Terremoto 2009 Abruzzo tra abusi e omissioni: una tragedia prevedibile.

Ancora senza risposta Il grido di dolore degli sfollati di Pasqua: "Aiutateci, fa freddo"
Dossier, l'inchiesta sul terremoto: Perché sono crollati certi palazzi?
INCHIESTA SUL DISASTRO / Pettino è il quartiere più grande dell'Aquila
ma nel terreno c'è la spaccatura attiva di un precedente terremoto
Il quartiere del cemento che balla sulla faglia
 ATTILIO BOLZONI e GIUSEPPE CAPORALE (11 aprile 2009)
L'AQUILA - Il quartiere più grande è quello di Pettino, ci abitano in venticinquemila. Hanno cominciato a fare case negli Anni 70, e fino al terremoto scavavano ancora fondamenta. Fino al terremoto alzavano muri, vendevano palazzi. È solo da questa parte che si è allargata la città. Dove tutti ballano su una faglia attiva, una frattura nella terra profonda dieci chilometri. L'ultima volta che si è "caricata" è stato tre secoli fa. Rase al suolo l'Aquila. 

E' qui, proprio qui, che buttano cemento e cemento e ancora cemento. Qui, intorno alla faglia che si muove, che si sposta, che si apre e si chiude pensano solo e sempre a costruire. In questo Abruzzo che piange i suoi morti, in questi paesini e borghi dove da sei giorni e sei notti raccolgono cadaveri e portano via dalle macerie resti umani, c'è qualcosa di inspiegabile e insieme di spaventoso. "La scelta più imbecille che potevano fare era quella di progettare edifici là sopra, il sisma di una settimana fa è il gemello di quello del 1703", dice il geologo Antonio Moretti, docente della facoltà di Scienze Ambientali dell'Università dell'Aquila. 

Inspiegabile e spaventoso. Ci siamo andati a Pettino ieri mattina, ci siamo andati verso mezzogiorno e sembrava uno scherzo quella nuova città che precipitava da una collina e si aggrappava all'altra, silenziosa e sinistra come un villaggio abbandonato, con le sue centinaia di case tutte allineate e quasi tutte lesionate, eleganti nel loro ordine ma sventrate dalla botta di una domenica fa, tutte deserte. Non ci vive più nessuno a Pettino. Quei 25mila uomini e donne e bambini sono andati via, fuggiti. A volte però tornano. A prendere un materasso. A recuperare gli ori lasciati l'altra notte. A vedere per l'ultima volta la loro casa che forse non sarà più la loro casa. 

È davanti a noi "il più grande quartiere" dell'Aquila, la nuova città nata dal piano regolatore generale del 1975 e consegnata agli abruzzesi che avevano fame di appartamenti nuovi, trilocali, il terrazzo, il giardino. Edilizia popolare, cooperative, poi anche palazzine più signorili. I terreni erano di pochi, i soliti. Gli Scassa, i Vittorini, i Berti-De Marinis che in famiglia avevano in quegli anni anche un assessore comunale all'Urbanistica. 

I geologi avvertirono del pericolo, l'avevano scritto nelle loro relazioni tecniche. Ma gli amministratori decisero comunque che erano a Pettino le "aree edificabili". Se ne sono fregati della faglia attiva e dell'antico terremoto. "Era una zona dalla quale tenersi ben lontani ma gli appetiti speculativi erano tanti e, contro ogni logica e ogni cautela, lo sono ancora", accusa Antonio Perrotti, l'ex direttore generale dell'Assessorato Ambiente e Territorio della Regione. 

Qualcuno è d'accordo e qualcun altro no. "Nonostante quella faglia attiva, contrada Pettino era l'unico posto dove si poteva allargare la nostra città perché dall'altra parte ci sono solo montagne", spiega Pietro Di Stefano, funzionario del provveditorato delle Opere Pubbliche dell'Abruzzo. 

È un'altra città. Con strade che scendono e salgono. Via Alessandro Manzoni, via Enrico Fermi, via Alfredo La Marmora, via Antica Arischia, via Francia, strade tutte uguali, blocchi di palazzi tutti uguali, numerati e con gli stessi colori e gli stessi mattoncini. Un blocco e la firma di un costruttore, di un'impresa, di un ingegnere. "Una casa di 120 metri quadri costa oggi circa 300 mila euro", racconta Giancarlo Chiamaparelli, mentre trasporta coperte e pentole dal suo appartamento al secondo piano del condominio Solaria numero 6 fino all'automobile già carica di sacchi, valigie, suppellettili. "Dentro è tutto sfasciato, prendo quello che posso prendere e me ne vado sul mare", dice. 

