DOSSIER La mafia del Ponte 
 
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DOSSIER La mafia del Ponte
Organizzazioni criminali, grandi holding finanziarie e società di costruzioni guardano con
sempre maggiore attenzione alla realizzazione del Ponte sullo Stretto di Messina, una delle
opere più devastanti rilanciate dal governo Berlusconi-Lunardi.
Come si stanno preparando i poteri forti di Calabria e Sicilia al grande appuntamento del
Ponte? Potranno essere gli appalti l’occasione per un nuovo patto politico-economico-militare
tra le mafie e la borghesia locale e nazionale?
E chi sono realmente gli Uomini del Partito del Ponte?
Antonio Mazzeo - Luglio 2002
Cap. 1 – Mani criminali sull’affare del Ponte
Tra le possibili cause dell’accelerazione del processo di 'mafiosizzazione’ e concentrazione dei
poteri criminali nell’area dello Stretto di Messina, trova sempre più credito l’attesa suscitata dal
sogno trentennale di realizzare un’infrastruttura per l’attraversamento stabile dello Stretto,
oltre 14.000 miliardi di lire d’investimenti per un ponte di appena tre chilometri di lunghezza
(1).
Questa tesi trova conforto in quasi tutti i più recenti rapporti semestrali sullo stato della
criminalità organizzata in Italia della Direzione Investigativa Antimafia. Il primo allarme sugli
interessi suscitati tra le organizzazioni mafiose dalla ventilata realizzazione dell’infrastruttura, è
stato rilanciato in un comunicato Ansa del 22 aprile 1998. “La DIA – si legge - è preoccupata
dalla grande attenzione della ‘ndrangheta e di Cosa Nostra per il progetto relativo alla
realizzazione del ponte sullo Stretto”. “Appare chiaro – aggiunge la Direzione Investigativa
Antimafia – che si tratta di interessi tali da giustificare uno sforzo inteso a sottrarre il più
possibile l’area della provincia di Messina all’attenzione degli organismi giudiziari ed
investigativi”
(2).
Le mani sul Ponte
La DIA torna sull’argomento con una più approfondita valutazione, nella sua seconda relazione
semestrale per l’anno 2000. Soffermandosi sulla ristrutturazione territoriale dei poteri criminali
in Calabria e in Sicilia, il rapporto segnala come le ultime indagini hanno evidenziato che “le
famiglie di vertice della ‘ndrangheta si sarebbero già da tempo attivate per addivenire ad una
composizione degli opposti interessi che, superando le tradizionali rivalità, consenta di poter
aggredire con maggiore efficacia le enormi capacità di spesa di cui le amministrazioni calabresi
usufruiranno nel corso dei prossimi anni”. Nel mirino delle cosche, secondo la DIA, innanzi
tutto i progetti di sviluppo da finanziare con i contributi comunitari previsti dal piano “Agenda
2000“ per le ‘aree depresse’ del Mezzogiorno, stimati per la sola provincia di Reggio Calabria in
oltre cinque miliardi di euro nel periodo 2000-2006. “Altro terreno fertile ai fini della
realizzazione di infiltrazioni mafiose nell’economia legale – aggiunge il rapporto della DIA - è
rappresentato dal progetto di realizzazione del ponte sullo stretto di Messina, al quale
sembrerebbero interessate sia le cosche siciliane che calabresi. Sul punto è possibile ipotizzare
l’esistenza di intese fra Cosa nostra e ‘ndrangheta ai fini di una più efficace divisione dei
potenziali
profitti”.
A prova del patto comune tra le due organizzazioni criminali per la cogestione dei flussi
finanziari previsti per la megainfrastruttura, gli investigatori segnalano in particolare i

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“collegamenti” emersi in ambito giudiziario nella gestione dei grandi traffici di stupefacenti, tra
malavitosi gravitanti nell’area catanese e personaggi di spicco della ‘ndrangheta appartenenti
al clan Morabito di Africo Nuovo. L’asse strategico tra questi potentissimi gruppi criminali ed il
loro sofisticato modus operandi è stato evidenziato dalle indagini sull’infiltrazione mafiosa nella
realizzazione dei grandi appalti pubblici nella provincia di Messina, e in particolare nella
gestione di attività illecite nella locale Università degli Studi (3).
La Direzione Investigativa Antimafia ha arricchito questi elementi d’analisi con gli ultimi due
rapporti semestrali sulle attività d’indagine espletate nell’anno 2001. Ciò che più preoccupa gli
investigatori è la nuova struttura della ‘ndrangheta sorta dopo le guerre tra le cosche degli
ultimi decenni, un’organizzazione criminale “vivacissima” nel settore del traffico internazionale
di stupefacenti e con sempre maggiori possibilità di infiltrazione negli affari economico-
imprenditoriali, anche grazie alla ridotta attenzione generale in tema di lotta alla mafia (4). “Gli
attuali standard organizzativi – si legge nella relazione della DIA - hanno consentito
l’acquisizione di ingenti introiti finanziari in grado di sviluppare, accanto ai tradizionali
business, attività di natura imprenditoriale, apparentemente lecite, che si presentano a
costituire veicoli d’infiltrazione della malavita all’interno del sistema economico. Una siffatta
strategia della ‘ndrangheta è quanto mai allarmante, soprattutto nell’attuale fase di sviluppo
calabrese, nella quale al sistema imprenditoriale privato sono attribuite grandi responsabilità
per il progresso dell’economia regionale, soprattutto nel quadro dei cospicui contributi
comunitari per il piano pluriennale ‘Agenda 2000’ e con quelli, pure prossimi, relativi alla
realizzazione del Ponte di Messina”.
A questa infrastruttura, è dedicato un passaggio chiave del rapporto della Direzione antimafia:
“Le prospettive di guadagno che ne deriveranno non potranno non interessare le principali
famiglie mafiose operanti in Calabria. Inoltre l’entità degli interessi per la costruzione del Ponte
e la particolarità dell’opera, sono tali da far ritenere possibile un’intesa tra le famiglie reggine e
Cosa Nostra, in vista di una gestione non conflittuale delle opportunità di profitto che ne
deriveranno”. Come si vede, gli investigatori confermano la possibilità di un’intesa
‘ndrangheta-Cosa Nostra per la suddivisione degli appalti relativi al Ponte dello Stretto, una
compartecipazione affaristica in linea all’impostazione data a Cosa Nostra in Sicilia dagli uomini
affiliati a Bernardo Provenzano, incline alla trattativa ‘politica’ con le istituzioni dello Stato ed al
recupero del coordinamento regionale delle organizzazioni mafiose. E’ appunto questa strategia
d’intervento che ha restituito alla mafia la possibilità di sfruttare a pieno le sue risorse
economiche principali: lo sfruttamento parassitario delle attività commerciali e imprenditoriali
locali e il controllo nel settore degli appalti pubblici e delle imprese siciliane e nazionali che
operano
nell’isola.
Secondo la DIA, Cosa Nostra avrebbe ripristinato un elevato grado di controllo
sull’imprenditoria, specialmente quella del settore edile, intercettando sia gli investimenti
pubblici sia quelli privati, “vuoi mediante l’estorsione pura e semplice, vuoi con la
partecipazione diretta ai lavori”. “Con la conseguenza – conclude la Direzione antimafia - che
una rilevante quota delle risorse investite viene sottratta alla realizzazione dell’opera,
determinandone una esecuzione non rispondente ai criteri qualitativi stabiliti e la necessità di
dare ricorso ad ulteriori e non previsti finanziamenti”. Uno scenario particolarmente
preoccupante proprio perché affermatosi in prospettiva della “prossima realizzazione di una
straordinaria serie di opere indispensabili per l’adeguamento delle strutture dell’isola agli
standard nazionali ed europei” (5).
Il grande affare del consorzio ‘Ndrangheta-Cosa nostra S.p.A.
Sin qui le relazioni ufficiali del massimo organo d’investigazione antimafia. Alle considerazioni
precedenti vanno aggiunte le dichiarazioni di due tra i maggiori rappresentanti degli organi
giudiziari dello Stretto, l’ex procuratore aggiunto di Reggio Calabria, Salvatore Boemi, e il

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procuratore capo di Messina, Luigi Croce.
Boemi, occupatosi di importanti indagini sulle infiltrazioni mafiose nel tessuto economico
calabrese e sull’asse ‘ndrangheta-eversione di destra-massoneria e politica (6), ha
ripetutamente messo in guardia sui sempre più provati interessi mafiosi per l’accaparramento
degli enormi investimenti pubblici in arrivo a Reggio Calabria. “Il Ponte è il grande affare del
terzo millennio per Sicilia e Calabria: se non se ne interessa la mafia, ne sarei sorpreso” ha
commentato nel corso dello speciale sul Ponte della trasmissione ‘Sciuscià’ di Michele Santoro,
nel febbraio 2001. "Il ponte sullo Stretto lo vogliono tutti, sarà un affare da 15 mila miliardi"
ha poi spiegato il dottor Boemi al giornalista Mario Portanova ."Già fra la richiesta "ambientale"
e i subappalti, la mafia si appropria del 25 per cento dei soldi pubblici che arrivano in Calabria"
(7). Nonostante l’infiltrazione dei gruppi criminali nei grandi appalti, lo stesso Boemi ha dovuto
lamentare la “cancellazione” del pool antimafia di Reggio Calabria, la “fine di una stagione” di
contrapposizione alle cosche e ai comitati d’affari che “si preparano al varo del ponte sullo
Stretto e ai miliardi europei di Agenda 2000” (8).
Nel mirino delle cosche ci sarebbero anche i quasi mille miliardi relativi al cosiddetto ‘Decreto
Reggio Calabria’, i finanziamenti del Piano Urban per la riqualificazione del centro urbano e
quelli relativi alla costruzione di nuovi pontili per il collegamento marittimo Reggio-Messina.
“Relativamente al problema del ponte sullo Stretto – ha aggiunto il procuratore Boemi - vorrei
capire come si possa conciliare questo investimento sull'attraversamento stabile con i nuovi
progetti per dar vita a corsie preferenziali ai fini del potenziamento del traghettamento dello
stesso Stretto di Messina” (9). Il magistrato cioè, oltre a denunciare il rischio d’infiltrazione
criminale, pone il dito contro la logica degli sprechi delle risorse economiche e finanziarie e
l’assenza di una politica organica dei trasporti da parte delle classi dirigenti locali e nazionali.
Dall’altra parte dello Stretto, ha fatto eco al dottor Boemi, il Procuratore capo della Repubblica
di Messina, Luigi Croce. Nel corso di un convegno organizzato dalla locale Associazione
antiusura, il magistrato ha denunciato i “contrastanti ed inquietanti” segnali inviati alla città dal
mondo criminale: “È forse all'orizzonte, in vista anche della possibile costruzione del Ponte,
un'alleanza ancor più stretta tra Cosa Nostra e 'Ndrangheta che passa per la città dello Stretto,
per cui la crisi delle organizzazioni locali potrebbe semplicemente aprire la strada a
un'invasione da parte delle organizzazioni mafiose esogene”. Anche il dottor Croce denuncia il
clima di “generale rilassamento” in tema di contrasto della criminalità, fattore che
alimenterebbe nella provincia di Messina gli interessi dei gruppi mafiosi e dei settori
dell’imprenditoria in rapporto con le cosche. “In alcuni casi hanno costituito una vera e propria
“mafia bianca”, meno appariscente di quella dei Riina, dei Santapaola e, su scala più ridotta,
degli Sparacio, ma non meno perniciosa per lo sviluppo della città” (10).
Sui tentativi d’infliltrazione della mafia per l’accaparramento del flusso delle risorse previste da
‘Agenda 2000’ e dai progetti per le grandi opere infrastrutturali come il Ponte sullo Stretto, è
recentemente intervenuta anche la Procura di Palermo attraverso il procuratore aggiunto
Roberto Scarpiato. L’allarme è stato ripreso dagli allora ministri del tesoro Vincenzo Visco e
delle finanze Ottaviano del Turco. Visco, riferendosi espressamente al Ponte sullo Stretto, ha
richiesto che “i controlli e l'azione di prevenzione siano organizzati con grande attenzione,
grande energia e grande decisione”. Del Turco, già presidente della Commissione parlamentare
antimafia che aveva indagato su criminalità-politica e affari nel messinese, ha commentato che
il Ponte “deve riunire due realtà, quelle di Messina e Reggio Calabria, in cui ci sono stati
fenomeni che hanno coinvolto la vita delle amministrazioni. E visto che la mafia si è occupata
di tutti gli appalti anche di minima entità si può immaginare che non metta gli occhi su un
appalto di 5-6 mila miliardi?” (11).
Un impatto criminale top secret

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Le dichiarazioni degli ex ministri Del Turco e Visco sono il frutto di intuizioni soggettive, oppure
trovano un fondamento ‘scientifico’ e documentale? In realtà è difficile credere che i due
componenti dell’esecutivo abbiano parlato del ‘rischio infiltrazione’ senza una lettura del
rapporto sul cosiddetto ”impatto criminale del Ponte”, commissionato nell’anno 2000 al centro
studi Nomos del Gruppo Abele di Torino dagli advisor chiamati dal Ministero dei lavori pubblici
a valutare la fattibilità dell’opera (12). Nonostante le conclusioni di questo studio siano state
secretate dai committenti e dallo stesso governo, alcuni dei passaggi chiave sono stati rivelati
in un articolo dello studioso Giovanni Colussi pubblicato dal settimanale Carta, ed in un saggio
del sociologo Rocco Sciarrone sulla rivista Meridiana. E’ bene riportarne alcuni passi.
“Sono state prese in considerazione le due possibilità offerte dal ministero dei lavori pubblici e
da quello del tesoro: Ponte sullo Stretto e trasporto multimodale” scrive Colussi. “Trattandosi
di un’esperienza con pochi precedenti, gli autori hanno dovuto ragionare su un modello
interpretativo che potesse offrire un’efficace descrizione dell’opportunità criminale che si
apriva, per i mafiosi, con un’opera come il Ponte. Ed è stato scelto un modello di analisi
essenzialmente qualitativo, non essendo disponibili dati sufficienti che consentissero la
costruzione di indicatori efficaci sul piano quantitativo. La storia dei gruppi criminali presenti
sul territorio, e la loro reattività alle opportunità offerte da altre Grandi Opere, sono state
incrociate con le caratteristiche dell’opera in quanto tale: modalità di costruzione, la presenza o
meno di manodopera specializzata, il livello tecnologico richiesto nelle varie fasi della
lavorazione. Si è cercato quindi di identificare, attraverso un’analisi del know-how criminale
presente in loco, le parti più a rischio di infiltrazione mafiosa” (13).
Per ciò che concerne il contesto geocriminale in cui s’inserisce il progetto, i ricercatori di Nomos
confermano come lo Stretto di Messina si caratterizzi per essere un’area ad alta densità
mafiosa “in cui le attività criminali sono strutturate e coordinate a livello organizzativo, e quindi
realizzate con sistematicità” (14). Analizzando il modo con cui mafie e imprenditoria locale e
nazionale hanno interagito principalmente in Calabria per la realizzazione di grandi opere
pubbliche (l’autostrada Salerno-Reggio, il porto e la centrale di Gioia Tauro, ecc.), il rapporto
rileva la notevole capacità dei gruppi criminali di inserirsi nei grandi appalti pubblici. “La
‘ndrangheta ha, infatti, saputo imporsi in molte delle numerose infrastrutture costruite in
Calabria dagli anni sessanta ad oggi. E spesso le strategie di infiltrazione sono state realizzate
stringendo rapporti di collusione con le imprese titolari degli appalti” e instaurando “rapporti di
scambio reciprocamente vantaggiosi con il mondo della politica e dell’imprenditoria” (15). Dato
il contesto delle relazioni intercorse e dato il controllo pressoché totale del territorio da parte
della ‘ndrangheta, Nomos giunge a dichiarare “pienamente fondato” il rischio criminalità della
localizzazione dell’infrastruttura in quest’area. Si è di fronte ad un “danno atteso”, in cui si
prefigura un rapporto di ‘cooperazione’ tra le cosche per l’accaparramento degli appalti. A tal
fine la ‘ndrangheta si è dotata, sul modello della struttura organizzativa della mafia siciliana, di
un organismo unitario e centralizzato di coordinamento in grado di appianare le controversie
interne (16). Si ritiene infine plausibile un vero e proprio “accordo di cartello” tra i vertici delle
cosche di ambedue le regioni: alle stesse conclusioni, come abbiamo visto, sono giunti gli
investigatori della Direzione Nazionale Antimafia.
Lo scenario degli appalti
Un elemento che rende particolarmente attrattivo il Ponte alle cosche criminali – secondo il
rapporto di Nomos - è l’ingente somma prevista per la sua realizzazione, e soprattutto il fatto
che si è di fronte ad un’iperconcentrazione degli investimenti in un’area territoriale limitata. E’
possibile prevedere che rispetto a questa particolare condizione dell’opera, i gruppi mafiosi
metteranno in atto fondamentalmente due tipi di strategie per accaparrarsi l’enorme flusso
finanziario previsto. La prima strategia, scrive Sciarrone, “ha a che fare direttamente con il
controllo del territorio e si sostanzia concretamente nel meccanismo della estorsione-
protezione. La seconda riguarda l’attività imprenditoriale dei mafiosi e di loro eventuali soci e si
traduce empiricamente nell’inserimento dei lavori da eseguire”. Il pagamento del ‘pizzo’ sui
lavori affidati in appalto o in concessione, la protezione su scambi e accordi pattuiti da terzi, il

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controllo e l’intermediazione rispetto al mercato locale del lavoro, il collegamento e la
mediazione con i circuiti politico-amministrativi, appaiono le attività più prevedibili, anche
perché sono le meglio sperimentate dalle organizzazioni criminali. “La realizzazione di un’opera
come Il Ponte – aggiunge Sciarrone - potrebbe costituire altresì una favorevole opportunità per
rapporti economici e attività imprenditrici che vanno fondamentalmente in due direzioni:
attraverso imprese costituite e gestite direttamente da esponenti del gruppo criminale e
attraverso la costituzione di fatto (se non di diritto) di società con imprenditori ‘puliti’” (17).
Questi interventi sono favoriti appunto dall’organizzazione stessa che si è data la mafia
calabrese, in grado ormai di poter agire con imprese e società che, in vario modo, “sono da
essa controllate e che, assumendo forme del tutto legali, sono in grado di utilizzare tutti gli
strumenti tecnico-giuridici idonei a rendere “invisibile” la presenza mafiosa” (18).
E’ tuttavia più credibile l’ipotesi che i gruppi criminali puntino alla gestione diretta dei lavori.
Come rilevato dall’ex procuratore di Reggio Calabria, Salvatore Boemi, la ‘ndrangheta non
punta alle “estorsioni di piccolo cabotaggio”, ma all’ingresso da protagonista nella gestione
diretta delle opere previste nella provincia di Reggio. “Non vorrei – ha spiegato Boemi - che si
ripetesse in questa occasione l'errore che si fece, anni fa, ai tempi del costruendo Quinto
Centro Siderurgico di Gioia Tauro, quando si rincorrevano piccoli affari mafiosi e si perdeva di
vista che la mafia era entrata nella grande torta” (19). Basta pensare al grado di
condizionamento esercitato dalla ‘ndrangheta durante i lavori di costruzione della megacentrale
a carbone, ancora una volta a Gioia Tauro. “Non c‘era più soltanto il classico inserimento delle
‘ndrine nei lavori di sub appalto – scrive lo storico Enzo Ciconte – ma c’era l’individuazione
dell’impresa a “partecipazione mafiosa” la cui caratteristica essenziale era di “far capo,
comunque al mafioso, ma gestita da un insospettabile prestanome. Inoltre, c’era anche il
consorzio d’imprese che univa insieme imprese mafiose e imprese non mafiose, e c’era la
complicità degli organi istituzionali dell’ENEL” (20).
Sino a qui, in realtà, l’analisi del centro studi del Gruppo Abele di Torino non appare originale,
poiché non ci sarebbero differenze particolari del ‘rischio criminalità’ nel caso della
realizzazione del Ponte dello Stretto o di una qualsivoglia megainfrastruttura in qualsiasi parte
del territorio a controllo mafioso. Se però si tengono in conto le specificità tecniche del
progetto (il Ponte in sé con le strutture portanti e le relative infrastrutture d’accesso, di
collegamento e di servizio), è possibile definire un impatto criminale che ha carattere di unicità
nel panorama delle Grandi Opere. In verità Nomos sostiene che l’elevato contenuto tecnologico
dell’infrastruttura e la necessità di reperire manodopera qualificata possano essere fattori
d’ostacolo per l’inserimento dei gruppi mafiosi. “La maggior parte degli elementi che
compongono l’impalcato e le torri sono prefabbricati e preassemblati. Per questi lavori, si può
ipotizzare che le possibilità d’infiltrazione da parte di imprese mafiose o a compartecipazione
mafiosa siano ridotte. Molto dipenderà comunque da come saranno articolati, lottizzati e
appaltati i lavori stessi” (21).
Una tesi difficile da condividere, anche perché risponde ad una visione assai riduttiva delle
capacità d’impresa delle organizzazioni mafiose e che non tiene conto delle risultanze delle più
recenti indagini. Esiste realmente questa divisione di competenza tecnologica tra la grande
impresa ‘legale’ e l’impresa in mano ai boss? E non è forse vero che attraverso l’investimento
in borsa di quantità inimmaginabili di denaro sporco, le organizzazioni criminali siano entrate in
possesso di cospicui pacchetti azionari delle maggiori imprese ‘tecnologizzate’ così da divenire
esse stesse imprese mafiose o a capitale mafioso? La scalata mafiosa al Gruppo Ferruzzi,
holding finanziaria con vasti interessi nel settore delle infrastrutture a tecnologia avanzata è
l’esempio più noto di questo processo di trasformazione del ruolo imprenditoriale della
criminalità. Proprio alla vigilia della realizzazione delle grandi opere promesse dal governo
Berlusconi, sono stati raccolti ulteriori segnali che comproverebbero una evoluzione in tal
senso delle relazioni mafia-imprenditoria. Il procuratore Pier Luigi Vigna, in una sua recente
audizione davanti alla Commissione parlamentare antimafia, ha fatto esplicito riferimento ad
“una vera e propria mimetizzazione in atto delle imprese colluse con la mafia”, fenomeno che

