Una palata di terra nera sulle bugie patinate dell'Eni
Nel Puyo piove spesso. Alcune volte l’acqua che cade tra le foglie della foresta amazzonica ecuadoriana è scura.
E puzza di petrolio. Le piante si seccano. Il bestiame dimagrisce fino a morire. I bambini si riempiono di macchie sulla pelle,
tossiscono, e si ammalano di polmoniti strane, senza il solito raffreddore.
di Enzo Vitalesta
La pioggia nera è caduta dal cielo per la prima volta il 13 settembre. Poi, fino ad oggi, altre tre volte.
«È colpa dell’Eni». Così dice Acción Ecológica, la pluridecorata Ong ecologista ecuadoriana. Così dicono tremila abitanti che vivono nella parrocchia di El Triunfo. Così dicono i combattivi indigeni shuar. Così dicono anche altre comunità kichwas. In tutto circa 5 mila campesinos che vivono di agricoltura e pastorizia tra la provincia di Pastaza e quella di Arajuno, a un’ora e mezzo di bus dalla cittadina di El Puyo, e otto ore dalla capitale Quito. È l’oriente della foresta ecuadoriana e delle multinazionali del petrolio, di comunità indigene e contadine, di trivelle e oleodotti.
Scorre il petrolio, sanguina la terra, come dice un famoso mural di Quito. I popoli indigeni si oppongono. Nella provincia di Pastaza per anni i Sarayacu hanno tenuto fuori dai propri territori le trivelle della Shell. Un vento di resistenza che agita anche le radio comunitarie del Puyo, che hanno mandato i loro inviati a seguire i contadini nel risveglio lento del mattino presto. «Peccato. Oggi niente pioggia nera», ride tra i denti Juan Pablo di Radio Nina. Oggi non è un giorno come gli altri. «Es el dia de la toma de muestra», urla Juan Pablo, il giorno della «presa».
Ospite della radio più ecologista del Puyo è l’associazione italiana A Sud, invitata dalle comunità locali e da Acción Ecológica. Il suo compito è prelevare, «tomar», da uno dei campi investiti dalla pioggia nera un campione di terra e farla analizzare in Italia. «Italiani contro italiani», se la ride Juan Pablo. Sul banco degli imputati c’è infatti il super patinato colosso italiano del petrolio, l’Eni.
«La multinazionale è per un terzo controllata dal governo italiano – dice Laura Greco di A Sud – ci sembra giusto raccogliere direttamente le testimonianze e le denunce fatte dalle comunità locali. L’analisi del terreno ci permetterà di avere un riscontro anche in termini scientifici. Faremo sapere in Italia quello che l’Eni fa in Ecuador». Dal 1999 la multinazionale per mezzo della sua controllata Agip Oil B.V. Ecuador ha piantato due pozzi nel blocco 10, nella provincia amazzonica di Pastaza. «Le operazioni dell’Eni hanno portato alla deforestazione di mille ettari di bosco», spiega ai microfoni di Radio Nina Josè Proaño di Acción Ecológica, «Hanno provocato danni ambientali irreversibili e costretto il popolo indigeno degli huaorani ad accordi vergognosi: perline e sacchi di riso in cambio di petrolio». La produzione giornaliera attuale nel blocco 10 è di circa 15 mila barili di greggio che viaggiano nei tubi del vecchio oleodotto ecuadoriano, il Sote. Nei prossimi anni i barili potrebbero diventare 40 mila al giorno, e arriveranno ai terminali sull’Oceano Pacifico grazie al nuovo Oleoducto de crudos pesados [Ocp], di cui l’Eni è proprietaria per il 7,5 per cento.
La multinazionale è sorda
«Abbiamo lottato contro la costruzione dell’Ocp con ogni mezzo - ricorda Josè Proaño - L’oleodotto ha un impatto ambientale e culturale disastroso. Taglia a metà undici ecosistemi incontaminati, tra cui il bosco di Mindo, considerato dall’Unesco patrimonio dell’umanità. Vìola i territori di molte comunità indigene e contadine, pregiudicando i loro millenari sistemi di vita. Anche di questo l’Eni è responsabile».