C'è ancora qualche "vendesi" attaccato ai balconi crepati, ai pilastri senza più intonaco. "Io non lo sapevo che qua sotto passava la faglia", risponde Luca Brunale. Ha comprato casa un anno fa e adesso la guarda rassegnato: "Sono iscritto a Ingegneria, se non ho studiato male ci sono pilastri portanti che si sono spostati in questo palazzo dove abito". Luca non può nemmeno entrare nel suo appartamento. Come Marco Rapagnani. Racconta Marcella, sua moglie: "Due lunedì fa, sei giorni prima della grande scossa, ce n'era stata un'altra. Abbiamo visto una crepa nella parete e così abbiamo chiamato il padrone di casa che è anche amico del costruttore". Il costruttore è andato a Pettino per un sopralluogo. Ricorda lei: "Non è nulla, non è nulla, ci ha assicurato. questa è una costruzione antisismica". 

Il costruttore è Filiberto Cicchetti, il presidente degli imprenditori edili della provincia dell'Aquila, quello che ieri l'altro ci aveva preannunciato: "Vedrete, fra due settimane, quando sarà passata la grande paura, dopo i sopralluoghi si accerterà che il novanta per cento delle costruzioni fuori dalle mura sono tutte agibili". 

Agibili e spaccate in due, oblique o piegate, senza pareti o con le scale pericolanti. E tutte comunque appoggiate su quella faglia attiva che - lo insegna la storia dei terremoti - prima o poi come dicono i geologi "caricherà" un'altra volta. "Su una faglia non si costruisce mai, nemmeno su una faglia che non è attiva perché le faglie canalizzano le onde sismiche, in zone come quella dovrebbe essere solo proibito", spiega ancora il geologo Moretti. Ma a Pettino probabilmente costruiranno, costruiranno ancora. Seppelliti i suoi primi duecento morti, qualcuno all'Aquila comincia già a dimenticare.

L'ufficio del Catasto certificato col timbro antisisma "E invece si è schiantato subito"
Un tecnico: avrebbe dovuto resistere il 40% in più. L'edificio costruito come un hotel
è di proprietà privata. Una firma in Comune ne cambiò la destinazione d'uso.
dal' inviato ATTILIO BOLZONI

L'AQUILA - È storto, messo di traverso su un dosso. Dietro è come scoppiato, le pareti sputate fuori, l'edificio tagliato a pezzi. Dicono che l'hanno costruito a norma antisismica, alla prima botta si è rotto. Finirà che l'abbatteranno. E tutti i suoi archivi, le cartine, tutte le sue mappe saranno custodite in una tendopoli. 
Anche il Catasto, la memoria edilizia della città, ha chiuso per terremoto. 

E meno male che aveva quel "marchio di qualità" il fabbricato sghembo e in bilico sulla collina di Villa Gioia, meno male che il palazzo dell'Agenzia del Territorio dell'Aquila l'avevano tirato su dopo il 1974 quando tutti - da quel momento - dovevano rispettare certe regole. L'"armatura" giusta, il calcestruzzo precompresso, le barre di acciaio o di carbonio "interconnesse fra loro". Meno male, se è andata davvero così. Altrimenti cosa sarebbe successo mai in mezzo a questo budello che sale dalla stazione ferroviaria abbandonata fino alla cima del poggio? Altrimenti cosa sarebbe rimasto oggi del Catasto dell'Aquila? 

E' sempre più tortuoso il racconto di come hanno costruito questa città e di come hanno scelto certi luoghi per ospitare gli edifici pubblici, ci sono troppi piccoli segreti gelosamente protetti fino a quando il terremoto ha spazzato via tutto. Una storia somiglia all'altra e all'altra ancora, in un groviglio di nomi e di delibere e di "autorizzazioni" che si sono perdute nel tempo e nel silenzio. Questa del Catasto ricorda tanto quella della Casa dello studente dove sono morti sette ragazzi e altri quattro li stanno ancora cercando. Vi ricordate, cos'era inizialmente quel palazzo dove hanno portato gli universitari che vengono qui da ogni parte d'Italia? Era all'origine un deposito di medicinali. Poi, con qualche variante e con qualche firma negli uffici tecnici del Comune, è diventata la Casa dello studente. 