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si accompagna ad un vasto movimento delle imprese stesse, una “sorta di trasmigrazione” da
una regione all’altra. Molte società cioè, avrebbero deciso di trasferire la loro attività e di
abbandonare la Sicilia, lasciando il mercato libero ai grandi gruppi imprenditoriali del Nord. E’
questo il frutto di un accordo più o meno tacito, oppure è il segnale di una modifica in atto
delle stesse composizioni societarie delle holding finanziarie a capo delle grandi imprese?
Al di là di una possibile sottovalutazione delle capacità tecnologiche delle imprese mafiose, il
rapporto Nomos è importante perché giunge a quantificare la percentuale delle opere che
tuttavia sarebbero a specifico rischio d’infiltrazione criminale. Il dato di per sé è allarmante:
secondo il ricercatore Giovanni Colussi circa il 40 per cento delle opere potrebbe alimentare i
circuiti mafiosi (22). E’ nei settori più tradizionali dell’intervento criminale nei lavori pubblici
(movimenti terra, trasporti, forniture di materiali inerti e calcestruzzi), in cui è più facile
glissare normative e certificazioni antimafia, che secondo i ricercatori di Torino è possibile un
“maggior grado di permeabilità all’azione di gruppi criminali”. Il Ponte è un megamonumento di
cemento ed acciaio (è prevista la produzione e la movimentazione di oltre 1,1 milioni di
tonnellate di cemento, 780.000 metri cubi d’inerti, 69.000 tonnellate d’acciaio, oltre 1,3 milioni
di metri cubi di materia di risulta). I mafiosi “cercheranno di inserirsi proprio in attività di
questo tipo, che costituiscono ormai da tempo i settori che privilegiano e che in genere
tendono a monopolizzare” (23).
“Per quanto riguarda le torri – spiega ancora Rocco Sciarrone - un rischio criminalità potrebbe
in ipotesi manifestarsi nella fase di scavo e della realizzazione delle fondazioni, il cui volume
complessivo è di 86.400 mc in Sicilia e di 72.400 mc in Calabria. In questo caso, imprese
mafiose – già esistenti o più probabilmente costituite ad hoc – potrebbero rivendicare una
partecipazione diretta ai lavori, soprattutto per le fasi di scavo e di movimentazione terra. Lo
stesso rischio può essere segnalato per quanto riguarda le strutture di ancoraggio dei cavi di
sospensione, per le quali è previsto un volume di 328.000 mc in Sicilia e di 237.000 mc in
Calabria”. “Se si tiene inoltre conto che per la realizzazione del manufatto occorrono in totale
circa 860.000 mc di calcestruzzo, il rischio criminalità appare di gran lunga più elevato data la
tradizionale specializzazione dei gruppi mafiosi nel cosiddetto ‘ciclo del cemento’. Lo stesso
rischio si rileva in tutte quelle lavorazioni con procedure esecutive di tipo standardizzato, che
riguardano, ad esempio, verniciature, saldature, pavimentazioni, ecc.” (24).
“Da dove verrà tutto il cemento necessario a costruire il ponte?”, si domanda il sociologo
Osvaldo Pieroni, autore di un eccellente volume che analizza i limiti dell’infrastruttura. “E chi
gestisce in quest’area il mercato delle attività estrattive, del cemento, delle costruzioni e degli
appalti?”. E’ lo stesso Pieroni a fare un lungo elenco di famiglie storiche della ‘ndrangheta
reggina: i Mammoliti, i Mazzaferro e i Piromalli di Gioia Tauro, gli Iamonte di Melito Porto
Salvo, i Barreca di Pellaro, i Pesce e i Pisano di Taurianova, i Serraino, i Viola e gli Zagari di
Roccaforte del Greco, i Fazzolari e gli Albanesi di Molochio (25). I nomi sono gli stessi di quelli
segnalati dai più recenti rapporti della Direzione nazionale Investigativa Antimafia, accanto ai
clan Mancuso e Morabito, di cui si denuncia l’enorme pericolosità “in virtù dei già percorribili
segnali di infiltrazione nel tessuto imprenditoriale legale”, capace di “condizionare le procedure
di gare d’appalto”.
Gallerie, ferrovie e viadotti, la vera manna della mafia del Ponte
Ma è nell’ambito dei lavori per i collegamenti ferroviari e stradali, in buona parte previsti in
galleria (21,7 Km in Sicilia e 25,9 Km in Calabria) e delle rampe di accesso al Ponte, che
secondo Nomos il rischio criminalità è ancora più alto ed evidente. Tali lavori prevedono
notevoli volumi di scavo e discarica, oltre al fabbisogno di inerti lapidei per calcestruzzi. Si
avranno complessivamente 4,2 milioni di mc di scavo sul versante siciliano e 3,9 milioni di mc
su quello calabrese e nonostante le dimensioni di queste opere, il progetto della Società Stretto
di Messina non fornisce ipotesi credibili sulla localizzazione e l’utilizzo delle cave e delle

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discariche
necessarie.
Ci sono poi le infrastrutture di servizio al Ponte, che nel progetto comprendono un volume
complessivo di fabbricati per ciascun versante di 2.800 mc, un’area di servizio-ristoro in Sicilia
(38.000 mc), un centro commerciale e di ristoro in Calabria (35.000 mc), un centro direzionale
sempre in Calabria con un’area d’assistenza e soccorso ed una caserma della polizia (15.000
mc), un albergo ad anfiteatro (23.500 mq), un museo (2.300 mq). “Si tratta di opere rilevanti,
che richiederanno un impegno finanziario non indifferente e che facilmente possono richiamare
gli interessi dei gruppi mafiosi” afferma il sociologo Rocco Sciarrone. “Il rischio criminalità è
dunque particolarmente elevato, tenendo peraltro presente che tali opere saranno considerate
secondarie – e anche oggettivamente marginali – rispetto alla realizzazione del manufatto e
delle sue infrastrutture principali. Il livello di “guardia” potrebbe essere più basso e ciò
comporterebbe di conseguenza un maggior grado di vulnerabilità di queste opere rispetto a
eventuali infiltrazioni mafiose” (26).
Un altro settore particolarmente sensibile alla penetrazione mafiosa è quello relativo all’offerta
di servizi necessari per il funzionamento dei cantieri. Oltre alla tradizionale funzione di
guardiania, “i mafiosi cercheranno con molta probabilità di inserirsi nelle fasi di installazione e
organizzazione dei cantieri, e successivamente anche nella gestione dei loro canali di
approvvigionamento. E’ dunque ipotizzabile il tentativo di controllare il rifornimento idrico e
quello di carburante, la manutenzione di macchine e impianti e la relativa fornitura di pezzi di
ricambio, il trasporto di merci e persone” (27). Un’ultima nota del rapporto Nomos sul rischio
criminalità è riservata al ruolo che i mafiosi potrebbero cercare di assumere, in termini di
intermediazione e speculazione, sui terreni da espropriare per la costruzione delle
infrastrutture di collegamento e di servizio. Segnali d’allarme in tal senso, sono stati raccolti
dal Forum sociale di Messina tra gli abitanti della frazione di Faro-Capo Peloro, in occasione del
recente campeggio di lotta contro il Ponte sullo Stretto.
Un 40% delle opere ad alto “rischio di azione criminale” significano 5.600-6.000 miliardi di lire
d’investimenti pronti a finire nelle mani delle imprese di mafia. Nonostante lo scenario di forte
illegalità e incompatibilità socioterritoriale del progetto Ponte, il vecchio governo di
centrosinistra guidato da Giuliano Amato ha scelto di occultare i risultati del rapporto, e per
bocca del sottosegretario ai lavori pubblici, on. Antonino Mangiacavallo, ha ridimensionato
l’”impatto criminale” dell’infrastruttura, assimilandola ad un qualsiasi progetto per il trasporto
multimodale. “Il maggior pericolo, nel caso della realizzazione del Ponte, non appare legato né
alla natura dell'opera né alla sua unitarietà” ha dichiarato Mangiacavallo, rispondendo ad una
serie di interrogazioni parlamentari. “A rendere più rischiosa tale soluzione sembra solo essere
la sua maggiore dimensione finanziaria rispetto alla multimodalità, ma se le risorse pubbliche
liberate dalla scelta dello scenario multimodale venissero impiegate per rendere tale stesso
scenario più robusto, costruendo ponti, aeroporti e strade (...), l'impatto sulla sicurezza dei
due scenari diverrebbe simile” (28). Nonostante il contorto gioco di parole, il sottosegretario
conferma implicitamente che la mafia è pronta a spartirsi i lavori di realizzazione del
manufatto.
Al grande appuntamento con il mostro tra Scilla e Cariddi le autorità si stanno accingendo
impreparate e senza gli strumenti idonei ad impedire il grande banchetto delle cosche criminali
siculo-calabre. Debole e per lo meno inopportuna è la soluzione auspicata dagli stessi
ricercatori del Gruppo Abele, che nel rapporto sul ‘rischio criminalità’ per i lavori del Ponte
prospettano la creazione di una task force guidata dai magistrati “che opererebbero come
aggiunti presso le DDA di Messina e Reggio Calabria, coordinati dalla Direzione Nazionale
Antimafia e coadiuvati da un apposito nucleo della DIA, allo scopo di compiere una sistematica
attività d’indagine e di prevenzione nei confronti di tutti i soggetti economici impegnati
nell’opera”
(29)

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Valutare come altissimi i costi in termini di militarizzazione e controllo mafioso del territorio nel
momento in cui si aprirebbero i cantieri per il Ponte, dovrebbe portare ad una seria messa in
discussione del valore e della fattibilità dell’opera stessa. E’ particolarmente ingenuo pensare
che l’enorme impatto sociocriminale previsto possa essere ‘bilanciato’ e ‘controllato’ dal
potenziamento degli organismi d’indagine e magari di polizia. Il processo di militarizzazione
della Sicilia, la realizzazione di megaimpianti di guerra sotto il controllo dei più efficienti sistemi
d’intelligence degli Stati Uniti, non ha assolutamente impedito l’infiltrazione criminale nei
cantieri e nei servizi delle basi e degli aeroporti. Di contro, esso è stato funzionale alla
composizione di nuovi e più agguerriti blocchi sociali moderati e al potenziamento della forza
politico-militare della mafia. La realizzazione delle grandi opere militari ha avuto l’effetto, non
certamente secondario, di ridurre gli spazi d’espressione democratica e d’organizzazione dei
soggetti sociali antagonisti al modello di sviluppo dominante e al complesso bellico-industriale.
C’è poi da chiedersi perché mai dovrebbe avere esito positivo l’implementazione di una task
force di magistrati e agenti speciali, in un’area dove le forti contiguità tra i poteri hanno
impedito l’esercizio della giustizia e persino inquinato e depistato indagini strategiche per
colpire i santuari del crimine…
Non è un caso che l’ipotesi di un ‘nucleo speciale d’indagini’ sia piaciuta ai grandi Signori del
Ponte. L’on. Nino Calarco, direttore della Gazzetta del Sud e presidente della Stretto di
Messina, a proposito del rischio d’infiltrazione mafiosa negli appalti è giunto a proporre di
nominare l’ex procuratore distrettuale della DDA di Reggio Calabria, Salvatore Boemi, a capo
della task-force che il governo dovrebbe istituire per la verifica della legalità. “Boemi sarebbe
l’uomo giusto anche perché è stato il primo a sollevare il problema delle possibili infiltrazioni
mafiose” (30). Un tentativo di cooptazione e di legittimazione delle classi dirigenti locali che
non può che essere respinto per la sua inutilità e pericolosità. Quali sarebbero poi le garanzie e
i supporti che il nuovo governo potrebbe mai dare a task force del tipo di quella proposta per la
‘vigilanza’ dei lavori del Ponte? Illuminante in proposito quanto ha dichiarato recentemente il
ministro delle infrastrutture Pietro Lunardi: “Ci siamo preoccupati d’investire una piccolissima
parte delle somme destinate alla realizzazione delle grandi opere per la sicurezza contro il
rischio criminalità. Abbiamo siglato un accordo con il ministero degli Interni e del Tesoro in
virtù del quale sui cantieri per le grandi opere saranno presenti tutori dell’ordine a garanzia che
tutto avvenga al riparo dalle pressioni mafiose. Monitoraggio costante, dunque, sui cantieri,
come peraltro sta già avvenendo in altre zone d’Italia” (31). Nient’altro che fumo: piccolissime
somme di denaro e qualche tutore dell’ordine in più. Per Lunardi, del resto, l’infiltrazione
mafiosa nella gestione delle grandi opere non può essere argomento d’allarme. “Mafia e
Camorra ci sono e dovremo convivere con questa realtà” ha esternato il ministro nell’agosto
2001. “Questo problema non ci deve impedire di fare le infrastrutture. Noi andiamo avanti a
fare le opere che dobbiamo fare, e questi problemi di Camorra, che ci saranno, per carità,
ognuno se li risolverà come vuole”.
Guerra e stragi per i lavori del Ponte
L’infiltrazione delle organizzazioni mafiose nella gestione delle risorse finanziarie finalizzate alla
realizzazione del Ponte non è un processo recente, e soprattutto non è stato né lineare né
indolore. Al contrario, esso è passato attraverso una fase di grave conflitto tra le maggiori
cosche calabresi, culminata in una vera e propria guerra che, nella seconda metà degli anni
’80, ha disseminato di morti (oltre 600) le strade della provincia di Reggio Calabria. Lo scontro
militare scoppiò nell’ottobre del 1985 a seguito dell’assassinio del boss di Archi Paolo De
Stefano, intimamente legato ai poteri economici, politici e massonici. Di lui sono stati provati i
legami con la Banda della Magliana e con gli ambienti dell’eversione di estrema destra, alla
quale si sarebbe accostato “negli anni in cui frequentava l’Ateneo messinese, ed attraverso tali
ambienti con altri ancora più potenti ed influenti a livello nazionale, quali quelli dei servizi
segreti, della massoneria deviata, del terrorismo internazionale e dei grandi trafficanti
internazionali di armi e droga” (32).
L’eliminazione di Paolo De Stefano fu la risposta, immediata, all’attentato con un’autobomba
cui era miracolosamente scampato il boss Antonino Imerti, detto ‘nano feroce’, ma che costò la

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vita a tre persone. Gli inquirenti non tardarono ad individuare la causa scatenante del conflitto
tra le cosche. “A quanto pare - scrive Enzo Ciconte - la guerra era da mettere in relazione agli
appalti pubblici attorno a Villa San Giovanni in vista della costruzione del ponte sullo stretto di
Messina che avrebbe dovuto collegare stabilmente le sponde della Calabria e della Sicilia” (33).
Alla stessa conclusione sarebbe giunto il Tribunale di Reggio Calabria, in una sua recente
ordinanza di arresto contro 191 affiliati alla ‘ndrangheta: “Tra le ragioni alla base della “guerra
di mafia” che ha interessato l’area di Reggio Calabria tra il 1985 e il 1991, sembra esserci
anche il controllo dei futuri appalti relativi alla costruzione del Ponte sullo Stretto” (34). La tesi
viene sposata dalla Commissione parlamentare antimafia in visita nel 1989, nella provincia di
Reggio Calabria. Pur senza fare esplicito riferimento all’infrastruttura, la Commissione,
soffermandosi sul caso di Villa San Giovanni, comune che aveva visto cadere sotto i colpi di
lupara affiliati alle cosche e uomini politici locali, affermava che “i giudici hanno chiarito che in
questa località si è sviluppato uno scontro fra cosche per la gestione di una cospicua, futura
erogazione di denaro. (...). E’ ragionevole pensare che al centro delle attenzioni da parte della
criminalità organizzata possa essere stato il Comune più importante e produttivo (Villa San
Giovanni) ove peraltro deve essere decisa la realizzazione di importanti opere pubbliche” (35).
In realtà lo scatenamento del conflitto seguì di poco gli annunci favorevoli alla realizzazione
dell’opera “in tempi brevi” da parte dell’allora governo presieduto da Bettino Craxi. Il leader
socialista arrivò perfino a fissare le date del progetto: “i lavori del Ponte dovranno iniziare nel
1988 e terminare nel 1996” (36). Le aspettative furono alimentate dalla firma, sempre nel
1985, della convenzione Stato-Società dello Stretto di Messina che metteva nero su bianco sui
tempi di realizzazione dell’infrastruttura. L’anno successivo il ministero dei lavori pubblici
diretto da Claudio Signorile stanziava 220 miliardi per ulteriori studi e sondaggi nell’area tra
Scilla e Cariddi (37).
Il rapporto diretto guerra di mafia-Ponte ha trovato riscontro nelle dichiarazioni di alcuni
collaboratori di giustizia. Filippo Barreca, deponendo durante il processo contro il boss Giorgio
De Stefano ed altri 34 affiliati alla ‘ndrangheta di Reggio Calabria, ha spiegato che il conflitto
tra Paolo De Stefano e Antonino Imerti verteva proprio su chi dovesse esercitare la leadership
sulla gestione delle opere infrastrutturali: “Liberando il territorio da Antonino Imerti, Paolo De
Stefano si assicurava il controllo della zona e, quindi, dei futuri lavori”.
L’ex affiliato alla ‘ndrina Filippo Barreca ha aggiunto che fu proprio l’esigenza di appropriarsi
dei cospicui finanziamenti per le opere pubbliche a spingere le cosche a ricomporre il conflitto
“L’interesse a che fosse ristabilita la pace in provincia di Reggio scaturiva da una serie di
motivazioni, alcune di ordine economico (pacchetto Reggio Calabria e realizzazione del ponte
sullo Stretto) e altre di politica criminale” ha dichiarato Barreca ai magistrati calabresi. “Anche i
siciliani presero posizione nel senso che andava imposta la pace fra le cosche del Reggino,
essendo in gioco grossi interessi economici la cui realizzazione veniva compromessa da quella
guerra. Mi riferisco al ponte sullo Stretto nonché ad opere pubbliche che dovevano essere
appaltate su Reggio Calabria”.
Il procedimento giudiziario scaturito dalla cosiddetta ‘Operazione Olimpia’ ha accertato
l’intervento dei maggiori esponenti di Cosa Nostra siciliana per favorire la rappacificazione tra
le cosche calabresi, accanto ai vecchi patriarchi della ‘ndrangheta emigrati in Canada e ad
alcuni esponenti politici reggini vicini ai poteri massonici e all’eversione di estrema destra. La
pace di Reggio rappresentò una vera e propria svolta nella storia della ‘ndrangheta, che si
riorganizzò sul modello delle ‘commissioni’ delle province siciliane e con una struttura sempre
più impermeabile alle possibili infiltrazioni esterne. Le ‘ndrine ne uscirono dunque rafforzate e
ben organizzate per partecipare alla spartizione delle nuove opere pubbliche programmate
nell’area.
L’estorsione sui sondaggi

