Rodotà, Gallino e altri:
Appello a sostegno della Fiom
Abbiamo deciso di costituire un’associazione, «Lavoro
e libertà»,
perché accomunati da una comune civile indignazione.
La prima ragione della nostra indignazione nasce dall’assenza,
nella lotta politica italiana, di un interesse sui diritti democratici
dei lavoratori e delle lavoratrici. Così come nei meccanismi elettorali
i cittadini sono stati privati del diritto
di scegliere chi eleggere, allo stesso modo ma assai
più gravemente ancora un lavoratore e una lavoratrice non hanno
il diritto di decidere, con il proprio voto su opzioni diverse, di accordi
sindacali che decidono del loro reddito, delle loro condizioni
di lavoro e dei loro diritti nel luogo di lavoro.
Pensiamo ad accordi che non mettano in discussione diritti indisponibili.
Parliamo, nel caso degli accordi sindacali, di un diritto individuale esercitato
in forme collettive. Un diritto della persona
che lavora che non può essere sostituito dalle
dinamiche dentro e tra le organizzazioni sindacali e datoriali, pur necessarie
e indispensabili. Di tutto ciò c’è una
flebile traccia nella discussione politica; noi riteniamo che questa debba
essere una
delle discriminanti che strutturano le scelte di campo
nell’impegno politico e civile. La crescente importanza nella vita
di ogni cittadino delle scelte operate nel campo economico
dovrebbe portare a un rafforzamento dei meccanismi di controllo pubblico
e di bilanciamento del potere economico; senza tali meccanismi, infatti,
è più elevata la probabilità, come stiamo sperimentando,
di patire pesanti conseguenze individuali e collettive.La seconda ragione
della nostra indignazione, quindi,
è lo sforzo continuo di larga parte della politica
italiana di ridimensionare la piena libertà di esercizio del conflitto
sociale.
Le società democratiche considerano il conflitto
sociale, sia quello tra capitale e lavoro sia i movimenti della società
civile
su questioni riguardanti i beni comuni e il pubblico
interesse, come l’essenza stessa del loro carattere democratico.
Solo attraverso un pieno dispiegarsi, nell’ambito
dei diritti costituzionali, di tali conflitti si controbilanciano i potentati
economici, si alimenta la discussione pubblica, si controlla l’esercizio
del potere politico. Non vi può essere, in una società democratica,
un interesse di parte, quello delle imprese, superiore a ogni altro interesse
e a ogni altra ragione: i diritti,
quindi, sia quelli individuali sia quelli collettivi,
non possono essere subordinati all’interesse della singola impresa
o del sistema delle imprese o ai superiori interessi
dello Stato. La presunta superiore razionalità delle scelte puramente
economiche e delle tecniche manageriali è evaporata nella grande
crisi.L’idea, cara al governo, assieme a Confindustria
e Fiat, di una società basata sulla sostituzione
del conflitto sociale con l’attribuzione a un sistema corporativo
di bilanciamenti tra le organizzazioni sindacali e
imprenditoriali, sotto l’egida governativa, del potere di prendere,
solo in forme consensuali, ogni decisione rilevante
sui temi del lavoro, comprese le attuali prestazioni dello stato sociale,
è di per sé un incubo autoritario. Siamo
stupefatti, ancor prima che indignati, dal fatto che su tali scenari, concretizzatisi
in decisioni concrete già prese o in corso
di realizzazione attraverso leggi e accordi sindacali, non si eserciti,
con rilevanti eccezioni quali la manifestazione del 16 ottobre, una assunzione
di responsabilità che coinvolga il numero più alto possibile
di forze sociali, politiche e culturali per combattere,
fermare e rovesciare questa deriva autoritaria. Ci indigna infine
la continua riduzione del lavoro, in tutte le sue
forme, a una condizione che ne nega la possibilità di espressione
e di realizzazione di sé. La precarizzazione,
l’individualizzazione del rapporto di lavoro, l’aziendalizzazione
della regolazione sociale del lavoro in una nazione
in cui la stragrande maggioranza lavora in imprese con meno di dieci dipendenti,
lo smantellamento della legislazione di tutela dell’ambiente di lavoro,
la crescente difficoltà, a seguito
del cosiddetto “collegato lavoro” approvato dalle
camere, a potere adire la giustizia ordinaria da parte del lavoratore
sono i tasselli materiali di questo processo di spoliazione
della dignità di chi lavora. Da ultimo si vuole sostituire
allo Statuto dei diritti dei lavoratori uno statuto
dei lavori; la trasformazione linguistica è di per sé auto
esplicativa
e a essa corrisponde il contenuto. Il passaggio dai
portatori di diritti, i lavoratori che possono esigerli, ai luoghi, i lavori,
delinea un processo di astrazione/alienazione dove viene meno l’affettività
dei diritti stessi. Come è possibile che di fronte
alla distruzione sistematica di un secolo di conquiste
di civiltà sui temi del lavoro non vi sia una risposta all’altezza
della sfida? Bisogna ridare centralità politica
al lavoro. Riportare il lavoro, il mondo del lavoro, al centro dell’agenda
politica: nell’azione di governo, nei programmi dei partiti, nella battaglia
delle idee. Questa è oggi la via maestra
per la rigenerazione della politica stessa e per un
progetto di liberazione della vita pubblica dalle derive, dalla decadenza,
dalla volgarizzazione e dall’autoreferenzialità
che attualmente gravemente la segnano. La dignità della persona
che lavora diventi la stella polare di orientamento per ogni decisione
individuale e collettiva. Per queste ragioni abbiamo deciso
di costituire un’associazione che si propone di suscitare
nella società, nella politica, nella cultura, una riflessione
e un’azione adeguata con l’intento di sostenere tutte
le forze che sappiano muoversi con coerenza su questo terreno.
Fausto Bertinotti, Sergio Cofferati, Gianni Ferrara,
Luciano Gallino, Francesco Garibaldo,
Paolo Nerozzi, Stefano Rodotà, Rossana Rossanda,
Aldo Tortorella, Mario Tronti
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