Così è avvenuto anche per il Catasto, che una trentina di anni fa era dentro Palazzo Centi dove ora c'è la Presidenza della Regione lesionata. Qualcuno però ha voluto trasferirlo vicino alla stazione ferroviaria. Il fabbricato era già pronto. Cinque piani, un giardino davanti e un piccolo parcheggio alle spalle. Avevano costruito per farci un albergo, poi i fratelli Angelo e Giampiero Ricci, mobilieri dell'Aquila, hanno affittato allo Stato il loro immobile. Un'altra firmetta in Comune, il "cambio di destinazione d'uso" e l'hotel a cinque stelle si è trasformato nel Catasto. 

Sono tante le mutazioni improvvise nella vicenda edilizia abruzzese, trasformazioni in corso d'opera che stanno affiorando sospette nei giorni del terremoto. 

Un edificio privato non è come un edificio pubblico. A cominciare dalle norme antisismiche. "Quelli pubblici devono avere un coefficiente di protezione per i terremoti del 40% in più rispetto agli altri palazzi" racconta Pietro Di Stefano, funzionario del Provveditorato delle Opere pubbliche dell'Aquila. 
E' stato costruito così anche il palazzo sgangherato del catasto? "E' fuori asse, tutto sconnesso, chissà", risponde Antonio Perrotti, dirigente generale dell'assessorato Territorio e Ambiente della Regione. E assicura dopo un'ispezione: "Staticamente, è andato". 

Al Catasto non c'è anima viva dalla notte di domenica. Il tesoro che c'è lì dentro - planimetrie, tabelle su superfici di terreni, particelle, spessori di muri - bene che andrà finirà in una tenda. A meno che tutto crolli alla prossima scossa. Il palazzo è là, ondeggiante e pronto a scivolare. 

Per farvi capire come è stata disegnata L'Aquila, come i suoi ingegneri e gli architetti e i suoi urbanisti hanno impostato l'"organizzazione della città", bisogna salire dalla stazione ferroviaria e vedere da vicino dove c'è il Catasto. E' dentro il budello che porta il nome di via Francesco Filomusi Guelfi e che si arrampica, a destra e a sinistra ci sono scuole medie e scuole d'arte, un istituto magistrale, l'Inps, uno degli ingressi del Tribunale, gli uffici finanziari e l'assessorato all'Ambiente della provincia. Si entra e si esce solo da quel budello, si passa per forza sotto un arco di pietra che fa parte delle mura medievali crollate e rotolate sull'asfalto. "E' una follia avere portato qui il Catasto e tutte quelle altre e quegli altri uffici", dice ancora Di Stefano, il funzionario del Provveditorato delle Opere Pubbliche. 

Una delle follie edilizie dell'Aquila, una delle tante. Sentite cosa fa sapere il presidente provinciale dell'Associazione costruttori Filiberto Cicchetti: "All'Aquila esistono due città. Un'antica costruita all'interno delle mura e che è crollata, l'altra fuori dalle cinta dove su 12 mila palazzi ne sono venuti giù soltanto due". E annuncia: "Fra due settimane, quando sarà passata la grande paura, dopo i sopralluoghi si accerterà che il novanta per cento delle costruzioni fuori dalle mura sono tutti agibili". E assicura: "In quelle abitazioni sono cadute solo alcuni ninnoli, soprammobli, intonaci". Ninnoli, soprammobili, intonaci. E duecentonovanta morti e quarantamila sfollati. 

"Inchiesta sul cemento con la sabbia marina"
La procura dell'Aquila indaga sugli edifici crollati
L'AQUILA - "Indagheremo sugli edifici costruiti sulla sabbia marina". Alfredo Rossini, procuratore generale dell'Aquila ha deciso di aprire un'inchiesta sui materiali e sui metodi di costruzione usati per diversi edifici del capoluogo abruzzese crollati come castelli di carte alla prima scossa della notte tra domenica e lunedì. Cemento impastato con sabbia marina e metodi sbagliati, come ha dimostrato l'inchiesta pubblicata oggi da Repubblica con gli articoli di Attilio Bolzoni e Carlo Bonini. 