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Una conferma degli interessi di Cosa Nostra nella gestione delle attività relative alla
realizzazione del Ponte è venuta da un altro importante collaboratore di giustizia, il messinese
Gaetano Costa, che ha riferito di un incontro tenutosi a Roma intorno all’82-83 tra il suo ex
braccio destro Domenico Cavò, poi assassinato, e il boss Pippo Calò, mente economica delle
cosche vincenti di Palermo, “per discutere una questione concernente l’inserimento della mafia
nella gestione di alcuni sondaggi geologici in vista della possibile realizzazione del ponte sullo
Stretto di Messina”.
Questa dichiarazione ha trovato conferme in ambito processuale, nel cosiddetto procedimento
‘Olimpia 4’, condotto contro le famiglie dei Rosmini, dei Serraino, degli Imerti, dei Condello, dei
Latella e dei Paviglianiti, responsabili di una serie di episodi estorsivi e di un vasto traffico di
stupefacenti nella provincia di Reggio Calabria (38). Grazie ai collaboratori di giustizia è stata,
infatti, provata l’attività estorsiva nei confronti dei responsabili della ATP - Giovanni Rodio
S.p.A. di Milano, la società incaricata delle trivellazioni e dei sondaggi idrogeologici nel corso
degli studi di fattibilità del Ponte sullo Stretto, da parte di Ciccio Ranieri, boss di Campo Piale,
legato al clan Imerti (39).
Per questa estorsione, Ciccio Ranieri è stato condannato in appello a tre anni e quattro mesi di
reclusione; ad accusarlo, è stato il pentito di mafia Maurizio Marcianò, che ha pure identificato i
dirigenti della società che gli avevano versato alcuni milioni di lire. L’atteggiamento dei
funzionari della Rodio S.p.A. è stato scarsamente collaborativo e in sede di dibattimento è
accaduto perfino che il capo cantiere dell'impresa, arrivato dall'estero per testimoniare,
nonostante l’ammonimento del presidente della Corte, insistesse nel non riconoscere l'imputato
Ranieri
(40).
Cap. 2 – Messina, il Ponte e i Poteri Occulti
Lo Stretto di Messina, snodo degli interessi criminali
Molto si è scritto sulla potenza criminale della ‘ndrangheta e sulla sua capacità di penetrazione
nel tessuto socioeconomico della Calabria. Un po’ meno si sa delle organizzazioni criminali
esistenti nel territorio messinese e solo dopo lo scoppio del cosiddetto ‘Caso Messina’
nell’inverno-primavera del 1998, mass-media, inquirenti e membri della Commissione
parlamentare antimafia hanno iniziato ad approfondire il ruolo e la portata della mafia della
città dello Stretto. E’ opportuno un approfondimento per comprendere a pieno il contesto
criminale in cui dovrebbe sorgere la grande infrastruttura per il collegamento tra i promontori
di Scilla e di Cariddi.
E stata ancora una volta la Direzione Investigativa Antimafia ad analizzare opportunamente il
ruolo storico giocato da Messina per l’alleanza strategico-operativa delle cosche siciliane e delle
‘ndrine calabresi. Le risultanze delle indagini hanno accertato che grazie alla sua posizione
geografica, la provincia di Messina rappresenta uno “snodo vitale”, una sorta di “area comune”,
non solo per l’economia siciliana ma anche per gli interessi di Cosa Nostra e della ‘ndrangheta.
La provincia di Messina, scrive la DIA, è “caratterizzata da vivaci e complesse dinamiche
criminali locali in cui si evidenziano costanti interferenze mafiose di diversa estrazione e
provenienza che, tuttavia, non sembrano mirare alla impostazione di un modello di struttura
criminale verticistico con competenza su tutto il territorio della provincia. Si registra l’influenza
di circuiti malavitosi collegati alla Calabria, anche in funzione di proiezioni verso zone ad

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elevata criminalità mafiosa del catanese e del palermitano, contigue a quella messinese”.
Storicamente la “massiccia infiltrazione” nel territorio peloritano dei Corleonesi e dei clan
catanesi è riferibile ai primi anni ‘80, mentre nel corso degli anni ‘70, la città dello Stretto era
inserita a pieno titolo nella sfera di influenza della ‘ndrangheta calabrese. In quegli anni i boss
dei gruppi emergenti della criminalità messinese erano “immediatamente sottordinati” ai capi
storici della ‘ndrangheta quali Antonio Macrì di Siderno, Girolamo Piromalli di Gioia Tauro e
Domenico Tripodo di Reggio Calabria. La città ed il suo hinterland furono trasformati nel luogo
favorevole alla permanenza dei latitanti, alcuni affiliati persino ai gruppi camorristi campani (ad
esempio il clan Misso, coinvolto nella strage al rapido 804 dell’antivigilia di Natale del 1984).
Nel sottolineare la sinergia criminale della ‘ndrangheta e di Cosa Nostra, accanto alle più
pericolose organizzazioni criminali internazionali e alle aree ‘grigie’ della finanza e della politica,
la DIA ha specificato che in quest’ambito Messina è stata assunta a ‘snodo di traffici e
collegamenti’. “Si tratta di interessi che ben potrebbero giustificare uno sforzo di sottrarre il più
possibile l’area della provincia di Messina all’attenzione degli organismi giudiziari ed
investigativi creando una sorta di cuscinetto in cui allocare la sede di interessi comuni e di
rilevante importanza strategica”. La città dello Stretto è stato punto di riferimento di un vasto
traffico internazionale di armi e di riciclaggio di denaro proveniente dal commercio di
stupefacenti o di proventi di tangenti finite a politici, imprenditori mafiosi, funzionari pubblici, a
seguito del massiccio investimento in opere pubbliche o di edilizia turistico-immobiliare, in
buona parte dal devastante impatto socioambientale. Come ha sottolineato il Procuratore della
Repubblica di Messina Luigi Croce, nel capoluogo, “realtà morente sul piano imprenditoriale”,
hanno trovato ampio impulso le estorsioni e lo spaccio degli stupefacenti, mentre “massicci
appaiono gli inserimenti negli appalti dei lavori pubblici e nel riciclaggio di denaro, con il
successivo reimpiego in attività imprenditoriali apparentemente lecite” (41). Le indagini
giudiziarie sulla cosiddetta ‘Mani Pulite dello Stretto’ hanno evidenziato che negli anni ‘80 sono
state finanziate nella provincia opere pubbliche per ben 17.000 miliardi, un dato che
corrisponde al 32% del valore dei finanziamenti di opere in tutta la Sicilia.
Secondo quanto raccontato alla Commissione Antimafia da Angelo Siino, il collaboratore di
giustizia già ‘ministro-massone dei lavori pubblici’ di Cosa Nostra, tutti gli appalti pubblici della
provincia, comprese le opere di minor rilievo, sono stati “scanditi” dalle ‘famiglie’ di Palermo e
di Catania. “Le imprese messinesi potevano competere, vincere secondo un codice governato
dai due tronconi di Cosa Nostra garantendo il rispetto delle competenze territoriali delle
imprese”, scrive la Commissione parlamentare nella sua bozza di relazione sul ‘Caso Messina’.
“Tale Governo era pagato con una sorta di tassa che derivava dai proventi dell’appalto. Le
imprese che pagavano potevano continuare a svolgere la propria attività. Quelle che venivano
dichiarate ‘insolventi’ perdevano ogni speranza di poter svolgere qualunque lavoro. (...).
Questa regia occulta assicurata dalle famiglie siciliane e calabresi spiega la relativa tranquillità
‘militare’ del territorio messinese. Ma questa pace, interrotta di tanto in tanto da regolamenti
di conti sanguinari, era pagata con il prezzo altissimo della perdita di quel livello minimo di
legalità, di trasparenza, che fanno di un mercato qualunque un’area del libero confronto tra
energie economiche che si confrontano su un terreno di pari opportunità”. Nonostante la
Commissione antimafia eviti ogni classificazione, è indubbio che questo sistema abbia prodotto
quell’”interazione tra le organizzazioni criminali e il blocco sociale a composizione
interclassista, egemonizzato da strati illegali-legali” proprio della cosiddetta ‘borghesia
mafiosa’, nell’accezione dei maggiori studiosi in materia (42) .
La fitta rete tra poteri forti
Una delle contraddizioni più stridenti di Messina è stata sottolineata ancora dalla Commissione
parlamentare antimafia: è quella che ha per oggetto “gli intrecci di interessi, le alleanze e
persino i legami di parentela ai livelli più alti di responsabilità della vita istituzionale”. “Una
tendenza al condizionamento della vita politica, sociale, economica, giudiziaria, culturale,

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accademica – continua il documento dell’Antimafia – tanto più efficace quanto più grande si
manifestino i legami, gli intrecci tra le istituzioni che contano: la magistratura da un lato, il
mondo accademico, quello economico e finanziario dall’altro”.
A Messina, spesso, ampi settori della magistratura hanno ostentato familiarità e amicizia con il
potere politico ed imprenditoriale. Negli anni ‘90 si è verificato che nella poltrona più alta della
Procura sedesse uno stretto congiunto del Rettore dell’Università, al centro di delicate indagini
perché socio di un’azienda a conduzione familiare che ha fornito farmaci al Policlinico
universitario a prezzi sovradimensionati. Le recenti inchieste della Procura di Catania hanno
evidenziato un vasto circuito di contiguità e collusioni tra importanti magistrati giudicanti e
inquirenti del distretto di Messina e i maggiori boss criminali dello Stretto e finanche la
concertazione di una strategia di depistaggi e falsi pentitismi tesi alla protezione della cupola
politico-affaristica-mafiosa della provincia. Soffermandosi proprio sul distretto giudiziario
peloritano, la Commissione antimafia ha evidenziato “conflitti profondi, divisioni irrimediabili,
guasti talmente forti da mettere in discussione la certezza dei più elementari diritti alla
giustizia che spettano ad ogni comunità democratica, ad ogni consorzio civile”.
Nel sentire comune, a Messina ‘giustizia non è mai stata fatta’; corruzioni, omissioni,
benevolenze, superficialità in indagini e sentenze sono sotto gli occhi di tutti, e continuano ad
essere oggetto di procedimenti giudiziari e delle attività ispettive del Consiglio Superiore della
Magistratura. La sfiducia nella Giustizia ha pesato come un macigno sulle possibilità di sviluppo
democratico di un’intera collettività.
Il crocevia dell’eversione neofascista e della massoneria deviata
La relazione della Commissione antimafia, che pure ha il pregio di aver messo le dita su alcune
delle piaghe di Messina (malaffare nell’Università, caso giustizia, inquietante gestione di alcuni
pentiti, ecc.), ha preferito non analizzare altri elementi che pure hanno favorito il fenomeno
mafioso e l’instaurarsi di un blocco di potere che nelle sue dinamiche, per certi aspetti, appare
similare ai gruppi dominanti nelle narcodemocrazie dell’America Latina.
Il Comitato per la pace e il disarmo unilaterale di Messina, pubblicando nel 1998 il volume ‘Le
mani sull’Università’, ha denunciato come per l’ingresso in città della criminalità mafiosa alla
fine degli anni ‘60, sia stato centrale il legame dei gruppi criminali con le organizzazioni di
estrema destra (Ordine Nuovo, Avanguardia Nazionale) che operavano in quegli anni a Messina
grazie alle coperture di ampi settori della magistratura e delle autorità di pubblica sicurezza.
Alle medesime conclusioni è giunta recentemente la Procura di Messina rinviando a giudizio
decine di affiliati al clan di Africo dei Morabito, che in legame con le cosche del messinese e del
barcellonese hanno cogestito i maggiori appalti infrastrutturali e di gestione dei servizi
dell’Ateneo e dell’Opera Universitaria, controllando altresì il mercato a pagamento degli esami
e delle lauree (Operazione ‘Panta Rei’). Nell’ateneo di Messina si è consumato un patto
scellerato tra affiliati alle ‘ndrine e militanti neonazisti finalizzato alla gestione di appalti di
forniture e servizi e alla realizzazione della cosiddetta ‘strategia della tensione’ per bloccare i
processi di democratizzazione in atto nel paese.
La convergenza tra i poteri criminali è già stata al centro di numerose inchieste (si pensi alle
risultanze cui sono giunte la Commissione parlamentare sulla P2 o le procure che indagano
sulle stragi – Milano, Firenze, Reggio Calabria, ecc.). Quello che non si sapeva è che Messina
ha avuto un ruolo strategico all’interno del panorama eversivo nazionale, anche grazie al fatto
che in città si sviluppò parallelamente un’altissima concentrazione di logge massoniche
‘ufficiali’ e ‘deviate’ (43). E’ stata la stessa Direzione Investigativa Antimafia a sottolineare

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come a Messina la massoneria potrebbe essere stata “il canale di collegamento con ambienti
politico-affaristici di altissimo livello, normalmente non alla portata delle cosche tradizionali”.
Nell’area dello Stretto hanno operato importanti iscritti alla P2 di Licio Gelli, tra cui ex questori
ed ex comandanti dell’Arma e il nucleo più numeroso del sud Italia di appartenenti
all’organizzazione militare segreta Gladio (44). Senza enfasi è possibile affermare che molti dei
segreti della storia della Repubblica passino da Messina. Alcuni dei protagonisti della stagione
delle bombe nell’università negli anni ‘70, sono stati condannati per le grandi stragi politico-
mafiose del ’92-’93, mentre altri sono stati indagati all’interno dell’inchiesta, oggi archiviata,
sui cosiddetti ‘Sistemi criminali’, i mandanti coperti della strategia destabilizzante degli ultimi
anni, tra massoneria, servizi segreti ed alta finanza. Come vedremo più avanti, perlomeno uno
di questi personaggi è stato in relazione con i maggiori gruppi finanziari ed industriali che
concorrono alla realizzazione del Ponte sullo Stretto.
Messina metafora del Mezzogiorno senza sviluppo
Messina ha così assunto il ruolo di centro nevralgico per l’accumulazione e il riciclaggio di
denaro sporco; è il luogo dove si è fatta asfissiante la concentrazione dei poteri economici e
criminali; è l’area strategica per la concertazione di progetti lesivi dello sviluppo democratico
del paese, protagonisti le mafie siciliane e calabresi e quelli che impropriamente vengono
definiti ‘poteri occulti’, le logge massoniche, alcuni gruppi di derivazione neofascista e certi
segmenti paraistituzionali presumibilmente legati ai servizi segreti ‘deviati’. Ma più che il teatro
di una spy story dai confini indefinibili Messina è forse solo una metafora di un Sud asservito
ad un modello di sviluppo che ha dilapidato immense risorse del territorio, ha visto il
trasferimento a Nord d’inestimabili capitali finanziari e di saperi, ha accresciuto la
disoccupazione e consegnato intere aree al dominio della borghesia mafiosa.
La radiografia tracciata dal CENSIS nel suo rapporto del marzo 1998 su ‘Legalità e sviluppo a
Messina’, evidenzia come la città dello Stretto sia caratterizzata da buona parte dei fattori
socioeconomici che hanno condannato al sottosviluppo il Mezzogiorno d’Italia. Innanzi tutto,
l’esclusiva vocazione al terziario e l’alto tasso di disoccupazione (45). A Messina, dopo la
frenetica urbanizzazione degli anni Sessanta e Settanta, nell’ultimo decennio è stata registrata
la fuga dal centro urbano del 2,5% della popolazione. La valutazione del CENSIS dei consumi
culturali ha delineato una situazione di ‘scarsa vitalità’ e la bassa propensione alla creazione di
associazioni a carattere artistico e culturale. Di contro il numero degli operatori finanziari è ben
al di sopra della media nazionale, mentre la quantità di sportelli bancari è in linea con i valori
nazionali (46). Ciò, spiega il rapporto dell’istituto di ricerca è “elemento di ambiguità anziché di
sviluppo, in un contesto sospettato di riciclaggio”. A questa specificità messinese si aggiungono
i fenomeni tipici di tante aree del Sud, l’assenza di mobilità sociale, il sempre maggiore disagio
dovuto ai processi di cattiva urbanizzazione (baraccopoli post-terremoto 1908 mai risanate,
creazione di quartieri ghetto, assenza di servizi sociali e verde pubblico attrezzato), la
deindustrializzazione (a Messina le tradizionali attività legate alla trasformazione agrumaria e
alla cantieristica sono pressoché collassate), la crisi del settore edilizio (ambito ‘protetto’ dalle
amministrazioni, che in assenza di Piano regolatore in soli 30 anni ha visto triplicare il
patrimonio immobiliare della città, contro un aumento della popolazione di appena il 25%).
Il CENSIS ha posto altresì l’accento sulla ‘debolezza’ della società civile, “sia come incapacità di
rappresentare pubblicamente i grandi problemi (sottosviluppo, disagio sociale, inefficienza
delle istituzioni, ecc.), sia come poca disponibilità all’impegno per la soluzione dei problemi
stessi”. In una realtà caratterizzata dall’arretratezza socioeconomica, ciò non può che
privilegiare l’insediamento mafioso.
La città e le istituzioni di Messina hanno vissuto la ‘rimozione’ pressoché generale del
fenomeno criminale. Sempre il CENSIS ipotizza che questo atteggiamento sia stato favorito da

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una ‘convergenza d’interessi’, “alcuni in buona fede, altri dubbi, altri sicuramente tesi a creare
una copertura per una presenza che alla fine degli anni Ottanta era forte e pervasiva”. Come si
vede una tesi similare a quanto denunciato dalla Direzione Investigativa Antimafia, nella sua
radiografia sui processi criminali in atto nell’altra città dello Stretto, Reggio Calabria. Questa
fitta rete d’interessi piccoli e grandi ha impedito che per anni il problema della mafia a Messina
emergesse nella coscienza civica. Ha altresì accelerato – aggiunge il CENSIS - l’evoluzione
della rete criminale, cresciuta sull’estorsione e l’usura e “dunque sulla capacità di inserirsi
nell’economia territoriale, stringendo una sempre più fitta strategia d’intervento con
l’imprenditoria e ampi settori della vita politica”.
E’ nel settore del prestito usuraio che si è particolarmente realizzata la contiguità della
criminalità con i settori ‘produttivi’. Messina, oggi, si colloca al terzo posto, dopo Napoli e
Roma, tra le province d’Italia più a rischio d’usura. E il capitale d’usura non sarebbe tutto
d’origine mafiosa, ma proverrebbe in parte da soggetti insospettabili, che vedono nel ‘prestito
di denaro’ un investimento redditizio e a basso rischio. Questo sistema illegale ha trovato il suo
migliore terreno di coltura in quei settori caratterizzati dalla gestione clientelare delle aziende
di credito, dalla scarsa professionalità degli imprenditori, dalla recessione, dalla “tendenza del
sistema economico a perseguire la rendita piuttosto che il rischio imprenditoriale”. E’ in questo
contesto sociale perverso, frantumato, deideologizzato, che attecchisce e si sviluppa il sogno-
mito del collegamento stabile tra Scilla e Cariddi.
Una nuova cattedrale per il deserto meridionale
Il polo siderurgico di Gioia Tauro, l’Italsider di Bagnoli e Taranto, i poli chimici siciliani di Gela,
Milazzo, Priolo. Per decenni le grandi concentrazioni industriali altamente inquinanti o le
megainfrastrutture sono state le uniche ricette del ‘modello di sviluppo’ proposto per il
Mezzogiorno. Il Ponte, in linea con il passato, è la panacea offerta alla gente dello Stretto,
chimera “capace di enormi ricadute economiche ed occupazionali e di accelerare la crescita
socioeconomica e l’integrazione delle popolazioni dell’area dello Stretto”. “Quando il manufatto
sarà pronto – ha dichiarato enfaticamente il neoministro delle infrastrutture Pietro Lunardi – si
registrerà una trasformazione del territorio straordinaria sotto i profili urbanistico, economico e
sociale”
(47).
Come rilevato dal CENSIS, la filosofia che sta dietro il progetto del Ponte è la stessa che vede
nella grande opera pubblica la chance privilegiata di riscatto del Mezzogiorno: “Una filosofia
niente affatto nuova, e che ha per lungo tempo guidato la politica degli interventi pubblici nel
Meridione. Una filosofia che ha portato ad una serie di storiche disfatte dello Stato nella
battaglia per lo sviluppo del Sud”. Filosofia, prosegue il CENSIS, dominata da alcune dinamiche
perverse: “la cultura delle inaugurazioni contro quella delle manutenzioni (realizzata l’opera ne
si trascura la gestione); la tendenza al gigantismo a scapito di una diffusione degli interventi;
la tendenza a posizionare le opere sulla base di considerazioni elettorali o assistenziali e non
nel quadro di un progetto organico di sviluppo; la tendenza a considerare l’opera pubblica
come un pretesto per l’erogazione di rendite a più livelli; l’asistematicità dell’intervento;
l’incertezza dei finanziamenti”.
Il Ponte assume così l’aspetto di un’imponente ‘Cattedrale sullo Stretto’, o più correttamente di
un’infrastruttura che accelera il processo di ‘desertificazione’ dei trasporti del sud Italia, dove
restano incomplete le reti autostradali e ferroviarie e insufficiente la viabilità secondaria (specie
in Calabria e Sicilia), e dove si è ancora lontani dal definire un progetto di sistema delle
comunicazioni, che punti al rilancio della rete portuale e del cabotaggio. Il sogno-modello del
Ponte - e non è casuale - si afferma nel momento stesso in cui nell’area dello Stretto è in atto
il progressivo smantellamento del sistema di trasporto pubblico delle ferrovie a favore delle
compagnie private in mano ad imprenditori assistiti, ben protetti dal potere politico locale e
nazionale, strenui oppositori d’ogni politica d’integrazione del sistema dei trasporti da e verso

