire questo mondo di quaranta-cinquantenni che continuano ad andare avanti con contratti rinnovati di sei mesi in sei mesi che dicono "speriamo di fare sufficienti attivazioni". E chi ha problemi di voce non va a lavorare e pensa addirittura che sia ovvio non essere pagata quando è costretta a rimanere a casa. O una donna ci ha raccontato che le è capitato sotto gli occhi la busta paga che prendeva prima. E ci ha raccontato che ha chiesto al marito di toglierla via che non la voleva più vedere.
Rispetto a quello che succedeva nei posti di lavoro della "vecchia fabbrica" quali sono le differenze?
Questi sono posti di lavoro dove non ci sono possibilità di incontrarsi. Gli addetti non mangiano insieme, hanno un quarto d’ora di intervallo in cui devono andare a gabinetto, mangiare e bere. Gli orari di lavoro che mutano continuamente durante la settimana e attraversano l’orario del pranzo. Non c’è un momento di socializzazione. Il lavoro è totalmente individuale. Persino nella catena di montaggio, per quanto alienante e orribile, ognuno era vicino a un collega che faceva un altro pezzetto, tutti insieme facevano dei pezzetti. Qua invece non c’è nemmeno il proprio posto di lavoro. Non ci si può nemmeno sistemare la foto del gatto. Uno arriva, guarda qual è la posizione libera e nella prima ci si siede. Non si ha nemmeno una relazione con il posto di lavoro. E nemmeno con il “vicino”.
In sostanza l’accordo nazionale firmato nel 2004 tra Asscallcenter e sindacati è fallito?
Non so cosa succede fuori da Genova, ma questo accordo dice che entro dicembre 2007 sarebbe stato "stabilizzato" il 60% degli operatori. Con delle gradualità. Adesso, sono passati due anni e se guardo gli operatori con la cuffia in testa di Call & Call a Genova, dai dati aziendali, mi accorgo che a progetto sono il 95% degli operatori. E poi tutta questa storia dell’autonomia è quella che abbiamo visto. La maggiore flessibilità è spiegabile in una fase di avvio, ma dopo un po’ diventa inspiegabile. C’è gente che sta lì da quattro o cinque anni. Assocalcenter intanto è sparita.
Su cosa si può intervenire per migliorare le condizioni di lavoro?
La mansione è quella che è, si parla con qualcuno che non si vede, con la cuffia in testa e in certi casi non si sa come la chiamata è iniziata o come si chiuderà. Stante questo, si possono ruotare le mansioni in modo programmato su tutti gli addetti. In Poste dove questo succede i benefici ci sono. Le persone possono avere un poco di autonomia nella gestione delle telefonate. Il limite della durata della conversazione condiziona la qualità di risposta ed è un fatto di disagio rilevantissimo. Poi si deve fare qualcosa per le condizioni ambientali, specialmente questi posti di telemarketing affittano degli uffici e ci mettono dentro un po’ di postazioni. Questi luoghi vanno progettati sapendo che questa gente lavora in un dato modo. In Poste lo hanno fatto, ma altrove non hanno progettato nulla. Ma non basta, sottoponiamo queste persone a una sorveglianza sanitaria per i problemi che realmente hanno, daimogli na formazione continua anche di tipo ergonomico. E poi, paghiamoli di più.
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