"Dobbiamo dare una risposta immediata alle vittime e ai loro parenti" spiega Rossini che, fin dal giorno dopo il sisma ha aperto un inchiesta per disastro e omicidio colposi. Un'inchiesta, all'inizio, contro ignoti. L'indagine che comincia oggi potrebbe finire per individuare le persone da imputare di quei reati. 

Un'indagine che Rossini intende iniziare con una serie di perizie su alcuni dei crolli più impressionanti e più inaspettati. La casa dello Studente, il Tribunale e l'Ospedale San Salvatore sono solo alcuni degli edifici che verranno sottoposti ad attenta verifica per capire come possano aver offerto così poca resistenza alle scossa di magnitudo 5.8 Richter.

Pilastri marci e acciaio liscio: Viaggio nel palazzo della morte.
L'INCHIESTA: In via Campo di Fassa due palazzi gemelli.
Uno è andato giù, e ha fatto 27 morti. L'altro è ancora in piedi. Perché?
Uno è ancora in piedi, l'altro è polvere. In uno si sono salvati tutti, nell'altro ne hanno tirati fuori ventinove: ventisei morti e tre vivi. Erano apparentemente attaccati, due palazzi gemelli. Il primo ha qualche crepa, il secondo è avvolto da un fumo di calcinacci che segna i confini del luogo più fatale dell'Abruzzo terremotato. Via Campo di Fossa numero 6 b, eccolo il piccolo grande cimitero della città dell'Aquila. 

Il terreno è in pendenza, pericolosamente in pendenza. Qui hanno costruito sulle montagne russe. Dal giardino pubblico sono sessantacinque scalini a scendere, poi soltanto le pietre che hanno restituito quei corpi. Un salto e un palazzo, un altro salto e un altro palazzo. Da fuori sembrava un edificio solido quello che non c'è più, ben piantato nel suolo. Ma nel suo ventre c'era forse terra marcia, era appoggiato su una roccia troppo dura o troppo fragile. È quello che i tecnici definiscono "terreno incoerente", significa che un crollo non è malasorte ma probabilità. Il palazzo di via Campo di Fossa numero 6 b non si è sfarinato sotto i colpi del terremoto: si è abbattuto su se stesso. Aveva sei piani, ventiquattro appartamenti, due scale, un terrazzo. Aveva la stessa forma a elle dell'altro accanto, lo stesso colore marroncino, le ringhiere dei balconi colorate di azzurro pastello anche quelle. Dicono che anche questo era fatto di cemento armato. 

Ma quale cemento? E armato come? Dalle macerie affiorano "staffe" metalliche in fila sui pilastri, mezzo metro lontane una dall'altra. Ci sono ferri lisci che non sembrano ferri. Ci sono piloni portanti che erano posati quasi per caso sopra o sotto altri piloni portanti "Guarda qua", indica l'assessore comunale ai Lavori pubblici Ermanno Lisi che ci accompagna nelle viscere della sciagura. Qua, dove ci sono i resti, c'è la soluzione del mistero di un palazzo che aveva una tara dentro. Ci abitavano in settantacinque, più di un terzo di loro sono dentro le bare allineate in un hangar che è diventata la morgue dell'Abruzzo.
Cemento? Armato? "O hanno sbagliato i calcoli nella progettazione o hanno costruito male la struttura in un'area insicura, una terza ipotesi non c'è e non ci può essere: l'altro palazzo non è venuto giù e questo invece sì", spiega l'architetto Antonio Perrotti, dirigente generale dell'assessorato Territorio e Ambiente della Regione. Parla di travi che probabilmente non stavano alla distanza giusta, di pilastri "da 30 centimetri per 60 e non da 80 centimetri per 80", di fondamenta molli. E sempre in discesa. "Questa è una zona morfologicamente disgraziata", ripete il funzionario regionale ricordando come hanno scelto di far crescere la città dell'Aquila alla fine degli Anni Sessanta. 

Fuori dalle mura antiche c'erano solo orti, sotto c'era il fiume. E proprio lì hanno costruito e costruito e ancora costruito. Proprio dove passa la faglia. Una delle cause di questa tragedia può ricercarsi nell'errata valutazione di quella che gli esperti chiamano la "giacimentologia", ovvero la natura del terreno dove la città nuova doveva sorgere. L'hanno progettata nel posto sbagliato. Nel posto più infame è capitato il palazzo dove in ventisei sono rimasti schiacciati o soffocati... 