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la
Sicilia.
I cavalieri neri dello Stretto
L’attraversamento dello Stretto si è così trasformato nel Pozzo di San Patrizio di due potenti
gruppi armatoriali, opportunisticamente consorziatosi: sono essi che guardano con sempre più
interesse alle opere di finanziamento e di realizzazione di una megainfrastruttura tra Scilla e
Cariddi. Da una parte, in Calabria, i Matacena della Caronte S.p.A. (48), con il patriarca
Amedeo senior, passato alla storia dell’Italia repubblicana per essere stato uno dei maggiori
finanziatori della rivolta di Reggio Calabria nel 1970 (49). Dall’altra il gruppo Franza,
comproprietario della Tourist Ferry Boat, la seconda grande impresa che opera tra Messina e
Villa San Giovanni e che nel solo anno 2000 ha fatturato con il trasporto del gommato oltre 60
miliardi di lire (50).
Due società armatoriali che una recente inchiesta della Procura di Messina ha provato essere
state assoggettate per anni al pagamento del pizzo dalla ‘ndrangheta calabrese, in particolare
dal gruppo guidato dal boss di Archi Paolo De Stefano, e dalle cosche messinesi guidate da
Domenico Cavò, Salvatore Pimpo e Mario Marchese. Le dazioni annue sarebbero state di oltre
mezzo miliardo di lire, a cui si sarebbe aggiunta l’assunzione di amici e parenti di uomini
affiliati alle cosche. La Caronte e la Tourist si sarebbero sottoposte silenziosamente al sistema
estorsivo pur di accrescere in piena tranquillità i propri fatturati con il monopolio del trasporto
di auto e tir tra Messina e Villa San Giovanni (51).
Per anni si è creduto che fossero i ‘signori del traghettamento privato’ i rappresentanti locali di
quei “poteri occulti” che si sarebbero opposti alla realizzazione del Ponte sullo Stretto. In realtà
è stato il contrario. Con il Ponte i due gruppi armatoriali hanno tutto da guadagnare, ed in vista
della sua realizzazione sono state riorganizzate società ed holding ed avviate invadenti
strategie di mercato e d’immagine.
La famiglia Matacena, in particolare, ha tentato di entrare direttamente nella gestione delle
opere relative all’attraversamento stabile dello Stretto di Messina, costituendo ad hoc la
Società Ponte d’Archimede (presidente Elio Matacena, figlio di Amedeo senior) e brevettando il
progetto di un ponte sommerso, ancorato ai fondali da una serie di tiranti metallici. Il progetto
di fattibilità tecnica è stato presentato per conto delle società Saipem, Snamprogetti, Spea e
Tecnomare, ha ricevuto cospicui finanziamenti da parte dell’Unione europea ed ha visto il
coinvolgimento del Politecnico di Milano e dell’Università Federico II di Napoli. Tuttavia l’ipotesi
di un ponte semi sommerso è stato scartato dalla Società Stretto di Messina che ha preferito
l’alternativa del ponte sospeso (52).
Ciò non ha significato la resa finale del gruppo armatoriale e attraverso Amedeo Matacena
junior, eletto parlamentare di Forza Italia nel ’94 e nel ’97, è stata intrapresa una battaglia
nelle maggiori sedi istituzionali contro l’ipotesi ‘ponte sospeso’, a difesa del progetto del ‘ponte
d’Archimede’. Amedeo Matacena junior è perfino giunto a scrivere direttamente a Silvio
Berlusconi per chiedere di “approfondire i motivi che hanno sempre privilegiato il progetto
Ponte a scapito di un tunnel collegante lo Stretto” e ad invitare, l’allora ministro dei lavori
pubblici Antonio Di Pietro, a considerare “i progetti relativi al tunnel dello Stretto di Messina
che costano un terzo rispetto al ponte e hanno un impatto ambientale meno dannoso” (53).
Gli interventi dell’ex deputato di Forza Italia non sono stati proficui e presto l’intero partito-
azienda ha preso le distanze non solo dall’ipotesi progettuale del gruppo Matacena, ma perfino
dello stesso Amedeo junior, non ricandidato alle ultime politiche. Hanno certamente pesato in
questa scelta le gravi accuse di contiguità con la criminalità organizzata calabrese di cui è stato

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vittima il politico-imprenditore dello Stretto. Accuse finite al vaglio del tribunale di Reggio
Calabria che nel marzo 2001 ha condannato l’on. Amedeo Matacena junior, a cinque anni e
quattro mesi per associazione mafiosa e voto di scambio con le cosche. Per i giudici, è stata
dimostrata “una perfetta sintonia d’intenti del Matacena sia con le cosche reggine sia con
quelle delle altre aree calabresi di maggior peso criminale, dalla Piana di Gioia Tauro al
cosentino” e la “rilevanza e influenza nella risoluzione di questioni interne alla ‘ndrangheta”.
Nella sentenza di condanna di Amedeo Matacena, i giudici hanno descritto i rapporti “accertati
sin dalla giovinezza” con il boss Paolo De Stefano (54), le “frequentazioni affettuose” con le
famiglie Alvaro e Mammoliti e gli “interventi e l’assistenza” in sede istituzionale e giudiziaria a
favore del clan Rosmini-Serraino (55).
Amicizie
pericolose
Matacena – si legge nel dispositivo di sentenza del Tribunale di Reggio Calabria – era per le
sue qualità familiari ed economiche, ritenuto idoneo a rivestire direttamente cariche pubbliche
elevate per la realizzazione dei propri interessi” (56). In precedenza Amedeo Matacena junior
era stato accusato dal pentito Rocco Nasone di averlo incontrato in occasione delle elezioni
amministrative del 1988 e di aver ricevuto 10 milioni per sostenerlo elettoralmente. Alle
successive elezioni regionali, il Matacena si sarebbe recato frequentemente a Scilla per
incontrare gli affiliati Vincenzo e Pasquale Gaietti; secondo un collaboratore di giustizia di
Sibari, il Matacena avrebbe inoltre partecipato nell’aprile 1992 ad una cena elettorale assieme
ad altri mafiosi in favore del candidato liberale Attilio Bastianini (57).
Stando al collaboratore Pasquale Nucera, affiliato al clan Iamonte di Melito Porto Salvo,
Amedeo Matacena junior, nel settembre 1991, qualche mese prima della campagna elettorale
che avrebbe segnato l’avvento della Seconda repubblica, sarebbe stato tra i partecipanti della
riunione annuale delle famiglie della ‘ndrangheta presso il santuario della Madonna dei Polsi in
Aspromonte. “Era presente – ha dichiarato Nucera - seppure defilato, Matacena junior ‘il
pelato’, appartato con Antonino Mammoliti di Castellace”. Il vertice sarebbe stato di rilevanza
strategica e vi sarebbero intervenuti, tra gli altri, esponenti mafiosi di Canada, Australia, Stati
Uniti e Francia e uno strano personaggio presumibilmente legato ai servizi segreti. Nel corso
della riunione, sempre secondo il Nucera, il boss calabrese Francesco Nirta avrebbe fatto
riferimento all’inizio di una campagna per la conquista del potere politico, grazie ad “uomini
nuovi per formare un partito che sia espressione diretta della criminalità mafiosa da portare al
successo elettorale attraverso una campagna terroristica” (58). Sei mesi più tardi avrebbe
preso il via la lunga stagione delle stragi, gli assassinii dei giudici Falcone e Borsellino prima,
gli attentati a Roma, Firenze e Milano dopo.
"Sulle dichiarazioni dei pentiti contro di lui ci sono riscontri di tutti i generi", ha rilevato il
procuratore di Reggio Calabria Salvatore Boemi. "Il rapporto fra Matacena e la mafia è
organico. Lui mette in contatto imprese e clan e in cambio chiede voti. È riuscito a imporre
come vicepresidente della Provincia uno come Giuseppe Aquila, barista della Caronte e nipote
di Demetrio Rosmini, boss dell'omonimo clan che nella guerra di mafia dei primi anni Novanta
si alleò con lo schieramento Serraino-Condello-Imerti, contro la potente famiglia De Stefano"
(59). La gestione del servizio bar-ristorazione a bordo delle unità navali della Caronte S.p.A.,
presso cui era impiegato l’Aquila, era stato affidato dai Matacena prima a Bruno Campolo e
successivamente al figlio Giuseppe Campolo. Bruno Campolo è stato condannato a otto anni di
reclusione per traffico di droga, ma neanche dopo la condanna "venne a mancare il rapporto di
fiducia con la famiglia Matacena", come segnalano i magistrati reggini che hanno indagato
sull’ex parlamentare di Forza Italia.
Anche al fratello Elio Armando Matacena, presidente della Società Ponte d’Archimede, sono
state contestate relazioni d’affari con personaggi chiacchierati. In particolare egli è stato
titolare del 51% delle azioni della Sogesca, società di cui il restante 49% era nelle mani di
Giancarlo Liberati, esponente locale di Forza Italia e, secondo i magistrati, “uomo della
‘Ndrangheta, legato ai Molè e ai Piromalli di Gioia Tauro” (60). La Sogesca era stata fondata

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con il nome di In.co.tur e lo scopo societario prevedeva la fornitura di servizi navali; poi si era
trasformata in Sogesca per la gestione degli appalti nel settore edile, ottenendo il subappalto
per la costruzione della Scuola allievi carabinieri di Reggio Calabria. Nel 1997 la società fu
dichiarata fallita ma la successiva inchiesta rivelò una serie di presunte irregolarità contabili e
amministrative. A pesare sui bilanci in rosso una lunga serie d’assunzioni per fini clientelari ed
elettorali. Per il fallimento della Sogesca, il giudice del Tribunale di Reggio ha deciso
recentemente il rinvio a giudizio di Elio Armando Matacena, del fratello Amedeo junior e di altri
sei imputati. Un procedimento avviato in stralcio all’inchiesta sulla bancarotta dell’azienda
edile, relativo ad una presunta estorsione ai danni della società Edilmil e che vedeva sotto
accusa l’ex parlamentare di Forza Italia, Giancarlo Liberati e l’ex vicepresidente della Provincia,
Giuseppe Aquila, si è invece concluso con l’assoluzione di tutti gli imputati (61).
L’impero dei Franza
Sono sicuramente state meno esplicite e più coperte le “attenzioni” relative alla realizzazione
del Ponte del secondo gruppo armatoriale dello Stretto, quello con sede nella città di Messina.
Eppure anche la famiglia Franza concorre a partecipare al grande banchetto degli appalti e dei
subappalti.
Meno nazionalmente noti dei ‘soci’ Matacena, i Franza sono a capo di un vero e proprio impero
economico-finanziario, che dal settore del traghettamento privato in Sicilia si estende a quello
industriale, alla cantieristica (62), all’edilizia privata (63) e al settore turistico-alberghiero,
dove grazie alla controllata Framon Hotels, i Franza gestiscono in tutta Italia diciotto alberghi,
con un giro d’affari di 100 miliardi e 600 dipendenti. I Franza hanno creato anche società per la
gestione dei Beni Culturali e dei Servizi multimediali (Tourinternet e Datacom). Tra le proprietà
della famiglia, ci sono immobili per un valore di oltre trenta miliardi e pacchetti azionari della
maggiore emittente radiofonica delle città di Messina e Reggio Calabria (Antenna dello Stretto)
e d’importanti società sportive locali, in particolare del Messina Calcio che milita in serie B
(64).
Insomma, una vera e propria holding, di cui è però la gestione del traghettamento del
gommato l’attività più redditizia. Un vero e proprio moltiplicatore di utili e profitti che
erroneamente si ritiene ‘a rischio’ nel caso in cui entrasse in funzione il Ponte. In realtà la
megainfrastruttura non ha fatto mai paura al gruppo messinese. Nel 1986, quando era in corso
un vero e proprio scontro politico tra le classi dirigenti calabresi e siciliane relativo alla reale
fattibilità dell’opera (65), intervenne pubblicamente a difesa del progetto del Ponte, l’ingegnere
Giuseppe Franza, fondatore dell’omonimo impero finanziario. “Come operatore economico –
dichiarò Franza - ritengo che un’opera così grandiosa aiuti il nostro territorio, risolva il
problema del collegamento con l’altra sponda e crei comunque un così vasto movimento da
rivoluzionare tutta la nostra realtà economica e sociale. Gli effetti positivi si vedranno già
durante la costruzione a parte poi, ad opera ultimata, il beneficio del richiamo turistico e
ambientale nonché l’interesse culturale per un manufatto di alta ingegneria e di tecnica
specializzata”. Nell’occasione l’ingegnere Franza espresse inaspettatamente il proprio dissenso
verso l’ipotesi progettuale sostenuta dal socio Matacena. “Contrario mi ritengo al tunnel che
trovo un congiungimento anomalo, che non potrà mai dare al territorio gli stessi benefici del
ponte sospeso” (66).
Gli farà eco, otto anni più tardi, la consorte Olga Mondello Franza, succeduta alla guida della
holding dopo la morte del fondatore. “Per noi, la costruzione del ponte sarebbe un grande
business. Durante i dieci anni occorrenti alla realizzazione dell’opera il nostro lavoro
aumenterebbe notevolmente. E poi lavoreremmo a pieno ritmo per diversificare l’attività. Per
noi il problema non si pone. Il Ponte sullo Stretto non ci fa paura” (67).

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Le parole non permettono fraintendimenti. Il gruppo Franza, in altre parole, è pronto per
concorrere direttamente alla realizzazione dell’opera, sia per capitalizzare il presumibile
aumento del traffico nello Stretto in concomitanza dei lavori di esecuzione, e sia per ampliare
la quota del proprio mercato quando, a Ponte ultimato, l’alto costo del passaggio attraverso
l’infrastruttura spingerà sempre più automobilisti a scegliere la fedeltà con il traghettamento.
E’ forse casuale che sia stata proprio l’amministratrice della Tourist Olga Franza, a fare da
anfitrione del ministro Pietro Lunardi, durante la sua visita a Messina nell’aprile 2002 ai luoghi
in cui dovrebbe essere realizzato il Ponte sullo Stretto? (68). E come spiegare che tale
disponibilità si sia ripetuta qualche mese dopo durante il sopralluogo tra Scilla e Cariddi del
neopresidente della Stretto di Messina Giuseppe Zamberletti e dell’intero consiglio
d’amministrazione al seguito?
In realtà al grande appuntamento del Ponte, la potente famiglia dello Stretto si è preparata a
dovere, innanzi tutto promuovendo una grande intesa con le maggiori imprese di costruzioni
della provincia di Messina, fondando nel giugno 1997, il Consorzio Costruttori Messinesi per
competere con le maggiori imprese del Nord nel settore delle grandi opere pubbliche in via di
finanziamento nella provincia di Messina e per la gestione di società miste per lo sviluppo dei
servizi pubblici e privati. In realtà il nuovo consorzio appare lo strumento più idoneo per
accrescere il peso dell’imprenditoria locale nella contrattazione diretta degli appalti e dei
subappalti per la realizzazione del grande manufatto (69). Per non dimenticare che attorno al
Ponte dovrebbero sorgere infrastrutture turistico-immobiliari e ‘culturali’, settori dove il Gruppo
Franza non conosce avversari nell’area dello Stretto.
Banche e finanziarie per la cementificazione dello Stretto
Ma è particolarmente nel settore bancario e finanziario, strategico per la reperibilità di parte
dei finanziamenti necessari alla realizzazione del Ponte sullo Stretto, che il gruppo Franza è
intervenuto attivamente e con lungimiranza. Da sempre vicini agli uomini di vertice dei
maggiori istituti presenti nel capoluogo dello Stretto (70), attraverso la Cofimer, cassaforte
finanziaria del gruppo, i Franza hanno acquisito nei primi anni ’90 lo 0,51% del pacchetto
azionario della Banca Commerciale italiana (COMIT), successivamente entrata a far parte del
Gruppo Banca Intesa Bci (71).
Nel 1999 la famiglia Franza ha fatto ingresso nella cordata d’imprenditori siciliani (72) e istituti
di credito del Nord (le banche popolari di Vicenza, Novara e Verona), sorta per concorrere
all’acquisizione di Medio Credito Centrale, e attraverso esso, della controllata Banco di Sicilia.
Un’operazione arenatasi a causa dell’intervento della Banca di Roma che è riuscita a battere la
concorrenza e ad annettersi il prestigioso istituto bancario dell’isola. Il gruppo armatoriale
messinese tuttavia, è riuscito ad inserire un proprio rappresentante (Pietro Franza, figlio
secondogenito dei consorti Giuseppe e Olga Mondello), nel consiglio d’amministrazione della
Banca di Credito Popolare di Siracusa, entrata a far parte del gruppo che fa capo alla Banca
Antoniana Popolare Veneta (73). E’ da rilevare come alla direzione generale dell’Antonveneta e
alla vicepresidenza della Banca Popolare di Siracusa sieda il dottor Silvano Pontello, già
addetto alla presidenza della Banca Privata di Michele Sindona, il finanziere originario della
provincia di Messina che mise a servizio di Cosa Nostra e dei poteri eversivi internazionali il
proprio impero bancario.
Ma il vero colpo nell’universo creditizio, il Gruppo Franza lo ha messo a segno di recente
inserendosi in Consortium, la finanziaria cui aderisce un gruppo d’imprenditori e di banche
italiane e che nel marzo 2001 ha scalato con successo l’impero di Mediobanca, acquisendone il
14,5% del pacchetto azionario. Sono due holding lussemburghesi, la Work and Finance e la
Tourist Internacional, società riconducibili al Gruppo Franza di Messina, a possedere
attualmente il 5% delle quote della Consortium (74). Quest’operazione fa della famiglia
messinese uno dei maggiori centri finanziari del paese. Oggi i Franza operano attivamente sulla
Borsa di Londra grazie alla Sofig Invest (75), e sempre attraverso la Cofimer controllano il

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pacchetto di maggioranza di un’importante società di gestione finanziaria, la Marathon Holding,
con un patrimonio di oltre 150 miliardi di lire (76).
Che il sistema bancario guardi con estrema attenzione all’ipotesi di fattibilità del Ponte non è
un segreto. Nel settembre del 2001, presso il ministero delle infrastrutture diretto da Pietro
Lunardi, si sono tenute le audizioni di una decina di banche nazionali ed estere, interessate a
vagliare la finanziabilità dell’infrastruttura. Tra i principali istituti presentatisi la Banca Opi
(S.Paolo-Imi), la Abn Amro, la Banca Intesa Bci ed Unicredito: come abbiamo visto in Banca
Intesa è confluita la Banca Commerciale di cui è azionista la Cofimer dei Franza, mentre
Unicredito è socia in Consortium-Mediobanca delle holding lussemburghesi degli armatori
messinesi.
C’è infine un’ultima ‘coincidenza’ che conferma la spinta pro-infrastruttura dei maggiori istituti
di credito. Recentemente la Banca Popolare di Lodi ha deliberato lo stanziamento di 500 milioni
di euro di crediti agevolati a favore delle imprese interessate alla costruzione del Ponte di
Messina. La Popolare di Lodi, oggi il nono gruppo bancario d’Italia, ha acquisito ben sette
istituti di credito in Sicilia, tra cui la Banca del Sud di Messina, presieduta dal defunto on.
Giuseppe Merlino, sindaco andreottiano di Messina negli anni ’70, poi deputato all’Assemblea
siciliana e assessore regionale, ritenuto uno dei ‘soci ombra’ del Gruppo armatoriale dei Franza
(77). Vedremo in seguito con quali obiettivi il sistema bancario italiano guarda alla
finanziazione delle opere di realizzazione del Ponte dello Stretto e come siano forti in
quest’ambito gli interessi delle industrie del cemento e quelli delle maggiori società edili
nazionali.
Cap. 3 – La borghesia elettiva del Ponte dello Stretto
Monopolio dell’informazione e partito del cemento
Pur essendo rimasto ancorato alla fase preprogettuale, la megainfrastruttura per
l’attraversamento dello Stretto ha già causato i primi dissesti sul tessuto sociale di Messina. Il
modello-ponte ha favorito tra le forze politiche e culturali, tra gli imprenditori e la collettività,
un preoccupante atteggiamento di passività, la mancanza di fantasia e di ricerca di uno
sviluppo soft, autocentrato ed ecocompatibile, il disimpegno istituzionale a reperire
finanziamenti per progetti alternativi, l’assoggettamento al sistema politico-clientelare
dominante portavoce dell’istanza progettuale.
La scelta consociativa del Ponte che a Messina vede uniti da Alleanza Nazionale ai Democratici
di Sinistra (78), i sindacati, le forze economiche e cultural-educative, l’Ateneo universitario, i
club service, finanche i massimi vertici della Chiesa locale - con la sola esclusione e
conseguente marginalizzazione e criminalizzazione dei circoli di Verdi e Rifondazione
Comunista - ha reso impossibile la dialettica democratica sul futuro della città. Il ‘ponte
immaginato’ è causa e conseguenza stessa della crisi di democrazia a Messina.
Assai raramente i mass-media hanno dato voce a chi ha espresso pareri scientifici
controtendenza e manifestato dissenso e perplessità sulle compatibilità socioambientali
dell’opera, sulla sua fattibilità sia dal punto di vista tecnologico che sulle possibilità di
reperimento degli ingenti finanziamenti necessari, e sulla dubbia vocazione occupazionale del