Secondo «quasi tutti», le piogge al gusto di petrolio sono state provocate dal Centro de facilidade petroleras [Cpf], una stazione off limits costruita dall’Eni-Agip fuori dal blocco 10, a 5 chilometri da ElTriunfo, incaricata di «spingere» fino al terminale di Baeza il petrolio estratto dai pozzi nella foresta. All’interno del Cpf due «micceros» bruciano i gas residuali che si liberano fatalmente, durante il pompaggio, dal petrolio pesante. In alcuni pozzi vengono stoccate le acque di risulta, dense di metalli pesanti e sette volte più salate dell’acqua di mare. Acción Ecológica ha più volte denunciato la contaminazione di numerosi ruscelli attorno al Cpf e il fatto che nelle campagne circostanti siano stati abbandonati residui altamente tossici.
«Le denunce fatte dalle comunità locali rispondono solo a interessi personali - risponde da Radio Océanica Carlos Ledezma, sindaco di Pastaza - servono solo per avere dall’Eni un cospicuo risarcimento. Del resto le analisi del terreno sono state fatte, e i risultati sono stati negativi».
Da Radio Nina si alza un coro di colorito disappunto. «Le analisi sono state fatte dalla Dinapa, un laboratorio statale di cui non si fida nessuno - ribatte Juan Pablo - Hanno detto che la pioggia era scura per l’eruzione del vulcano Tungurahua. Allora perché puzzava di petrolio? Vogliamo che le analisi siano svolte da un laboratorio indipendente».
L’ora della «toma de muestra» si avvicina.
Oltre alle radio sono in fibrillazione le comunità indigene e contadine che hanno visto scendere sulla loro case la pioggia nera. Manuel Caiza, un campesino della zona, non si dà pace da quando ha visto le sue coltivazioni biologiche e le due vasche di pesci rossi ricoperti da una patina di petrolio. La sua proprietà,«finca» in castigliano, è sulla strada che dal paesino di El Triunfo attraversa l’Amazzonia fino ad Arajuno. Una piccola palafitta di legno circondata da coltivazioni organiche di lombrichi amazzonici, orchidee amazzoniche, insalate amazzoniche. Il tutto protetto da fili di stagno per difendere le sue creature dalle onde elettromagnetiche. «Ho fondato il 'Comité pro-defensa del medio ambiente' della parrocchia di El Triunfo perché una cosa così non deve capitare mai più», dice mentre agita in alto un contenitore di plastica colmo di acqua al petrolio che lui stesso ha raccolto nei giorni della pioggia nera. «Abbiamo fatto ricorso alla Defensoria del pueblo – spiega – ma molti contadini che hanno subito danni gravissimi per la contaminazione hanno paura di testimoniare. Non capiscono che è importante. Una sentenza favorevole potrebbe anche invalidare il contratto che l’Eni ha stipulato con lo stato ecuadoriano».
In fondo all’orto ci sono due vaschette di pesci rossi amazzonici. Buoni per l’acquario e, al gusto, meglio delle trote. «I mangimi sono tutti transgenici. Allora li allevo con gli scarti dell’orto – si lamenta Manuel un po’ avvilito – ma a che serve, se poi basta una semplice pioggia a rovinare tutto?».
Proseguendo verso Arajuno s’incrocia anche la nuova strada che la provincia di Pastaza ha deciso di costruire dopo un accordo firmato tra l’Eni-Agip e le comunità del blocco 10. Sono 46 chilometri in mezzo alla foresta, fino ai pozzi di petrolio. Centinaia di ettari di bosco primario in fumo. «Un disastro ecologico», secondo Acción ecológica. «Un bene per le comunità indigene che vivono intorno al blocco», dice la multinazionale in uno dei suoi comunicati. «Un bene per l’Eni-Agip che non dovrà più utilizzare l’elicottero per arrivare ai pozzi», risponde Gilberto Tsereno, vice presidente dell’Asociación centro indigeno de Arajuno, che riunisce tremila persone, tra indigeni e campesinos.