Il piano regolatore dell'Aquila è stato elaborato nel 1972 e approvato sette anni dopo, alla fine del 1979. E hanno cominciato subito a tirare su questi palazzi. In via Campo di Fossa e più in alto, in via XX Settembre. Gli appaltatori erano sempre gli stessi, poco meno di una mezza dozzina. I Barattelli, gli Irti, i Martella, i Tiberi, appena qualche anno dopo anche gli Ianni. Come hanno edificato quella nuova città? "Alcuni bene e altri no", risponde l'architetto della Regione che per la sua "fissazione" sulle regole urbanistiche è stato spostato qualche mese fa in un ufficio regionale che fa contabilità di routine. 

Un piano regolatore vecchio trentasette anni e spazzato via in meno di venti secondi. Una scossa di terremoto che ha scoperto gli abbagli di pianificazione urbanistica degli amministratori. Di sicuro lì, fra via Campo di Fossa e via Pasquale Paoli e via Vincenzo De Bartolomeis, non dovevano innalzare palazzi ma continuare a coltivare pomodori e patate. "Valutare le scelte di allora con il senno del poi è difficile, ma adesso il piano regolatore non l'abbiamo più e siamo costretti a ridisegnare tutta la città", racconta l'assessore ai Lavori Pubblici mentre si aggira in questa grande tomba a cielo aperto. 

Cemento armato. È una parola magica che spiega tutto e spiega niente. Bisogna scoprirlo che cos'è quel cemento armato che è servito a innalzare il palazzo di cartapesta di via Campo di Fossa numero 6 b. C'era più malta nei suoi pilastri o c'era più ghiaia o c'era più sabbia? E come li hanno rinforzati quei pilastri? "Dopo un esame di tutti i materiali si capirà come e perché il terremoto ha travolto certi palazzi in certi quartieri e ha lasciato altri intatti", prevede l'architetto Perrotti. Le macerie dell'Aquila saranno i corpi di reato di questa tragedia.

Italia: 'Troppi edifici non a norma'
Alessandro Martelli, responsabile della sezione prevenzione rischio naturale dell'Enea:
"Nel nostro Paese vengono completamente ignorati i dovuti controlli antisismici"

Il problema è che il 70 per cento degli edifici italiani non è a norma. E tra questi ci sono anche quelli che sono strategici in caso di emergenze come quella che ha colpito domenica scorsa L?A quila. Non è possibile che le prime a cedere siano proprio le strutture necessarie a far fronte all?emergenza. Eppure nonostante la tragedia si pensa ancora di rinviare l?entrata in vigore delle nuove regole antisismiche?. 

Per Alessandro Martelli, responsabile della sezione prevenzione rischio naturale dell?Enea il crollo dell?Ospedale e della Prefettura del capoluogo abruzzese, non può essere giustificato ?nemmeno con un terremoto come quello che c?è stato?. 

Non è la prima volta che gli edifici pubblici, come le scuole e gli ospedali sono le vittime più frequenti di un evento sismico. Perché? "Perché nel nostro paese non si fanno i controlli necessari. Soprattutto se si deve costruire un edificio pubblico. Manca la cultura della qualità. Si continua ad andare avanti con gare d?appalto che premiano i risparmi e poi ci si accorge che si è perso in qualità. E? per questo che crollano le scuole. Eppure dopo il terribile episodio della scuola di San Giuliano si è tentato di mettere in atto dei rimedi, solo che le norme tardano, anche in questo caso ad essere applicate". 

Che vuol dire? 
"L?entrata in vigore dei nuovi criteri previsti dall?ordinanza della Protezione civile e che impongono regole più severe e con una maggiore attenzione per la progettazione, rischia di essere prorogata ancora di un anno. Nel decreto mille proroghe ? che è stato blindato dal governo ? sono stati inseriti degli emendamenti che chiedono di posticipare ancora di un anno l?entrata in vigore di queste norme. Il problema è che il provvedimento rischia di passare così com?è e questo nonostante lo stesso ministero dei lavori pubblici Altero Matteoli, in una lettera inviata a tutte le associazioni che sostengono questa legge abbia manifestato il suo dissenso ad una ulteriore proroga dei termini. Ora alcuni deputati della maggioranza e dell?opposizione stanno portando avanti una iniziativa per bloccare questo ennesimo ritardo". 
 