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manufatto (79). La campagna stampa ossessiva del maggiore organo d’informazione di
Messina e della Calabria, la Gazzetta del Sud, ha impedito il confronto tra le parti, ha
avvelenato le competizioni elettorali, ha irresponsabilmente mistificato dati ed informazioni e
demonizzato gli avversari.
“Preoccupata di smussare ogni angolo, generando oggettivamente una sorta di assuefazione
verso i drammi regionali - scrive il sociologo Fulvio Mazza in un volume sul ruolo dell’editoria
nel Mezzogiorno - la Gazzetta del Sud ha avuto un ruolo determinante di costruzione del
consenso pro-infrastruttura e di cloroformizzazione delle coscienze e dei vissuti,
disincentivando l’impegno sociale e politico delle collettività e dunque contribuendo al clima
generale di apatia e insofferenza”. E’ stato “il giornale dei notabili che tarpa le ali a quel poco
di società civile calabrese che esiste e che tenta di decollare” aggiunge Fulvio Mazza. “Da
‘giornale-ponte’ tra la Sicilia e la Calabria, è diventato il ‘giornale del Ponte’, sponsorizzando
qualsiasi iniziativa e qualsiasi politico (dalla destra ai diessini di governo) favorevoli alla
realizzazione del Ponte sullo Stretto di Messina” (80).
L’interventismo dell’organo di stampa a favore della megainfrastruttura dello Stretto ha ragioni
antiche, risponde ad interessi economici profondi neanche tanto dissimulati. Un’azione di
‘intossicazione dell’informazione’ esercitata in pieno regime di monopolio anche grazie alla fitta
rete di compartecipazioni che legano la società editoriale della Gazzetta del Sud a quelle dei
quotidiani ‘cugini’ dell’isola, detentori a loro volta della proprietà di quasi tutte le maggiori
emittenti televisive siciliane. Nei fatti non esiste testata nel sud Italia che non intrecci i propri
azionisti con quelli del ‘giornale del Ponte’ e se poi si pensa agli accordi di mercato per la
coproduzione delle pagine di politica interna ed estera con i quotidiani del Gruppo Monti (La
Nazione di Firenze, Il Resto del Carlino di Bologna, Il Giorno di Milano) o a quelli per la stampa
presso le industrie tipografiche siciliane dei maggiori quotidiani nazionali, possiamo affermare
che la forza monopolistica della società editoriale che sta dietro la Gazzetta del Sud è
invadente quasi quanto l’’anomalia’ italiana rappresentata dal gruppo politico-economico di
Mediaset. Basterà un’occhiata alla proprietà e agli uomini che siedono nel consiglio
d’amministrazione della Gazzetta per comprendere come mai il quotidiano e i suoi soci-alleati
della carta stampata si siano caratterizzati per il furore nella crociata a favore di quattro
immense torri ed una lunga campata di cemento armato ed acciaio che sconvolgeranno il
paesaggio dello Stretto (81).
Nino Calarco l’Uomo del Ponte
A simbolizzare il ruolo della Gazzetta del Sud di portavoce ideologico del ‘partito del Ponte’ c’è
la figura del suo più che trentennale direttore Nino Calarco, sino al dicembre dello scorso anno
presidente della Società Stretto di Messina (82). La sua nomina ai vertici della società cui è
stata affidata la progettazione della megainfrastruttura, risale all’estate del 1990, con decreto
dell’allora presidente del consiglio Giulio Andreotti, persona a cui Calarco è rimasto
particolarmente legato, al punto da invitarlo, insieme all’ex presidente della Repubblica
Francesco Cossiga, ad un importante appuntamento pubblico a Messina nella primavera del
1997
(83).
Nino Calarco non ha mai nascosto le tendenze politiche ultramoderate ed ha ricoperto per una
legislatura il ruolo di senatore della repubblica, dal 1979 al 1983, nelle file della Democrazia
Cristiana (84). E’ la stessa ala moderata del partito a volerlo tra i propri membri nella
costituenda Commissione parlamentare d’inchiesta sulla P2, presidente un’altra DC, l’on. Tina
Anselmi. Eppure il quotidiano diretto da Calarco si era caratterizzato fino allora per numerosi
articoli contro i giudici che indagavano sulla superloggia di Licio Gelli definiti "filocomunisti", e
di cui s’ipotizzava la partecipazione ad un ipotetico 'complotto'.

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Nonostante la scoperta delle liste della P2, il quotidiano siciliano continuerà a pregiarsi dei
fondi e degli editoriali di alcuni giornalisti risultati affiliati, in particolare di Alberto Sensini, già
capo dell'ufficio romano del Corriere della Sera, poi direttore della Nazione (85), dell’ex
parlamentare socialdemocratico Costantino Belluscio (86) e di Gustavo Selva (tessera P2 n.
1814), già direttore del Gr2 Rai, poi europarlamentare DC, oggi senatore di AN.
Nino Calarco dovette lasciare l’incarico in Commissione parlamentare a seguito dell’inaspettata
non rielezione al Senato, nel 1983. Sette anni più tardi però, l’establishment governativo della
prima Repubblica gli offrì la presidenza alla Stretto di Messina, società costituita nel 1981 dal
Gruppo Iri-Italstat, dalle Ferrovie dello Stato, dall’ANAS e dalle Regioni Calabria e Sicilia (87).
Calarco subentrò ad un altro ex parlamentare democristiano messinese, l’on. Oscar Andò,
padre dell’allora sindaco di Messina Antonino Andò; vicepresidente fu nominato Gianfranco
Gilardini, in passato manager del gruppo finanziario Agnelli-Fiat, mentre ad amministratore
delegato della Stretto di Messina fu insediato il dottor Baldo de Rossi (Italstat).
L'essere stato abbastanza critico a riguardo di certi atteggiamenti della società non addebitabili
all'on. Andò e non solo attraverso il giornale che dirigo (...), ma soprattutto attraverso i miei
interventi esterni in dibattiti, tavole rotonde, conferenze internazionali, avr forse sensibilmente
contribuito a convincere l'on. Andreotti ad accogliere la proposta in tal senso delle forze
politiche siciliane e calabresi, con la neutralità delle opposizioni. E' la spiegazione che Nino
Calarco ha dato delle motivazioni della scelta fatta a suo favore dall'esecutivo. Alla fin fine, si
saranno detti, scegliamo uno che ci far conoscere correttamente i momenti progettuali. Infatti,
oltre a dover rispondere al potere politico, Calarco dovr farlo nei confronti dei lettori della
Gazzetta. E i lettori, si sa, giudicano un direttore giorno per giorno. Uno che, per professione,
non è mai incline, come ogni giornalista, a tenersi niente nel cassetto...” (88).
Né Calarco, né le forze politiche di maggioranza e d'opposizione hanno avuto mai dubbi
sull'opportunit che il Presidente della Stretto di Messina abbia continuato a mantenere
contestualmente la carica di direttore della Gazzetta del Sud, anzi questo è stato presentato
come elemento di trasparenza pubblica e di modello per raccogliere le tendenze di giudizio dei
lettori-cittadini-futuri utenti del Ponte. Peccato che il sistema abbia funzionato più da fabbrica
del consenso che da supervisore dei consensi-dissensi sull’operato della Società e sulla valenza
dell’iter
progettuale.
Ciò non ha impedito al presidente-direttore Nino Calarco di assumere ulteriori incarichi che ne
hanno rafforzato il ruolo di ‘uomo del Ponte’, cementificando gli interessi del gruppo editoriale
attorno all’infrastruttura. Egli è stato prima nominato direttore della Rtp-Radio Televisione
Peloritana, maggiore emittente televisiva dell’area dello Stretto, e poi presidente della
Fondazione Bonino-Pulejo, azionista di maggioranza della SES-Società Editrice Siciliana,
comproprietaria della Gazzetta del Sud e delle due reti televisive della Rtp (89). Con il risultato
che oltre a poter giudicare da sé il proprio operato e quello della Stretto di Messina, Nino
Calarco e il gruppo imprenditoriale a capo delle sue testate, hanno potuto estendere il potere
lobbista a favore del mostro di cemento tra il mitico Stretto di Scilla e Cariddi.
La fabbrica del consenso
C’è una vicenda che è emblematica del potere di pressione politica che è stato esercitato in
regime monopolistico dagli uomini della Gazzetta del Sud a favore del Ponte e della Società che
lo ha progettato, nonostante il quotidiano - nelle intenzioni di Calarco - avrebbe dovuto essere
l’organo ‘neutrale’ per far “conoscere correttamente i momenti progettuali”. La vicenda è
emersa in occasione di un’indagine della Procura di Reggio Calabria su un presunto caso di
malasanità che nell’anno 2000 ha visto coinvolti il direttore generale dell’Asl, l’assessore
regionale alla sanità, alcuni politici di vertice del centrosinistra e perfino gli affiliati alla potente

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cosca di Mario Audino (90).
Secondo l’accusa, a fare da “mediatore” tra i differenti protagonisti dell’affare, il noto
giornalista Paolo Pollichieni, responsabile della redazione reggina della Gazzetta del Sud: per
gli inquirenti era “capace di scatenare campagne di stampa a comando e di condizionare le
decisioni della giunta regionale”. Il giornalista sarebbe stato in stretto contatto con
l’imprenditore Giovanni Minniti, sospettato di collusioni con la criminalità organizzata,
amministratore unico della EdiIminniti, società vincitrice di appalti per decine di miliardi
accanto alla CMC - Cooperativa Muratori Cementisti di Ravenna. I contatti di Pollichieni,
ritenuto la memoria storica di tutti i fatti di cronaca nera della regione, si estendevano ai
maggiori palazzi del potere nazionale, compresi ministeri e l’Alto comando dei Carabinieri (91).
Intercettando le telefonate di Pollichieni, i giudici di Reggio scoprono le frequenti chiamate ad
uno dei massimi esponenti della politica nazionale,
l'allora sottosegretario alla presidenza del Consiglio Marco Minniti, successivamente passato al
ministero della difesa (92). Il politico diessino è tra i maggiori sostenitori della realizzazione del
Ponte di Messina, e proprio di ponte e Società dello Stretto, gli investigatori gli sentiranno
parlare con Pollichieni in più di un’occasione. Durante un incontro a Scilla il 30 luglio 1999 tra il
sottosegretario e il redattore della Gazzetta del Sud, quest’ultimo telefona con un cellulare al
proprio direttore-presidente Nino Calarco. “La chiamo oggi perché sono qui con Marco e la
voleva salutare”. Il cellulare viene poi passato al politico diessino. Calarco e Minniti parlano di
politica e dell'ex presidente Francesco Cossiga, infine il direttore si rivolge per chiedere un
favore: “Senti una cosa... l'unica potenza che tu non riesci a esplicare... con questi maledetti
burocrati del ministero dei Lavori pubblici... ancora questo decreto del bando non c'è!”.
L’argomento in questione riguarda un bando per il finanziamento della Società Stretto di
Messina, che Nino Calarco vorrebbe che fosse acquisita dall’ANAS. Della questione il direttore
dice di averne parlato direttamente con il Presidente del consiglio Giuliano Amato. “E Con
Giuliano Amato come è andata?” gli chiede Marco Minniti. “Favoloso, favoloso” gli risponde
Calarco. “Però il problema caro Marco è che bisogna trovare nella Finanziaria un po' di spiccioli
perché io debbo chiudere la società perché non ho più una lira! ... Non è che è una grossa
cifra... 4... 5 miliardi... “.
Una decina di giorni più tardi Pollichieni e Minniti si rincontrano per chiamare nuovamente il
direttore Calarco. Quest’ultimo ritorna sul tema del finanziamento della Stretto di Messina:
“Marco, ti volevo segnalare due cose... primo che in questa Finanziaria... qualche cosa la
dovete inserire... L'altro è che Bargone rema contro... ancora... dice che è andato da
D'Alema... a dire... ma quale, il ponte sullo Stretto!”. Minniti interrompe per rassicurare il
presidente: “Ho capito va boh... adesso vedo io...” (93).
“L'interessamento richiestomi, che io ritengo legittimo nella sostanza, non nella forma – ha
spiegato Marco Minniti - era finalizzato alla concessione di fondi per il pagamento degli
advisor”. “Devo precisare - ha poi aggiunto - che lo stanziamento dei fondi era stato
autonomamente previsto dal ministero del Tesoro proprio per il pagamento degli advisor”.
Minniti cioè, conferma di essere intervenuto istituzionalmente per perorare la causa del
presidente Calarco, anche se però la decisione di pagare le parcelle ai consulenti per la
progettazione sarebbe stata presa ‘autonomanente’ dall’esecutivo. “Non mi sono più
interessato della questione Ponte sullo Stretto di Messina – ha concluso - ma ritengo che con
l'approvazione della Legge finanziaria sia stato concesso il finanziamento necessario al
pagamento degli advisor” (94).

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La pubblicazione sul settimanale Panorama degli stralci delle telefonate tra il giornalista
Pollichieni, il direttore Calarco e il sottosegretario Minniti e le implicite conferme dell’azione di
lobbing sul governo degli uomini della Gazzetta del Sud non sono stati sufficienti a sollevare in
sede parlamentare l’evidente conflitto di interessi del presidente della Stretto di Messina.
Diversamente è successo due mesi più tardi, quando nel corso di un’intervista ai giornalisti Rai
di ‘Sciuscià’, il sen. Calarco, nel rispondere sulla possibilità d’infiltrazione criminale nella
realizzazione del Ponte arrivava a dichiarare: “ Se la mafia fosse in grado di costruire il Ponte,
benvenuta la mafia”.
Il Ponte prima di tutto, perfino al di là dei confini della legalità e dei comuni valori di giustizia.
Stavolta insorsero i parlamentari di Verdi e Rifondazione e alcuni Democratici di Sinistra e
furono chieste le dimissioni di Nino Calarco dalla carica di presidente della Stretto di Messina. Il
conflitto però durò appena qualche giorno. Il governo decise di non revocare l’incarico e
Calarco rifiutò di dimettersi limitandosi a dichiarare all’Ansa di essersi “pentito di aver detto e
fatto registrare quella frase” pur respingendo “con fermezza, la interpretazione capziosa e
strumentale che ne è stata fatta”. “Se gli onorevoli interroganti non sono riusciti a percepire il
senso della mia provocatoria affermazione – aggiunse - significa che abbiamo raggiunto il
massimo dell'incultura. Non mi resta che ripetere la famosa frase di Aldo Moro ‘ma quanto
sono noiosi’” (95).
Il Calarco pernsiero sul possibile rapporto mafia-Ponte è certamente più che singolare e lo
dimostra quanto affermato in occasione di un recente Festival dell’Unità a Messina (ottobre
1999). “Il ponte è stato contrastato dai ‘poteri forti’ – ha denunciato il direttore della Gazzetta
del Sud, pur astenendosi dallo specificare chi e come si nasconderebbe dietro questi ‘poteri’.
“Anche la mafia non vuole il Ponte e non vuole controlli sullo Stretto, come dimostrano i
venticinque anni che non sono bastati per attivare il sistema radar Vts che farebbe scoprire
tutti i traffici illeciti che vi si consumano, a partire dal contrabbando” (96). Per Calarco in
pratica, la criminalità organizzata ha tutto da perdere con la realizzazione della
megainfrastruttura. La militarizzazione del territorio che ne deriverebbe, impedirebbe la
realizzazione dei traffici che si realizzano nello Stretto. Peccato che di questi traffici la Gazzetta
del Sud non sia mai stata prodiga d’inchieste e di denunce.
La Fondazione, il Ponte ed altro ancora
Nino Calarco oltre ad aver ricoperto contestualmente il ruolo di direttore delle maggiori testate
giornalistiche e televisive dell’area dello Stretto, presiede la Fondazione Bonino-Pulejo,
espressione di uno dei più agguerriti gruppi politico-economico-imprenditoriali locali che ha
convertito le proprie attività ‘benefiche’ a strumento di propaganda a favore della fattibilità
dell’”ottava meraviglia del mondo”, il Ponte sullo Stretto di Messina.
La Fondazione prende il nome dai coniugi Uberto Bonino e Maria Sofia Pulejo, entrambi
scomparsi, fondatori della Società Editrice Siciliana e della controllata Gazzetta del Sud. Una
rapida occhiata alla biografia del cavaliere-industriale Uberto Bonino per comprenderne
l’importanza nella recente storia del capoluogo dello Stretto. Figlio di un ammiraglio della Regia
Marina, Bonino acquisì un ingente patrimonio finanziario grazie alla produzione e alla
distribuzione della farina per conto del Comando Alleato sbarcato in Sicilia nel 1943, le stesse
attività che consentirono ad un oscuro avvocato di provincia, Michele Sindona, a sperimentare
le proprie doti affaristiche.
Alla fine della seconda guerra mondiale, Uberto Bonino fece ingresso in politica, fondando a
Messina il partito liberale con il massone Gaetano Martino, futuro ministro degli esteri (97).
Bonino venne eletto con il PLI nella costituente del 1946; poi fu riconfermato alle politiche del
1948. Transitato nelle file del partito monarchico, venne rieletto alle tornate del ’55 e del ’58.

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Dopo un breve ritiro dalla vita politica attiva, Bonino si ricandidò con successo nel ’72 con l’MSI
alle elezioni per il rinnovo del Senato (98). L’attività politica si alternò con quella di
imprenditore e di filantropo; dopo una presidenza ventennale della Banca di Messina, istituto di
cui Bonino ha detenuto un pacchetto di minoranza sino all’avvento di Michele Sindona (99), il
cavaliere fondò la SES - Società Editrice Siciliana e nel 1973 l’omonima Fondazione, che nei
disegni del senatore-editore doveva trasformarsi innanzi tutto nel centro propulsore delle
attività didattiche e di ricerca dell’Università di Messina.
Oggi, la Fondazione Bonino-Pulejo è la principale entità finanziatrice delle attività didattiche e
di ricerca dell’Università e di quelle culturali dell’Opera universitaria (100). Vengono finanziate
borse di studio, specializzazioni, ricerche, seminari e corsi di laurea brevi; la Fondazione ha
istituito persino un Centro per il trattamento dei neurolesi in consorzio con l’Ateneo di Messina
e la locale facoltà di Medicina. Per sottolineare il grado di coesione esistente tra la grande
impresa editoriale meridionale e l’università, lo statuto della Fondazione prevede la presenza di
diritto nel proprio consiglio d’amministrazione dei Rettori vecchi e nuovi dell’Ateneo e
dell’amministratore della SES-Società Editrice Siciliana (101).
L’occupazione dell’Università da parte della Fondazione è un processo che è proseguito anche
in questi ultimi anni segnati dal “rinnovamento nella legalità” voluto dal nuovo rettore Gaetano
Silvestri, dopo lo scoppio del ‘caso Messina’ e della scoperta del dominio dell’Ateneo da parte
delle cosche di ‘ndrangheta. Di questo bisogna dare atto alle capacità di coinvolgimento
trasversale del direttore-presidente. E’ innegabile che con la guida assunta da Nino Calarco, la
Fondazione Bonino Pulejo è riuscita ad allineare fedelmente docenti e ricercatori al grande
‘partito del Ponte’, con la conseguenza che l’Università di Messina è mancata ai suoi doveri
istituzionali di analisi sui possibili impatti socio-ambientali, e peggio, nella ricerca di strategie
alternative di sviluppo economiche per l’area dello Stretto.
Troppo spesso, così, uno dei maggiori atenei del Mezzogiorno ha legato la propria immagine al
sogno progettuale della megainfrastruttura. Nel settembre del 1994, ad esempio, le Università
di Messina e Reggio Calabria insieme alla Fondazione Bonino Pulejo e al Consorzio dell’Istituto
Superiore dei Trasporti di Reggio Calabria hanno organizzato un convegno internazionale sui
trasporti nell’area dello Stretto in cui i relatori, tutti, si sono detti favorevoli alla realizzazione
del Ponte. Significativamente a concludere i lavori, è stato chiamato il direttore della Gazzetta
e presidente della Società Stretto
di
Messina
Nino
Calarco.
Otto anni più tardi, in piena campagna di rilancio delle Grandi Opere e dell’ipotesi progettuale
del Ponte, la Fondazione è scesa in campo accanto alle Università dello Stretto e al ministero
dell’Istruzione, finanziando l’indagine del Consorzio interuniversitario Almalaurea sulla
‘condizione occupazionale dei laureati’. L’appuntamento scientifico si è trasformato in una
tribuna del presidente Calarco per richiamare attorno al Ponte “l’attenzione delle facoltà di
Ingegneria di Messina e di Reggio Calabria” e quella degli studenti e dei neolaureati ingegneri a
cui l’infrastruttura potrà fornire “centinaia” di posti di lavoro (102).
In realtà le due facoltà di ingegneria dello Stretto si sono particolarmente distinte
nell’organizzare importanti meeting ‘scientifici’ a sostegno degli elementi tecnico-strutturali del
megaprogetto. E più dell’improbabile sbocco occupazionale per i propri laureati esse sperano di
ottenere un riconoscimento diretto e concreto dal Ponte: il professore Aurelio Misiti, assessore
regionale della Calabria e presidente del Consiglio superiore dei Lavori Pubblici, uno dei
maggiori sostenitori dell’infrastruttura, ha già promesso la realizzazione a Reggio della ‘Galleria
del vento’ e a Messina della facoltà di Scienze dei materiali (103).