«Rivogliamo la nostra foresta»
Gilberto Tsereno è shuar, uno dei popoli della foresta. Quando ora si guarda attorno vede da una parte la strada aperta nell’Amazzonia, dall’altra la stazione di pompaggio del Cpf: «La 'lluvia negra' è caduta anche qui, ma sono almeno due anni che la terra non produce più come prima. I raccolti si sono dimezzati. Le piante di naranjilla si seccano. Le mucche dimagriscono a vista d’occhio».
Ci porta alla finca di Ramiro, suo vicino di casa. La moglie è ammalata. Tossisce da mesi ma senza raffreddore. Ramiro ci mostra un bidone di acqua piovana che loro solitamente bevono. L’acqua è scura. Sul fondo s’intravede il deposito di una patina nera. «Abbiamo denunciato i fatti direttamente all’Eni-Agip - spiega Gilberto Tsereno - Non chiediamo soldi. Vogliamo soltanto che la nostra foresta torni ad essere fertile e incontaminata com’era qualche anno fa».
Il momento è arrivato. Rappresentanti indigeni, shuar e kichwas, il presidente della Junta parroquial di El Triunfo, i contadini e allevatori bagnati dalla pioggia nera, giornalisti e tv locali si ritrovano a qualche chilometro da El Triunfo, sul lato della strada, al chilometro 4 della via Arajuno. Il campione da far analizzare viene prelevato, pala alla mano, in un campo a circa cento metri dalla finca del campesino Milton Paredes.
Due cisterne misteriose
Lì vicino sono state abbandonate due enormi cisterne piene di liquido nero. Sono rimaste lì per mesi, sotto il sole, la pioggia e lo sguardo insospettito di mucche e contadini.
Poi un giorno la figlia di Milton Paredes di ritorno dal fiumiciattolo sotto casa si è presentata ai genitori ricoperta di bolle sulla pelle. Come tutte le famiglie della zona, anche i Paredes vivono dell’acqua piovana e di quella dei ruscelli, che servono per il bestiame e i campi. Le comunità locali hanno subito denunciato i fatti all’Eni-Agip che ha sempre negato di essere la proprietaria delle cisterne. Poi, il 16 novembre, un camion enorme si è caricato i due serbatoi sulla schiena e nel tentativo di trascinarli via si è arenato nel fango. Tutto sotto gli occhi di José Proaño, di Juan Pablo di Radio Nina, di un giornalista di El Comercio, il principale quotidiano ecuadoriano, di un operatore televisivo di Sonovisión, di Ciro Pozo, ex presidente della Junta parroquial, e di Manuel Caiza. Secondo le loro testimonianze l’autista aveva la divisa dell’Eni-Agip. Incalzato dalle domande dei giornalisti ha dovuto confermare di essere un lavoratore della multinazionale italiana.
«Le pubblicità dell’Eni in Italia sono sinonimo di purezza e trasparenza – dice Laura Greco mentre Manuel Caiza scava – Aspettiamo le analisi del terreno. Con le analisi che faremo vogliamo verificare se la nostra multinazionale opera davvero secondo i tanto sventolati standard ambientali all’avanguardia». Dalla buca nel terreno sale l’inconfondibile odore di petrolio. Un campione di terra viene sigillato in un piccolo contenitore di plastica e trasportato in Italia.
I risultati saranno inviati in Ecuador e si aggiungeranno alle denunce fatte dalla comunità di El Triunfo. Sulla base di queste testimonianze la Defensoria del pueblo di Pastaza ha già aperto un’indagine. Secondo l’avvocato Rodrigo Truijllo, della Fundación regional de assessoria en derechos umanos [Fondazione regionale di assistenza per i diritti umani] il contratto tra l’Eni-Agip e lo stato ecuadoriano violerebbe il diritto alla salute delle popolazioni locali. L’avvocato sta preparando un ricorso di incostituzionalità per mancato controllo da parte dello stato sulle attività dell’Eni. Le analisi gli daranno ulteriori prove e in Italia serviranno a smascherare la realtà dietro le patinate pagine pubblicitarie sparse su tutti i giornali come una pioggia nera.