Di quali norme si tratta? 
"Sono le norme che sono state emanate dalla protezione civile proprio a seguito della tragedia di San Giuliano. Le leggi attualmente in vigore non sono assolutamente adeguate a far fronte al rischio sismico del nostro paese. Magari 60 anni fa potevano anche andare bene, ma certo ora sono superate. Continuare a costruire senza prendere atto di cosa è successo realmente sul nostro territorio, senza prendere atto di quanto abbiamo imparato dalle nostre tragiche esperienze è come andare in autostrada con una carrozza trainata da cavalli". 

Cosa si può fare per rendere più sicure le nostre case, le nostre scuole? 
"Le tecnologie certo non ci mancano. Dobbiamo solo riuscire a tradurre in pratica quello che i nostri ricercatori sono riusciti a mettere a punto e che già in alcuni casi hanno anche realizzato. Sappiamo come si fa a proteggere un edificio da una scossa sismica. Sappiamo rendere sicuri le case, le scuole e anche gli ospedali. Dobbiamo cominciare a farlo e con urgenza".

Cemento disarmato
Il crollo della prefettura. L'ospedale lesionato. La questura inagibile. Così i soccorsi sono rimasti senza testa. Perché nonostante le scosse nessuno aveva verificato gli edifici.
Giù la Prefettura: quello che doveva essere il centro nevralgico della gestione dell'emergenza è completamente fuori uso e ridotto a un cumulo di macerie. Inutilizzabile anche la questura, altro luogo considerato fondamentale per affrontare le grandi calamità. E poi si sbriciolano anche gli impianti dell'ospedale San Salvatore, inaugurato dieci anni fa, costruito con colonne in cemento armato e sale operatorie di cartapesta. Così il terremoto spazza via tre dei pilastri dei soccorsi: obbliga la Protezione civile a rivedere da zero i piani di intervento, in una zona che da sempre si conosce come sismica e che da settimane vive una sciame di scosse. Ma dove nessuno si era preoccupato di verificare la robustezza dei capisaldi per affrontare la crisi più drammatica: fino a domenica il palazzo ottocentesco della Prefettura era il fulcro di ogni strategia.

Davanti al collasso di queste strutture, il professor Franco Barberi, vulcanologo e presidente vicario della Commissione grandi rischi, non usa mezzi termini. "È desolante vedere un simile spettacolo di inefficienza e imprevidenza in un paese come il nostro che a misurarsi con le conseguenze dei forti terremoti dovrebbe essere abituato da sempre". E accusa: "Le responsabilità sono diffuse a tutti i livelli, purtroppo siamo un paese che non impara le lezioni". Invece l'emergenza è stata doppia, trasformando la pianificazione in improvvisazione.

Guido Bertolaso, sottosegretario e commissario straordinario per questo disastro, è stato persino costretto a sdoppiare la sala operativa, il cervello di tutte le operazioni. Una parte è finita nei locali della scuola sottufficiali delle FiammeGialle, una parte ha dovuto addirittura chiedere ospitalità a una struttura privata come la Reiss Romoli: un centro di alta formazione per le telecomunicazioni appartenente a Telecom Italia. Eppure, mai come questa volta si poteva essere pronti a scattare. Bastava rispettare la legge e ascoltare i segnali della natura, usando buon senso.

Dopo la strage di San Giuliano di Puglia, dopo l'assurdità di un terremoto che rade al suolo soltanto la scuola ossia l'edificio che doveva essere più solido, dopo la morte di quei ventisette bambini erano state varate nuove regole. Ma sono passati sette anni da quel sisma, choccante ma di dimensioni limitate, e i controlli sui palazzi pubblici non sono ancora diventati operativi: rinvio dopo rinvio, l'entrata in vigore delle norme continua a slittare. La legge ignora i tempi della terra. E così in Abruzzo tanti sono morti per colpa di verifiche che i legislatori hanno preferito rimandare. Con oltre 70 mila edifici da esaminare, finora in tutta Italia di verifiche ne sono state fatte sette mila, appena il dieci per cento del totale. In Abruzzo la media è ancora più bassa. Quanto, nessuno lo sa esattamente. Un alto responsabile della Protezione civile che preferisce mantenere l'anonimato confessa con rabbia a 'Espresso? di avere chiesto questi dati alla Regione Abruzzo senza riuscire ad ottenerli. Quello che è sicuro invece è che nessun intervento è stato fatto negli ultimi anni sugli edifici crollati all'Aquila, nonostante la Protezione civile disponesse di 280 milioni di euro per l'analisi della vulnerabilità e la messa in sicurezza delle strutture strategiche.