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Consiglieri e consigliori dell’azienda di beneficenza
Che la Bonino-Pulejo si sia trasformata nel tempo nella Fondazione del Ponte ne è prova la
mutua relazione che è intercorsa tra alcuni dei suoi maggiori rappresentanti e i consigli
d’amministrazione della Società Stretto di Messina. Il caso di condivisione di cariche e ruoli
dell’on. Nino Calarco non è stato, infatti, l’unico. Con lui fu nominato dal governo Andreotti,
membro del C.d.A. della società pubblica, l’ex parlamentare democristiano calabrese
Sebastiano Vincelli, che sino alla sua recente scomparsa, ha fatto parte del consiglio
d’amministrazione della SES e della Fondazione Bonino-Pulejo.
Vincelli è stato sottosegretario ai trasporti dal 1969 al 1974, gli anni della realizzazione
dell’autostrada Salerno-Reggio Calabria, opera che secondo lo storico Enzo Ciconte, fu “la
grossa occasione colta dalle ‘ndrine calabresi per inserirsi nei lavori di costruzione, per imporre
una propria presenza e, in definitiva, per accrescere le proprie possibilità economiche oltre che
per affermare, in modo clamoroso e pubblico, la propria forza e il proprio potere” (104). Fino
agli anni ’80, segretario particolare di Sebastiano Vincelli è stato Vincenzo Cafari,
pluripregiudicato per reati contro il patrimonio, definito “uno dei punti di riferimento” dei clan
‘ndranghetisti degli Avignone, dei Piromalli e dei De Stefano. Il senatore Sebastiano Vincelli,
insieme al suo stretto collaboratore, l’on. Lodovico Ligato, il presidente delle Ferrovie dello
Stato trucidato dalla ‘ndrangheta, compare tra i politici indicati dal collaboratore di giustizia
Giacomo Lauro come appartenenti ad una superloggia massonica coperta di Reggio Calabria
(105)
C’è un altro discusso politico calabrese che ha contestualmente legato il proprio nome alla
Fondazione Bonino-Pulejo e alla battaglia per la realizzazione del Ponte di Messina. Si tratta del
più volte sindaco di Palmi Armando Veneto, già DC, poi PPI, oggi Margherita, editorialista della
Gazzetta del Sud e patron del ‘Premio Città di Palmi’, finanziato dal 1995 dalla Fondazione
presieduta da Nino Calarco. Di Armando Veneto è nota l’attività di lobbista del Ponte; in
particolare ha promosso in Parlamento l’ordine del giorno che ha sbloccato i finanziamenti per
l’ultima fase della progettazione affidata alla Società Stretto di Messina.
Sul sindaco-parlamentare si sono soffermati i giudici di Reggio nella loro ordinanza
sull’Operazione Olimpia: “Altrettanto memorabile fu il funerale di Girolamo Piromalli nel
febbraio del 1979. Assolutamente incuranti della presenza dei fotografi (delle forze dell’ordine)
capi bastone ed affiliati di tutte le consorterie calabresi resero l’estremo e doveroso omaggio al
capo ormai privo di vita. A ringraziare in nome del casato Piromalli la moltitudine mafiosa
presente intervenne in conclusione l’avvocato Armando Veneto noto professionista del foro di
Palmi”
(106).
Se per Vincelli non è stata provata l’affiliazione alla massoneria, differente il discorso per alcuni
dei consiglieri d’amministrazione del gruppo Fondazione Bonino-Pulejo-Gazzetta del Sud.
Consigliere del Centro Neurolesi e della Gazzetta del Sud-Calabria S.p.A. è stato sino alla sua
recentissima scomparsa, Vittorio Causarano, affiliato alla loggia massonica ‘Libertà’ del Grande
Oriente d’Italia. Vittorio Causarano ha ricoperto per decenni l’incarico di dirigente per la Sicilia
e la Calabria della Publikompass S.p.A., la maggiore società pubblicitaria italiana,
concessionaria della Gazzetta. Fratello di Francesco Causarano, viceredattore capo della Rai, in
vita l’ex dirigente della Publikompass è stato intimo amico dell’ex direttore del Tg 1 Nuccio
Fava e di Eugenio Rendo, imprenditore della nota famiglia di costruttori-imprenditori catanesi.
Nel collegio sindacale della SES e della Gazzetta del Sud-Calabria S.p.A. compare anche il
nome del commercialista messinese Salvatore Cacace, anch’egli massone del Grande Oriente
d’Italia, dalle forti simpatie politiche per Forza Italia (107). Cacace è stato recentemente
rinviato a giudizio nell’ambito dell’inchiesta sulla bancarotta della società S.p.i.d.a. -
Costruzioni generali S.p.A., di cui era titolare il costruttore Cesare D'Amico. Secondo l'accusa,

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la S.p.i.d.a. avrebbe venduto una serie d’appartamenti distraendoli dall'asse fallimentare e
quindi recando pregiudizio ai creditori (108).
I Signori del cemento
Se la Bonino-Pulejo può essere definita a ragione la Fondazione del Ponte, altrettanto forti
sono le spinte pro-infrastruttura degli azionisti di minoranza della SES, editrice della Gazzetta
del Sud, diretta dal presidente onorario della Società Stretto di Messina. Una cospicua quota
del pacchetto azionario della società editrice è in mano, infatti, al padrone del quotidiano
catanese La Sicilia, Mario Ciancio, il potente imprenditore già presidente delle Federazione
Nazionale degli Editori Italiani ed azionista del terzo grande quotidiano dell’isola, il Giornale di
Sicilia di Palermo. Poco conosciuto è l’attivismo degli editori ‘cugini’ nel settore
dell’informazione meridionale e d’oltreadriatico. Nel 1997, ad esempio, la SES in cordata con
La Sicilia, ha acquisito il controllo della Edisud di Bari che pubblica la Gazzetta del Mezzogiorno
e, in Albania, la Gazeta Squiptare. Il segno evidente di un interesse ad essere presenti nelle
aree a maggiore previsione d’investimento infrastrutturale e d’intervento dei contributi europei
‘per lo sviluppo’.
Ma è tuttavia la presenza tra gli azionisti della SES del maggiore produttore mondiale di
cemento a supportare la tesi di un uso strumentale dell’editoria meridionale per la
mobilitazione delle coscienze collettive a favore della realizzazione di inutili e devastanti
megainfrastrutture ad alta intensità di capitali pubblici. Il 18% circa del pacchetto azionario
della società editrice della Gazzetta del Sud appartiene infatti al Gruppo industriale Pesenti,
che oltre a dominare il mercato internazionale dei materiali di costruzione vanta enormi
interessi nel settore immobiliare, dell’acciaio e dell’editoria. Oggi uno dei Pesenti, Carlo, siede
in nome del gruppo industriale alla vicepresidenza della SES, mentre l’editore Mario Ciancio è
membro del consiglio di amministrazione (109).
Per diretta ammissione di Uberto Bonino, l’ingresso nella seconda metà degli anni ‘70 della
famiglia Pesenti nel quotidiano messinese è ascrivibile proprio all’interesse del gruppo di
inserirsi direttamente nella progettazione e nella realizzazione del Ponte sullo Stretto. “Pesenti
entrò nella SES, nel 1976, ed io gli ho dato una quota della Gazzetta, il 33%” ha raccontato il
sen. Uberto Bonino in un’intervista ad un settimanale messinese. “Lui era un industriale
dell’acciaio e del cemento e si era illuso che la questione del ponte sullo Stretto fosse una cosa
seria. Quindi credeva di avere degli interessi in questa zona. Ma una cosa seria il ponte non lo
è mai stata” (110). Una conclusione amara, ma i tempi erano diversi, e oggi finalmente,
potrebbe essere premiata la lungimiranza di uno dei più grandi signori del cemento.
In realtà gli interessi in Sicilia del gruppo Pesenti erano fortissimi da tempo, come lo erano i
legami con i potentati economici e le classi politiche locali. Ventidue anni prima dell’ingresso
nel quotidiano di Messina, Carlo Pesenti era riuscito a strappare dall’allora assessore regionale
alle finanze Giuseppe La Loggia una nuova legge per l'industrializzazione della Sicilia che
estendeva alle grandi imprese del Nord onerose agevolazioni e congrue esenzioni fiscali (111).
L’Italmobiliare della famiglia Pesenti, insieme ai giganti italiani della chimica Edison e
Montecatini, ottenne dagli istituti regionali, finanziamenti per ventidue miliardi, la metà di
quanto venne investito dai tre gruppi nell’isola (112). In pochi anni l’Italmobiliare acquisì in
Sicilia la titolarità delle Cementerie siciliane con i rispettivi impianti di Villafranca Tirrena (Me),
Catania, Porto Empedocle (Ag) e Isola delle Femmine (Pa). Con le scelte del Gruppo di
trasferire nel Sud del mondo i propri maggiori complessi produttivi, il settore industriale
cementizio è entrato fortemente in crisi in Sicilia e molti degli impianti sono stati chiusi e
dismessi. L’ipotesi della realizzazione del Ponte e di altre Grandi Opere potrebbe vedere però il
rilancio degli investimenti nell’isola. Il dinamismo mostrato recentemente dal Gruppo nel
mercato finanziario può essere interpretato come più di un segnale in questa direzione.

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Dalle cave dellisola al sacco di Palermo
Il gruppo Pesenti è alla guida dell’Italmobiliare S.p.a. di Milano, società leader nel settore della
finanziazione immobiliare. Presidente dell’Italmobiliare è Giampiero Pesenti, mentre sono
membri del consiglio d’amministrazione il figlio Carlo, Livio Strazzera per la Serfis - società
finanziaria e immobiliare proprietaria del 10,61% del pacchetto azionario dell’Italmobiliare -
Giorgio Bonomi, Luca Minoli e Mario Bini. Dell’Italmobiliare sono soci di minoranza Mediobanca,
la SAI, feudo del chiacchierato costruttore siciliano Salvatore Ligresti, e l’Alleanza
Assicurazioni, società appena scalata dallo stesso Ligresti. (113).
La società di Milano controlla a sua volta il 56,6% delle azioni dell’Italcementi S.p.A., un
fatturato di oltre 4.000 milioni di euro e una presenza in quindici paesi con oltre 19.000
dipendenti (114). I Pesenti hanno deciso altresì di espandere le proprie attività sui mercati
internazionali mantenendo concentrato l’interesse sul mercato delle costruzioni e “cercando
una integrazione verticale dal cemento, al calcestruzzo preconfezionato, ai materiali da
costruzione e ai componenti aggiuntivi”. Anche in questo settore, grazie alla controllata
Italcalcestruzzi, i Pesenti hanno ottenuto la leadership per quota di mercato, fatturato e centri
produttivi. Nel 1997 l’Italcalcestruzzi ha interamente acquisito la Calcestruzzi S.p.A., società
appartenuta al Gruppo Ferruzzi di Ravenna e di cui era stato manager, sino alla sua morte nel
luglio 1993, Raul Gardini, uno dei principali protagonisti dell’inchiesta sulle tangenti Enimont,
l’effimera joint venture creta da ENI, Montedison e Gruppo Ferruzzi (115). Altro manager alla
guida della Calcestruzzi, è stato Lorenzo Panzavolta, tra i maggiori protagonisti della prima
Mani Pulite, arrestato nel 1992 per le tangenti versate dalla società dei Ferruzzi per assicurarsi
una parte degli appalti per la desolforazione delle centrali ENEL.
Con la Calcestruzzi S.p.A., l’holding industriale-finanziaria lombarda rafforza la propria
presenza in Sicilia, dove però dovrà confrontarsi con le distorsioni e le dinamiche sviluppate
dalla società di materiali edili negli anni della gestione Ferruzzi-Gardini. Nell’isola, infatti, nei
primi anni ’80, la Calcestruzzi S.p.A. ha firmato un patto scellerato con Cosa Nostra,
acquisendo il controllo delle maggiori cave siciliane e scegliendo di operare congiuntamente
con le società di produzione di materiale per l’edilizia in mano alla famiglia Buscemi dello
storico mandamento di mafia di Brancaccio.
Più che una scesa a patti con i poteri criminali, l’interscambio tra la grande impresa del Nord e
le piccole società in odor di mafia, ha risposto ad una precisa scelta di mercato del
management per acquisire il pieno controllo del settore. Nessun assoggettamento pertanto, ma
una consapevole strategia da cui ne è uscito rafforzato il blocco di potere imprenditoriale-
politico-mafioso. Una mutazione dell’impresa, insomma, più rispondente alla globalizzazione
dei mercati e dell’economia. Riferendosi ai rapporti tra il manager Raul Gardini e Cosa Nostra,
Giovanni Brusca ha così dichiarato: “Una quota dei grandi appalti era previsto fosse affidata
alle imprese direttamente riconducibili a Cosa Nostra, come il Gruppo Ferruzzi, facente capo ai
Buscemi di Passo di Rigano. (...) I Buscemi si tenevano in mano questo gruppo
imprenditoriale, in maniera molto forte”. E il collaboratore Angello Siino ha aggiunto che “il
Gruppo Ferruzzi, facente capo a Raul Gardini e, dopo la sua morte, all’ingegnere Giovanni Bini
e Lorenzo Panzavolta, si era avvalso della protezione mafiosa dei Buscemi, i quali, a loro volta,
in cambio della protezione offerta, potrevano avvalersi della copertura e del prestigio del
potente gruppo finanziario ravennate che vantava anche importanti agganci politici” (116).
Come hanno provato le recenti indagini della Procura di Palermo, la società del Gruppo
Ferruzzi-Gardini è giunta ad acquisire fittiziamente la Calcestruzzi Palermo S.p.A. del clan
Buscemi, per fare da paravento ai mafiosi operanti per conto del boss Bernardo Provenzano ed
impedire il possibile sequestro da parte dell’autorità giudiziaria (117). Il padrino intervenne
direttamente dalla latitanza sull’affiliato Luigi Ilardo per chiedere di fermare un tentativo
d’estorsione ai danni dei gestori di una cava a Riesi, Caltanissetta, una “delle strutture di
proprietà della Calcestruzzi S.p.A.” (118). La società del Gruppo Ferruzzi ha potuto estendere

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altresì i propri interessi anche al settore edile-immobiliare, realizzando importanti operazioni
finanziarie a Palermo, grazie alle mediazioni dell’imprenditore Vincenzo Piazza, personaggio
legato ai boss Angelo La Barbera e Totò Riina, a cui è stato confiscato un patrimonio di oltre
2.000 miliardi di lire (119). In particolare la società ravennate compare tra le imprese
responsabili della lottizzazione e conseguente devastazione dell’area di Pizzo Sella, una collina
sovrastante la splendida baia di Mondello.
Piazza Affari e il controllo dell’editoria
L’intervento di Italmobiliare non si ferma però ai settori immobiliari e delle grandi
infrastrutture: la società dei Pesenti, infatti, possiede importanti partecipazioni nel settore
finanziario - controlla il 12,91% della Mittel, società azionista della Fondiaria - e in quello
industriale, dove controlla il Gruppo Falck e il Gruppo Franco Tosi. Quest’ultimo, operava sino a
qualche tempo fa solo nell’area elettromeccanica, ma a partire del 1990 ha reinvestito parte
delle proprie risorse nel settore dell’imballaggio e dell’isolamento alimentare (Sirap Gema), del
ciclo integrale dell’acqua (Sigesa) e della distribuzione del gas (Crea) (120). Italcementi ha
inoltre costituito Italgen S.p.A., società in cui si sono concentrate le attività di produzione e di
distribuzione d’energia elettrica del Gruppo in Italia (121). Il Gruppo Pesenti ha poi importanti
partecipazioni azionarie nel settore del trasporto pubblico su gomma extra urbano (Gruppo
SAB), ed ha fatto ingresso nella cosiddetta “new economy” e in particolare nel commercio via
internet, finanziando la nascita di BravoSolution S.p.A., società che dalla metà del 2000
gestisce il portale BravoBuild.
Come ogni grande gruppo industrial-finanziario che si rispetti, i Pesenti hanno costruito un
vero e proprio impero editoriale. Oltre alla quota della SES-Gazzetta del Sud, l’Italmobiliare di
Milano è proprietaria di una serie di cartiere nazionali e a fine anni ’90, grazie ad un complesso
accordo di cambio di pacchetti societari con il Gruppo Monti-Riffeser, ha acquisito una rilevante
quota (il 4,77%) della Poligrafici Editoriale, l’holding proprietaria in Italia dei quotidiani Il Resto
del Carlino-La Nazione-Il Giorno, e in Francia delle società Presse Alliance-Regie Print, editrici
del popolare quotidiano France Soir (122).
Facendo ingresso nella Poligrafici Editoriale, l’Italmobiliare-Pesenti è diventata socia-alleata di
un’altra importante holding editoriale-finanziaria, quella legata alla Fiat e agli Agnelli, la Hdp
guidata dal manager Maurizio Romiti, che controlla a sua volta la Rcs, il Corriere della Sera e la
rete radio Sper (123). Una quota dell’1% della Poligrafici Editoriale infine, è in mano alla
SocPresse, maggiore gruppo editoriale francese di quotidiani, tra cui lo storico Le Figaro. A
riprova della fitta rete di controllo della stampa esercitato dalla holding in mano al trio Monti-
Pesenti-Agnelli, va aggiunto che lo scorso 2 maggio, la Poligrafici ha stilato un accordo con il
gruppo editoriale Caltagirone – Il Messaggero, Il Mattino, Il Quotidiano di Brindisi, Lecce e
Taranto - per la stampa nelle proprie tipografie del quotidiano Leggo, diffuso gratuitamente a
Roma e Milano.
Banche, armi e mandanti coperti
Ci sono infine gli innumerevoli interessi del Gruppo Pesenti nel settore bancario. Attualmente
esso controlla l’1,71% di Unicredito Italiano, una quota sufficiente ad imporre un proprio
rappresentante, Carlo Pesenti, nel consiglio d’amministrazione nel gruppo bancario che ha
espresso pubblicamente l’interesse a concorrere alla finanziazione del Ponte sullo Stretto.
Come abbiamo già visto, Unicredito è socia in Consortium del Gruppo Franza di Messina,
comproprietaria della Tourist-Caronte che ha il monopolio dei collegamenti marittimi privati
dello Stretto. Consortium ha scalato Mediobanca e Carlo Pesenti è divenuto consigliere
dell’istituto di Via Filodrammatici; lo stesso vicepresidente della SES-Gazzetta del Sud siede nel
C.d.A. della Banca Popolare ed è stato consigliere del Credito Romagnolo.

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Giampiero Pesenti, già presidente del Gruppo Gemina e padre di Carlo, è stato sino al 1999,
membro del consiglio d’amministrazione del Credito Italiano (124). Carlo Pesenti senior,
l’uomo che sbarcò a Messina per acquisire una quota della Gazzetta del Sud in vista della
realizzazione del Ponte, ebbe sotto il suo controllo a metà degli anni ’70 il Credito
Commerciale, per poi sbarazzarsene dopo un’indagine aperta dagli ispettori della Banca
d’Italia. Subito dopo iniziò la scalata al Banco Ambrosiano, il prestigioso istituto cattolico di
Milano presieduto da Roberto Calvi e in cui erano rilevanti gli interessi dello IOR (Istituto Opere
Religiose) del cardinale Marcinkus e del gruppo di potere che ruotava attorno a Licio Gelli
(125).
In realtà Carlo Pesenti aveva già tentato inutilmente, negli anni ’50, di entrare in possesso
dell’Ambrosiano. Successivamente l’industriale si era scontrato violentemente in Borsa contro
l’istituto di Calvi, quando questi aveva sostenuto Michele Sindona nella scalata all’Italcementi.
Il conflitto fu poi risolto grazie alla mediazione del Vaticano; Pesenti e Sindona divennero soci
delle maggiori cementerie italiane e il Banco Ambrosiano e lo IOR intervennero a favore
dell’imprenditore lombardo, al tempo in gravi difficoltà economiche.
“Carlo Pesenti, ormai anziano, ha dato in pegno proprio a Calvi le chiavi della cassaforte del
suo impero” hanno scritto i giornalisti Leo Sisti e Gianfranco Modolo. “Presso l’Ambrosiano,
infatti, è depositata ormai da tempo, a garanzia di prestiti, la maggior parte dei pacchi di
controllo di Italmobiliare (il cuore del gruppo), Ras, Franco Tosi, Ibi, Banca Provinciale
Lombarda, ecc.” (126). Fu però Licio Gelli a mediare la pace definitiva tra Roberto Calvi e Carlo
Pesenti e a sancire l’ingresso di Italcementi nel Banco Ambrosiano. Agli inizi del 1979 il
Venerabile Maestro e i due finanzieri cattolici s’incontrano all’Hotel Dolder di Zurigo per firmare
un vero e proprio ‘patto di non belligeranza’. Qualche mese più tardi Carlo Pesenti fu nominato
membro del consiglio d’amministrazione della Centrale, la finanziaria controllata dal Banco
Ambrosiano
(127).
Negli stessi mesi Roberto Calvi intervenne a favore del nuovo alleato per sventare l’ingresso in
Italmobiliare della finanziaria del Gruppo Agnelli, stimolando alcuni violenti attacchi stampa
sulle pagine del controllato Corriere della Sera, che arrivò a definire gli Agnelli degli “scorridori
di Borsa” (128). Tre anni più tardi - marzo 1982 – venne infine autorizzata l’entrata dello
stesso Carlo Pesenti nel consiglio d’amministrazione del Banco Ambrosiano.
Contemporaneamente l’Italmobiliare acquistò il 3,62% dell’Ambrosiano, sborsando 100 miliardi
(129). In verità per questa acquisizione Pesenti non arrivò a sborsare neanche una lira, anche
perché se avesse voluto non lo avrebbe potuto fare dato l’indebitamento per oltre mille miliardi
del proprio gruppo. Per acquisire i titoli dell’Ambrosiano, Pesenti utilizzò un prestito dall’Imi,
con una fideiussione della stessa banca milanese.
L’ingresso dei Pesenti, tuttavia, non fu sufficiente a salvare il Banco Ambosiano dal maggiore
crack finanziario che abbia mai colpito un istituto italiano (130). Un crack precipitato dopo le
voragini apertesi nei conti del controllato Banco Andino, utilizzato da Calvi e Gelli per finanziare
l’esportazione di commesse d’armi ai regimi dittatoriali sudamericani. Il Banco Andino garantì
la vendita al Perù di fregate lanciamissili della classe 'Lupo' e di una decina d’elicotteri 'Agusta-
Bell' cui si aggiunsero transazioni miliardarie a favore di Argentina, Bolivia, Cile, Ecuador e
Venezuela (131). Non sono mai state accertate responsabilità del Gruppo Pesenti nella cattiva
gestione dei crediti delle controllate sudamericane dell’istituto milanese, tuttavia i giudici
hanno potuto verificare che nel Banco Andino di Lima oltre al pacchetto di maggioranza del
Banco Ambrosiano (pari al 10,4%), era stato depositato il 10% di quello dell’Italmobiliare
(132). Si sa inoltre che tra gli intermediari della transazione degli armamenti tra Roberto Calvi
e i generali peruviani ci fu Alvaro Meneses, presidente del Banco de la Naciòn, tra gli azionisti
di minoranza del Banco Andino. Nello stesso periodo operava sulla rotta Italia-Perù il
faccendiere di origine messinese Filippo Battaglia, personaggio noto alla famiglia Pesenti al
punto da non fargli mancare il proprio cordoglio in occasione di un lutto familiare che lo colpì

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nel 1991, prima dello scoppio di importanti inchieste sul traffico di armi che lo avrebbero
coinvolto accanto a personaggi legati ai servizi segreti, alle famiglie mafiose di Catania e ad
alcuni politici-imprenditori iscritti a Forza Italia.
Tra le maggiori banche 'prenditrici' del Banco Andino-Ambrosiano ci sarebbe stata poi la BCCI -
Bank of Credit and Commerce International, più nota come 'Criminal Bank', il più importante
centro di lavaggio del denaro proveniente dal narcotraffico, utilizzata per la conduzione di
operazioni finanziarie clandestine e il traffico internazionale d’armi. La BCCI era proprietà del
miliardario pakistano Aga Hasan Abedi, uno dei più importanti soci del miliardario saudita
Adnan Khashoggi, partner nelle transazioni d’armi di Filippo Battaglia. La filiale della BCCI di
Lima ha garantito il commercio illegale di armi verso stati sotto embargo ufficiale, fornendo
false certificazioni sui paesi di destinazione; inoltre avrebbe dato la copertura bancaria,
accanto al Banco Andino, ad acquisti di armi di produzione italiana (autoblindo Fiat ed Oto-
Melara e caccia Aermacchi). "A un paese di merda come il Perù gli abbiamo portato via 270
milioni solo con gli elicotteri" ha esclamato in un’occasione Filippo Battaglia interloquendo
telefonicamente con un suo socio mercante d’armi. Una conferma del ruolo interpretato in Perù
dal faccendiere e della portata dei traffici che banche e imprese nazionali hanno realizzato nel
Sud del mondo.
Filippo Battaglia, l’uomo che ha vantato ‘amicizie’ nei migliori salotti della finanza italiana
(133), è stato indagato nell’ambito dell’inchiesta sui cosiddetti ‘Sistemi criminali’, i mandanti
occulti tra mafia, politica e massoneria della stagione delle stragi 92-93. L’inchiesta si è
conclusa con l’archiviazione della Procura di Palermo che si è però dichiarata “convinta della
bontà della pista imboccata”, anche se il poco tempo a disposizione “non avrebbe consentito la
raccolta di ‘prove certe’ nei confronti degli indagati”. Oltre al faccendiere italo-peruviano,
nell’inchiesta sui ‘Sistemi Criminali’ sono stati indagati Licio Gelli, il neofascista Stefano Delle
Chiaie, l’avvocato-imprenditore di Barcellona Rosario Cattafi, il commercialista Giuseppe
Mandalari e i boss mafiosi Totò Riina e Nitto Santapaola (134).
Cap. 4 - Tutti gli uomini del Presidente
Le consulenze per il capitalismo dal volto disumano
Il grave conflitto d’interessi del gruppo imprenditoriale-mediatico-politico del cavaliere Silvio
Berlusconi al centro del dibattito-scontro politico, non è esente da esemplificazioni e
personalizzazioni che non aiutano a comprendere la complessità della crisi democratica e
istituzionale che sta attraversando il nostro paese. Con riferimento all’impero Mediaset si è
troppo abusato dell’espressione “anomalia del caso italiano”. In realtà, solo per restare
nell’ambito degli interessi economici che ruotano attorno al Ponte dello Stretto, abbiamo già
rilevato come siano differenti e variegate le incompatibilità e i conflitti che hanno caratterizzato
la storia progettuale dell’opera (vedi casi Pesenti, Matacena, Franza, Gruppo Gazzetta del Sud-
Fondazione Bonino Pulejo, ecc.). Se è pur vero che in Italia oggi esiste un premier-capitano di
una delle maggiori concentrazioni editoriali-televisive, per giunta “perseguitato” da un
eccezionale numero di procedimenti penali, è altrettanto vero che nell’entourage di Berlusconi
sono in tanti a condividere contestualmente ruoli di governo o di ‘vigilanza istituzionale’ e quelli
di gestione di imprese per la progettazione e l’esecuzione di grandi opere.

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Dovendo per forza di cose soffermarci sulla megaopera di collegamento tra Scilla e Cariddi, è
utile considerare la figura dello stesso ministro delle infrastrutture Pietro Lunardi, politico-
imprenditore che sta giocando un ruolo decisivo per il rilancio dell’ipotesi-mito del Ponte. Prima
di assumere l’incarico che lo vuole a capo di un ministero che chiede di spendere centinaia di
migliaia di miliardi sventrando alpi ed appennini e cementificando fiumi, coste e lagune,
l’ingegnere Pietro Lunardi è stato consulente di alcune tra le più importanti imprese di
costruzioni italiane: la Romagnoli, la Tettamanti, la Cogefar del gruppo Fiat (oggi inglobata
nell’Impregilo), il Gruppo Ferruzzi, la Lodigiani di Roma, la Pizzarotti di Parma, la Grassetto di
Salvatore Ligresti. Società che sono state indagate nei vari tronconi di Mani Pulite e, alcune,
persino sospettate di essere entrate in affari con gruppi mafiosi-imprenditoriali.
Sono innumerevoli le storie di mazzette e appalti truccati delle società di cui il professore-
ministro Pietro Lunardi si onora essere stato consulente-contrattista. Romagnoli, Tettamanti,
Lodigiani e Grassetto sono le imprese che in consorzio hanno realizzato parte della linea 3 della
metropolitana di Milano e il passante ferroviario del capoluogo lombardo, ungendo di miliardi,
oltre dodici, il gotha politico-istituzionale dell’Italia di fine prima repubblica. I Ferruzzi sono tra
i protagonisti dello scandalo Enimont, la “madre di tutte le tangenti” e con la controllata
Calcestruzzi (oggi passata alla famiglia Pesenti) sono finiti sotto inchiesta per gli appalti per la
desolforazione delle centrali ENEL e come abbiamo visto, per la gestione delle cave in Sicilia
nelle mani dei boss di Cosa Nostra. Il costruttore Paolo Pizzarotti ha dovuto ammettere di aver
versato a Severino Citaristi, il cassiere della DC, 500 milioni per potersi aggiudicare alcuni
appalti per la realizzazione dell’aeroporto Malpensa di Milano, mentre sarebbe necessario un
intero volume per raccontare le malefatte della ex Cogefar-Impresit oggi Impregilo, dalle
tangenti per i lavori alla metropolitana e al passante di Milano, a quelle per la costruzione del
policlinico di Pavia, dalla cogestione del sistema spartitorio per i grandi appalti dell’ANAS e
della Società Autostrade ai tempi del ministro Gianni Prandini, all’immane scandalo dell’Alta
Velocità e dei trafori ferroviari dell’appennino tosco-emiliano.
“La Cogefar Impresit, ereditando una procedura instaurata dalla precedente gestione della
Cogefar, utilizzava disponibilità estere esistenti presso una società terza sita nelle isole del
Canale e che si serviva a sua volta di una banca in Liechtenstein”, si legge nel memoriale
consegnato ai magistrati di Mani Pulite dall’allora amministratore delegato del Gruppo Fiat,
Cesare Romiti (135). Grazie ai fondi neri occultati sui conti esteri, miliardi su miliardi sono stati
versati a politici, amministratori, dirigenti, militari della guardia di finanza; in pochi anni, grazie
ad una strategia di mercato che l’ha vista impegnata nella fusione-assorbimento di altre
importanti imprese del settore (la Girola e la stessa Lodigiani, ad esempio), l’Impregilo ha
conseguito la leadership nel mercato italiano delle costruzioni delle grandi infrastrutture ed è
penetrata con successo perfino nel delicato mondo delle commesse pubbliche della Sicilia,
quello sovraordinato dai ‘tavolini’ a cui sedevano politici, imprenditori, mafiosi e massoni
(136). E non vanno infine dimenticati i crimini sociali ed ambientali e la lunga scia di violazioni
dei diritti umani di cui la Cogefar-Impregilo è direttamente e indirettamente responsabile nel
Sud del mondo, dalla Nigeria al Lesotho, dalla Colombia all’Argentina, dal Kurdistan al Nepal
(137).
Il ministro-ingegnere dell’Alta Velocità
Oltre alle consulenze per i padroni delle megacostruzioni che concorrono a spartirsi i progetti
finanziati o in via di finanziazione da parte del Ministero delle infrastrutture, l’ingegnere Pietro
Lunardi sarebbe socio di un’impresa svizzera, la Marcionelli & Winkler, impegnata in Italia in
alcune grandi commesse pubbliche (138); egli è poi il fondatore-titolare dell’impresa di
progettazione e di consulenza idrogeologica Rocksoil, che dal 1979 ha contribuito alla
realizzazione di alcune tra le più imponenti e costose opere infrastrutturali, in particolare quelle
relative alle metropolitane di Roma, Milano e Napoli, alle tratte dell’Alta Velocità Bologna-
Firenze e Roma-Napoli, alle Autostrade Livorno-Civitavecchia e Aosta-Monte Bianco (RAV)
(139).

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I lavori per le metropolitane di Milano e Roma e per l’Altà Velocità sono tra le opere a più alto
impatto criminogeno e tangentizio della recente storia repubblicana. Già dicevamo dei dodici
miliardi versati a politici e amministratori di Milano dal consorzio Romagnoli-Tettamanti-
Lodigiani-Grassetto, per accaparrarsi i lavori per alcune tratte della metro lombarda. Ma i
giudici hanno svelato un sistema corruttivo ancora più complesso ed articolato all’ombra della
MM Strutture ed Infrastrutture del Territorio S.p.A., la società che ha gestito l’intera
assegnazione degli appalti per la terza linea dell’infrastruttura e quelli per il passante
ferroviario di Milano. Per l’attribuzione dei lavori esisteva un tariffario determinato che
alimentava un fondo per il finanziamento dei partiti politici: la regola prevedeva il 3-4% di
tangenti sulle opere di costruzione fino ad un 13,5% sui contratti d’impiantistica. I due quinti
delle tangenti finivano al PSI, un quinto al PCI, un altro quinto alla DC e il resto veniva
suddiviso ai partiti minori (PSDI e PRI).
Le tangenti del ‘sistema MM’ sono state pagate per i vari lotti della linea della metropolitana,
per il passante ferroviario, per tutte le forniture di materiale rotabile, per l’impiantistica, per la
costruzione dei parcheggi adiacenti alle stazioni. “Le imprese, come d’abitudine, si accordavano
per predeterminare gli esiti delle gare evitando i noiosi impicci del libero mercato. Un
rappresentante dell’azienda capofila per ogni appalto si premurava di raccogliere le somme
“dovute” da ciascuna società della cordata vincitrice. Poi regolava le pendenze con i diversi
partiti, oppure consegnava la tangente al ‘cassiere unico’ delle forze politiche, il quale poi
divideva il bottino con i ‘colleghi’” (140).
Non c’è stata impresa di costruzioni che non si sia sottoposta al sistema di tassazione illegale
pur di ottenere la sua fetta d’appalti a Milano. Oltre alle società che affidarono direttamente
lavori di progettazione alla Rocksoil di Lunardi, ci furono i più noti gruppi industriali
internazionali, l’Ansaldo, la Siemens, la Abb, la Fatme, la Sasib, la Siette, la Wabco
Westinghouse, le imprese di costruzioni Torno, Collini, Progetti&Costruzioni e Guffanti, e
finanche una lunga serie di cooperative ‘rosse’, la CMC-Cooperativa Muratori e Cementisti di
Ravenna, la Unieco, la Coopsette, la Cmb di Carpi. Una fitta trama imprenditorial-politica che
ha dilapidato immense risorse finanziarie e che ha avuto come prima ricaduta la crescita
vertiginosa dei costi di realizzazione delle infrastrutture per il trasporto urbano di Milano. E’
stato calcolato che la nuova linea è costata all’erario, 192 miliardi di lire a chilometro, contro i
45 della metropolitana di Amburgo; il passante ferroviario, a sua volta, ha raggiunto i 100
miliardi a chilometro mentre quello similare di Zurigo è costato poco meno della metà.
Ancora più scandaloso è stato l’incremento dei costi per la realizzazione della metropolitana di
Napoli - committente ancora una volta la MM Strutture ed Infrastrutture del Territorio S.p.A. -
un’opera che doveva costare 50 miliardi e che al completamento superò i 1300 miliardi. Anche
per questi lavori il giro di mazzette fu ampio ed articolato. Solo al processo d’appello, l’ex
ministro per il bilancio del governo Andreotti, l’on. Cirino Pomicino, è uscito assolto per
intervenuta prescrizione del reato, dopo una condanna a due anni per essere stato il recettore
di una tangente di quattro miliardi.
Meglio era invece andata all’ex ministro delle partecipazioni statali on. Clelio Darida e agli altri
imputati del processo sulle tangenti versate dal consorzio Intermetro a guida Cogefar-Impresit
e Iri-Italstat per l’aggiudicazione dei lavori per la nuova metropolitana di Roma, l’altra
megaopera a cui la Rocksoil di Lunardi ha venduto le proprie competenze progettuali (141).
Eccetto l’allora presidente del consorzio Luciano Scipione, sono usciti tutti assolti in primo
grado dopo che il fascicolo d’indagine era approdato nel porto delle nebbie del tribunale
capitolino.
C’è poi il capitolo non ancora conclusosi del business dell’Alta Velocità, i cui lavori nelle tratte
Bologna-Firenze e Roma-Napoli, hanno comportato una spesa superiore ai 50 mila miliardi di

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lire e l’affermazione di un vero e proprio blocco di potere che ha visto tra i maggiori
protagonisti l’ex amministratore delle Ferrovie dello Stato Lorenzo Necci, il banchiere
Pierfrancesco Pacini Battaglia, alcuni magistrati romani e noti faccendieri legati alla P2 e ad
alcuni trafficanti d’armi. “L’Alta Velocità coinvolge tutti i centri di potere che contano in Italia,
così da non scontentare nessuno e stroncare sul nascere qualunque opposizione” scrive
l’economista Ivan Cicconi, estensore di una ricerca sul sistema delle tangenti nell’affare
ferrovie. In effetti, il congegno spartitorio è stato disegnato con scientificità e saggio
equilibrismo. Al tavolo degli appalti si sono sedute le maggiori imprese di costruzioni nazionali,
accorpatesi in sette consorzi, guidati due dall’IRI, due dalla Fiat, due dall’ENI e uno
rispettivamente dalla Grassetto di Ligresti e dal Gruppo Ferruzzi. Apparentemente nulla di
nuovo sotto il sole: le società sono sempre le stesse, ma c’è una novità nel modello di
finanziazione e realizzazione delle opere, attività affidate ad una società creata ad hoc in seno
alle Ferrovie dello Stato, la Tav S.p.A., spacciata mediaticamente per ‘società privata’,
nonostante l’azienda statale ne detenga direttamente il 45.1% del pacchetto azionario, più un
altro 5% attraverso la controllata Banca nazionale delle comunicazioni. Un vero e proprio falso
ideologico “anche perché il restante 49,5% è distribuito fra 23 istituti bancari, in maggioranza
di diritto pubblico ed è inoltre stato accertato che tutti i prestiti bancari per l’alta velocità sono
stati attivati solo grazie alle garanzie prestate presso gli istituti di credito da FS e dal suo socio
di riferimento, il ministero del Tesoro” (142).
Grazie all’escamotage della Tav “società privata”, i lavori per l’Alta Velocità sono stati affidati a
trattativa privata e non per appalto pubblico, come previsto dalle direttive europee. Inoltre ciò
ha permesso che gli eventuali responsabili d’illeciti restino al riparo dal codice penale, perché a
loro non è possibile contestare il ruolo di pubblici ufficiali. Attraverso il sistema del general
contractor – l’affidamento ai privati di un’infrastruttura dalla fase di progettazione, alla
cofinanziazione, all’esecuzione e gestione - lo stesso che viene proposto per la realizzazione del
Ponte sullo Stretto e per le grandi opere dell’era Lunardi, i tre maggiori colossi economici
italiani (IRI, ENI e Fiat) hanno potuto scegliere in piena autonomia le imprese per i lavori
“ventitre in tutto, coordinate dal quintetto Astaldi-Lodigiani-Caltagirone-Di Falco-Salini” (143).
Anche in questo caso la ‘privatizzazione’ delle grandi opere pubbliche si è rilevata tutt’altro che
un affare. Mentre in Spagna la linea ad alta velocità Madrid-Siviglia è costata nove miliardi e
mezzo di lire a chilometro, in Italia, nel 1998 la previsione di spesa era di ventisei miliardi,
linee elettriche e treni esclusi (144).
Solo per gli appalti della Bologna-Firenze sarebbero state versate tangenti multimiliardarie a
DC, PSI, PDS, MSI e partiti minori dell’ex centrosinistra. Un primo grande troncone d’indagine
sull’affare dell’Alta Velocità è approdato in un tribunale, quello di Perugia, dopo l’apertura
dell’inchiesta sulle trame del banchiere Pacini Battaglia (145). Sono 74 le persone di cui è stato
chiesto il rinvio a giudizio, in buona parte imprenditori, dirigenti delle ferrovie ed ufficiali della
guardia di finanza. Gli indagati farebbero tutti parte “di una struttura bene organizzata
composta da manager pubblici e privati” che gestiva gli appalti e la “successiva distribuzione di
lavori per le grandi opere”, con l’obiettivo di “creare fondi extracontabili per erogare tangenti
verso il potere politico che quei vertici avevano sponsorizzato, e verso gli stessi amministratori
pubblici per garantire il loro illecito arricchimento” (146). Tra i nomi più noti, il presidente della
squadra calcistica della Lazio Sergio Cragnotti e l’ex amministratore della Tav S.p.A. Ettore
Incalza. Secondo la Procura di Perugia sarebbe proprio quest’ultimo uno dei maggiori
protagonisti della vicenda. “Pupillo e vero amico di Pacini, Incalza era destinato a succedere a
Necci alla guida delle Ferrovie dello Stato”, scrivono di lui i magistrati umbri. Appena nominato
ministro delle infrastrutture, Pietro Lunardi lo ha però chiamato tra i suoi più stretti
collaboratori.