Il palazzo della Prefettura, per esempio, per la sua storica usura, secondo il professor Barberi andava pesantemente rinforzato. Oppure, in mancanza di volontà o di risorse, abbandonato a favore di un'altra sede sicura che ospitasse il quartiere generale dei soccorsi. Altre strade da seguire non ce n'erano. Non aver fatto né una cosa né l'altra apre un delicato capitolo sul fronte delle responsabilità che, secondo Barberi, "vanno comunque individuate". Il crollo della Prefettura ha infatti fatto perdere ore chiave. Subito dopo quella maledetta scossa delle 3.32 la macchina dell'emergenza a L'Aquila è rimasta senza testa: nessuna centrale, nessuna rete di collegamenti per coordinare il territorio con le strutture nazionali. Per indirizzare i soccorsi verso i paesi più colpiti, per orientare i mezzi a seconda delle necessità. "C'era un gravissimo problema di reti telefoniche e non riuscivo a contattare, dirigenti della provincia e sindaci", denuncia il presidente della Provincia, Stefania Pezzopane: "La gravità di quello che stavamo vivendo non è stata percepita subito".

I vertici delle operazioni si sono prima installati nella scuola di Telecom Italia, poi si sono trasferiti nella base della Guardia di Finanza, che disponeva di spazi per i veicoli e di connessioni con tutti gli apparati dello stato. Per ore c'è stato incertezza su come rintracciare i responsabili delle operazioni e sulla gestione delle informazioni. Ore preziose, in cui altre persone potevano essere salvate: altri superstiti oltre ai cento estratti dal coraggio di abitanti e soccorritori. Perchè nessuno ha verificato la stabilità della Prefettura? I piani di intervento, che la indicavano come centrale dell'emergenza, ricadono sotto la responsabilità della Protezione civile. Ed è incredibile che nonostante lo sciame di scosse che da giorni sia mancata la minima precauzione. Stefania Pezzopane parla di "tragedia annunciata": "Soprattutto dopo quello che succedeva da due mesi con numerosissime scosse come quella forte del 30 marzo che ci aveva portato alla chiusura di scuole". A più di dieci ore dal sisma, dichiara sempre la presidente della Provincia: "Ho l'impressione che la situazione del circondario sia stata sottovalutata".

La scossa del 30 marzo poteva essere un segnale d'allarme per mettere la macchina della Protezione civile in posizione di lancio. L'area interessata dai fenomeni sismici dista pochissimo da Roma, da Pescara e da Ancona, con una rete autostradale celebre per la sua estensione. Ci sono a distanze ridotte aeroporti civili e militari, ci sono basi di elicotteri, ci sono caserme dell'esercito e delle forze dell'ordine. C'era tutto per essere ineccepibili. E invece sono venuti a crollare i pilastri per la gestione dell'emergenza, lasciando nella confusione le prime ore, quelle più importanti per salvare le persone intrappolate tra le macerie.

Ancora più grave il caso dell'ospedale San Salvatore, entrato in funzione nel 1994 e che avrebbe dovuto resistere ad ogni genere di sisma. Invece è stato addirittura evacuato per le pesanti lesioni strutturali registrate anche nell'armatura del cemento. "E pensare che è costato tantissimo", afferma il suo direttore generale Roberto Merzetti: "In più, secondo le carte di cui disponiamo era stato a suo tempo garantito per resistere a terremoti addirittura più forti di quello che abbiamo appena registrato".

Non si sa quali garanzie siano a suo tempo state date per la Casa dello studente crollata e costata la vita di alcuni ragazzi. Anch'essa però era stata realizzata in cemento armato puntualmente spappolatosi sotto la spinta del sisma. Cemento del tutto particolare e inadatto alla bisogna e sul quale, sospettano in Regione, costruttori disonesti potrebbero avere speculato realizzando armature di scarsa qualità. Su tutto questo già si invoca l'intervento della magistratura. Perché i soccorritori arrivati sul posto lunedì si sono prodigati per tirare fuori dalle macerie quante più persone possibili, ma quelle ore chiave perse nell'assenza di un quartiere generale possono avere determinato la fine per molte altre vite imprigionate tra le travi. Nella speranza che almeno questa volte la lezione serva a evitare altri disastri futuri.