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Lavori relativi a progettazioni di Gallerie e di Consolidamenti e Fondazioni realizzati dalla
Rocksoil S.p.A. per conto di grandi società e consorzi privati
Cogefar-Impresit (oggi Impregilo)
1979 – Strada di collegamento Frejus, tratto Bardonecchia-Savolux
1979 – Ferrovie El Gourzi-El Khoub-Costantine (Algeria) – In consorzio con Italstrade
1986 - Consolidamento Frana di Spriana (Valtellina)
1988 – Autostrada Vittorio Veneto-Pian di Vedoia (lotti 2 e 6) – In consorzio con Italstrade
Di Penta
1997 – Galleria Principe Amedeo, viabilità Roma
Gambogi
S.p.A.
1987 – Autostrada Fiano – S. Cesareo
Grassetto
1985 – Metropolitana Milano linea 3 (lotto 2B) – In consorzio con Lodigiani, Romagnoli,
Tettamanti
1990 – Diga cantoniera sul fiume Tirso
1990 – Viadotto Santa Chiara sul fiume Tirso
Incisa
1991 – Strada Statale n. 248 Montebelluna
Intermetro
S.p.A.
1988 - Metropolitana di Roma, linea A, tratto da Ottaviano a Battistini
1988 - Stazione Aurelia Cornelia
1988 – Stazione Ubaldo degli Ubaldi
Italstrade
S.p.A.
1979 – Ferrovie El Gourzi-El Khoub-Costantine (Algeria) – In consorzio con Cogefar

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1981 – Autostrada Udine-Cervia-Tarvisio
1988 – Autostrada Vittorio Veneto-Pian di Vedoia (lotti 2 e 6) – In consorzio con Grassetto
1990 – Depuratore di Temuno
Lodigiani
S.p.A.
1985 – Metropolitana Milano linea 3 (lotto 2B) – In consorzio con Grassetto, Romagnoli,
Tettamanti
M.M. Strutture ed Infrastrutture del Territorio S.p.A.
1985 – Metropolitana di Milano, linea 3, lotto 7
1985 - Passante ferroviario Milano-Porta Venezia
1986 - Metropolitana di Napoli, linea tranviaria rapida.
1990 – Differenti lotti Metropolitana di Milano, linea 3
1990 – Collegamento ferroviario Passante di Milano
1991 - Differenti lotti Metropolitana di Milano, linea 3
1991 – Collegamento ferroviario Passante di Milano
Pizzarotti
S.p.A.
1984 – Scalo F.S. Crevignano del Fiuli
1984 – Officina F.S. Nola
1987 – Strada Statale Merano-Bolzano
1989 – Parcheggi sotterranei in località Revis – Cortina d’Ampezzo
Romagnoli
S.p.A.
1985 – Metropolitana Milano linea 3 (lotto 2B) – In consorzio con Grassetto, Lodigiani,
Tettamanti
1991 – Strada Statale n. 415 Paullen
Sicalf
S.p.A.

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1983 – Strada Statale n. 3 Flaminia (lotti I e II)
1987 – Autostrada Fiano – S. Cesareo
Tettamanti
1985 – Metropolitana Milano linea 3 (lotto 2B) – In consorzio con Grassetto, Lodigiani,
Romagnoli
Al club degli impresentabili-incompatibili
La Rocksoil vanta nel suo curriculum importanti commesse da parte delle maggiori imprese del
settore trasporti, su cui nonostante la privatizzazione in atto, il ministero delle infrastrutture
esercita ancora ampi poteri decisionali e di gestione (la Società Autostrade, l’ANAS, le Ferrovie
dello Stato, società le ultime due azioniste della Stretto di Messina). Importanti attività
progettuali sono state commissionate alla società di Lunardi dai giganti dell’industria chimica e
petrolifera italiana, come la Selm-Montedison (una galleria idraulica in Val Camonica nel 1986)
e la SNAM Progetti del Gruppo ENI (5 gallerie di un metanodotto nell’ex Unione Sovietica). La
SNAM Progetti, come abbiamo visto, è una delle società che concorrono alla realizzazione del
cosiddetto Ponte d’Archimede, il tunnel sommerso proposto in alternativa al Ponte sullo Stretto
dagli armatori Matacena.
In realtà, la Rocksoil è più vicina di quanto pare all’ipotesi progettuale per un collegamento
stabile del corridoio marino tra Scilla e Cariddi. Nel 1987, per conto dell’ANAS, la società ha
eseguito lavori di progettazione relativi “all’attraversamento dello Stretto”. A differenza di tutte
le altre opere progettate e di cui la Rocksoil fornisce una lunga serie di dati tecnici, le
informazioni della società Lunardi sulle attività svolte a Messina sono proprio ridotte al minimo.
Titolo e anno lasciano però presupporre un intervento diretto nell’iter progettuale del Ponte:
due anni prima, la Società Stretto di Messina aveva stipulato proprio con l’ANAS e le Ferrovie
dello Stato, una convenzione per lo “studio, la predisposizione del progetto di massima del
ponte, la costruzione e l'esercizio del collegamento stradale”. Il periodo, tra l’altro, coincide con
un certo attivismo della società nell’area compresa tra le province di Messina e di Reggio
Calabria: nel 1980 il Genio Civile di Reggio aveva assegnato alla Rocksoil i lavori di
consolidamento del promontorio di Scilla; nel 1984 Lunardi si era aggiudicato dalla Società
Autostrada Messina-Palermo la progettazione di alcuni tunnel dell’arteria mai completata
(gallerie S. Elia, Carbonara e Laugenia); tre anni più tardi aveva ottenuto dalle Ferrovie dello
Stato la progettazione della galleria di Capo d’Armi sulla tratta ionica Reggio-Metaponto (147).
Se il ministro non trova incompatibile il decidere sulla fattibilità e sulla messa in opera di
infrastrutture proposte o appaltate a imprese di cui è stato consulente e contrattista, ancor
meno ritiene possibile un qualsiasi conflitto d’interessi lo scegliere collaboratori e commissari
che sono stati suoi committenti o datori di lavoro. Lunardi, ad esempio, ha nominato
commissario dell’ANAS, Vincenzo Pozzi, già amministratore delegato della RAV, la società del
Raccordo Autostradale Valdostano che ha affidato alla Rocksoil la progettazione del raccordo
autostradale e di quattro gallerie in Val d’Aosta (148). “Pozzi dà incarichi professionali
miliardari al Lunardi-progettista, Lunardi-progettista diventa ministro, il Lunardi-ministro
nomina Pozzi presidente dell’ANAS” ha commentato il giornalista Gianni Barbacetto il circolo
vizioso che ha posto l’ex manager Rav a capo della società titolare del 12,25% delle azioni

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della Società Stretto di Messina (149).
E’ proprio in tema di Ponte che appaiono più evidenti i conflitti d’interessi dei nuovi incaricati
dal governo alla gestione delle Grandi Opere. Da qualche mese sono stati nominati i nuovi
membri del consiglio d’amministrazione della Stretto di Messina, più alcuni ‘consulenti’ da
affiancare per la riprogettazione dell’infrastruttura. Le sorprese sono tante. Il neo
amministratore delegato della società ad esempio, è il dottor Pietro Ciucci, attuale consigliere
di Alitalia e di Rai Holding, direttore generale dell’IRI e componente del Collegio dei liquidatori
dell’istituto di Via Veneto. Trasporti, emittenza televisiva e settore industriale, quasi a volere
enfatizzare i pilastri su cui poggia il ‘modello di sviluppo’ dell’era Berlusconi. Ciucci, però, ha un
curriculum vitae ancora più ampio e ramificato: dal 1969 al 1987 ha lavorato come direttore
amministrativo nella Società Autostrade; poi è passato alla presidenza della finanziaria Cofiri e
alla vicepresidenza della Banca di Roma e, infine, è stato nominato membro dei consigli
d’amministrazione di colossi del settore creditizio ed industriale come l’ABI, la Banca
Commerciale Italiana, il Credito Italiano, la Stet, Finmeccanica, Aeroporti di Roma, e della
stessa società Autostrade. Come è possibile notare molte di queste società o dei gruppi che ne
detengono i pacchetti azionari sono tra i maggiori concorrenti alla cofinanziazione-
realizzazione-gestione
del Ponte di Messina.
A dar soluzione agli enormi problemi di tipo tecnico-strutturale della infrastruttura che si
vorrebbe realizzare nello Stretto, Pietro Lunardi ha chiamato il professore di tecnica delle
costruzioni Remo Calzona, anchegli impegnato in prima persona, insieme allo stesso ministro
delle infrastrutture, nella progettazione dellAlta Velocit e dei tunnel autostradali del Raccordo
Valdostano. Remo Calzona è stato nominato presidente del comitato tecnico che dovrà
sovrintendere all'adeguamento del progetto del Ponte di Messina, mentre già circola il suo
nome tra i candidati che potrebbero assumere la carica di commissario straordinario per la
realizzazione
dell'opera.
Nella classifica degli impresentabili spicca poi il nome di Lino Cardarelli, fresco di nomina nel
consiglio d’amministrazione della Stretto di Messina, a cui è transitato dopo aver fatto parte
per circa un anno della segreteria particolare del ministro Pietro Lunardi. Cardarelli è uno dei
tanti miracolati dalla rapida fine del ciclone Mani Pulite e dall’altrettanto repentino passaggio
alla seconda repubblica: arrestato per finanziamento illecito ai partiti quando era dirigente
della Montedison di Schimberni, ne è poi uscito ‘assolto’ per intervenuta prescrizione del reato
(150). Nelle file degli impresentabili c’è poi l’ex amministratore delegato della Stretto di
Messina, il dottor Carlo Bucci, riconfermato tra i membri del nuovo consiglio d’amministrazione
della società. In questo caso non si tratta di qualche errore di gioventù ma di una riprovata
ignoranza in tema storico-ambientale. E’ sufficiente riportare una sua dichiarazione ad un
convegno sui trasporti, a cui la Gazzetta del Sud non poteva non dare grande rilevanza. “Di
tutte le possibilità di collegamento – ha sottolineato Bucci – il Ponte è la più ecologicamente
compatibile: non ha fondamenta in acqua ma poggia sulla terraferma, dunque non altera
l’equilibrio marino, né scarica nulla a mare”. Bucci ha poi aggiunto che nell’arco di otto anni, i
lavori per il Ponte impegneranno un indotto “di 75 mila persone: gli abitanti virtuali di una città
invisibile che prospererà sulla costruzione di un’opera di rilievo planetario, la prima che sarà
realizzata in Italia dopo il Duomo di Milano, sorto 700 anni fa” (151). Forse Bucci non conosce
Piazza San Pietro, il Duomo di Firenze e la Torre di Pisa, ma la cosciente menzogna sull’indotto,
moltiplicato per dieci volte il suo valore reale, è proprio imperdonabile.
Un Presidente da Sogno
Il 12 maggio 2001, alla vigilia delle elezioni politiche che avrebbero riportato al governo
Berlusconi, Bossi e Fini, il candidato Pietro Lunardi, indicato dal leader di Forza Italia come
possibile futuro ministro per le infrastrutture, si reca a Luino (Varese) per incontrare
amministratori ed esponenti di Forza Italia e un nutrito gruppo di imprenditori lombardi. Lo

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accompagna l’on. Giuseppe Zamberletti, DC doc, già sottosegretario all’interno e ministro per
la protezione civile e dei lavori pubblici (152). Zamberletti apre la convention elettorale
presentando il futuro ministro come l’uomo giusto per rendere cantierabili le Grandi Opere
bloccate da anni. Interviene Lunardi: “La Casa delle Libertà prevede per l’intero Paese,
investimenti che si aggireranno in tutto attorno ai 260 mila miliardi”. Quindici giorni più tardi
l’ingegnere-consulente delle maggiori società di costruzioni d’Italia assumerà l’incarico di
ministro. Un anno più tardi avrà modo di sdebitarsi con l’amico-collega Zamberletti,
nominandolo alla presidenza della Società Stretto di Messina dopo dodici anni di incontrastata
presenza del direttore della Gazzetta del Sud Nino Calarco.
C’è un filo impercettibile che lega tutti i presidenti della storia della società del Ponte, dall’on.
Oscar Andò, a Calarco, per finire con Zamberletti: l’essere stati parlamentari eletti come
espressione dell’area ultramoderata della Democrazia Cristiana. E l’ex ministro, come il
direttore della Gazzetta del Sud, vanta un’antica amicizia con l’ex presidente della Repubblica,
Francesco Cossiga, di cui tra l’altro ne è stato sottosegretario negli anni di piombo della
cosiddetta lotta al terrorismo. Con Cossiga, Zamberletti condivide passioni e vicinanze con certi
settori delle forze armate e dei servizi segreti. Poco prima di essere chiamato alla Stretto di
Messina, Giuseppe Zamberletti è stato tra i parlamentari particolarmente distintisi nella
campagna orchestrata dalle grandi imprese militar-industriali per la modifica della legge 185
del 1990 che regola l’export di armi italiane, a favore della piena ‘liberalizzazione’ in materia.
“Siamo contro le norme, introdotte dall’area parlamentare più utopistica e massimalista,
realmente assurde, come quelle relative ai paesi in via di sviluppo”, ha dichiarato lo stesso
Zamberletti, in occasione di un seminario organizzato dall’Istrid, l’Istituto ricerche e
informazioni difesa insieme alle maggiori aziende belliche nazionali.
L’azione a favore della lobby dei mercanti di morte si è sviluppata parallelamente alla ricerca
della “verità” su due delle peggiori stragi della recente storia d’Italia, l’esplosione in volo del
Dc-9 di Ustica e l’attentato alla stazione di Bologna nel 1980. In un volume Zamberletti ha
rilanciato la cosiddetta “pista libica”, sempre più improbabile e depistante dopo le conclusioni a
cui sono giunte procure e commissioni parlamentari d’inchiesta. “Se pure i servizi segreti
italiani hanno bene interpretato sia la minaccia di Ustica sia la vendetta di Bologna – ha
dichiarato Giuseppe Zamberletti – essi non avevano alcun interesse ad indagare in quella
direzione e provocare un grosso incidente internazionale. C'era dunque una ragione di Stato.
Fuggire dalla pista libica significava mantenere intatte le condizioni per la ripresa dei buoni
rapporti con la Libia” (153).
Non è noto perché mai il neopresidente della Stretto di Messina si ostini a difendere una tesi
che fu sposata ed amplificata da agenti deviati e centrali massoniche. Di certo non è mai stato
chiarito a che titolo e per conto di chi il nome di Giuseppe Zamberletti fosse stato inserito nella
lista del governo ultramoderato che doveva essere insediato dopo il cosiddetto ‘golpe bianco’
dell’ex partigiano Edgardo Sogno, previsto per l’agosto 1974, al culmine di una lunga stagione
di sangue e di bombe neofasciste. Il ‘governissimo’ per la restaurazione dell’ordine sociale, il
cui programma presentava sorprendenti analogie con il Piano di Rinascita Democratica di Licio
Gelli, prevedeva la presidenza di Randolfo Pacciardi, con ministro della difesa Edgardo Sogno e
dell’industria, appunto, Giuseppe Zamberletti (154).
Il ‘sogno’ di una svolta conservatrice e antioperaia fu alimentato dai fondi neri della Fiat e dei
servizi segreti italiani e USA. Vide altresì l’attivazione dei Comitati di Resistenza democratica,
dei maggiori industriali di destra, di uomini di vertice delle forze armate e perfino di alcuni
banchieri stranieri, come ad esempio i due John McCaffery senior e junior. Il primo aveva
guidato dal 1943 al 1945 i servizi segreti inglesi in Italia; successivamente era divenuto socio
del finanziere Michele Sindona nella Banca Privata Italiana e nella Banca Wolf di Amburgo.
John Mc Caffery junior invece, negli anni della strategia della tensione, sedeva come membro
del consiglio d’amministrazione della Banca di Messina di cui era proprietario Sindona e di cui

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l’industriale editore Uberto Bonino aveva detenuto un pacchetto di minoranza sino all’avvento
del banchiere in odor di mafia (155). Le ombre del passato si sono rincrociate tra i venti e le
correnti dello Stretto.
Il business dell’eccezionalità
La scelta di attribuire la presidenza della Società Stretto di Messina all’anziano parlamentare
democristiano risponde ad un criterio oggettivo: accelerare la trasformazione della società del
Ponte, favorirne la privatizzazione e assicurarle pieni poteri in tema di appalti e
cantierizzazione dell’opera. Per un’infrastruttura di tale ‘straordinarietà’ sono indispensabili
strumenti e mezzi ‘straordinari’, come quelli che furono affidati a Giuseppe Zamberletti in
occasione di eventi ‘straordinari’, come accadde nel 1976 con il terremoto del Friuli e quattro
anni più tardi con il sisma che distrusse l’Irpinia. E non è un caso che queste siano anche le
intenzioni del ministro Pietro Lunardi, sponsor di Zamberletti, che vanta esperienze dirette
proprio in tema di post-emergenza ed ‘eccezionalità’ degli interventi. Nel 1985 alla Rocksoil di
proprietà Lunardi, furono affidati i lavori di consolidamento delle fondazioni degli edifici
predisposti per i terremotati dei comuni di Melito e Pozzuoli (Napoli), per conto del Consorzio
Co.Ri.. Forse risale ad allora la conoscenza tra l’ingegnere e il parlamentare a cui il governo
aveva affidato la delega per la ricostruzione di Campania e Basilicata.
Esperienza estremamente negativa quella della ricostruzione dell’Irpinia specie per gli effetti
che ha avuto nella società e nel costume politico di un’area strategica del Mezzogiorno d’Italia.
“Nel nostro paese il verificarsi di calamità naturali ha finora costituito un’ottima occasione per
la lievitazione degli interessi di gruppi mafiosi o ad essi assimilabili – ha commentato lo
studioso Umberto Santino del Centro studi antimafia ‘Giuseppe Impastato’. “Si è creata una
vera e propria ‘economia delle catastrofi’ di cui hanno beneficiato in tanti, comprese
associazioni e imprese criminali. (...) La mole degli interessi e le modalità di gestione delle
attività di ricostruzione in Irpinia, all’insegna dell’eccezionalità, hanno stimolato lo sviluppo e
l’incrocio di più sistemi illegali”. I risultati di questo intreccio sono stati l’enorme spreco di
risorse e il trasferimento del denaro pubblico a favore di imprenditori, camorristi,
amministratori e politici, “con la lievitazione del ruolo della criminalità e la comparsa di
criminali organizzati anche in Lucania, regione fino ad allora indenne” (156). Fu grazie alla
straordinarietà delle misure adottate per il post-terremoto e all’ingente quantità delle risorse
finanziarie catapultate sulle regioni colpite che si potè sviluppare in Campania un sistema di
potere e di scambio tra le imprese di costruzione del Nord “con molte aderenze ministeriali”, le
organizzazioni camorrisitico-imprenditoriali, i gruppi politico-affaristici locali. “Ed è ancora tutto
da valutare il ruolo dei grandi procacciatori d’affari (Pazienza e compagni) legati ai servizi
segreti e all’affare Cirillo” (157). Secondo la magistratura, per la ricostruzione post-terremoto
furono versate al gotha della politica campana, mazzette per trentadue miliardi di lire, al valore
dei primi anni ‘80. Il procedimento giudiziario si è però concluso con un generale colpo di
spugna: dei 137 imputati (tra cui gli ex ministri Gava, Pomicino, De Lorenzo, Di Donato, Scotti)
nessuno è stato condannato, vuoi perché assolti, vuoi perché ‘prescritti’.
L’Istituto delle Grandi Opere
Sarebbe sufficiente la discutibile gestione dell’emergenza post-terremoto per porre al centro
del dibattito politico l’inopportunità della presenza di Giuseppe Zamberletti alla presidenza della
società che chiede massimi poteri e un assegno in bianco per realizzare il Ponte sullo Stretto.
Eppure c’è dell’altro. L’anziano parlamentare ricopre infatti, contestualmente, un incarico che
per la sua vicinanza alle maggiori imprese di costruzioni e al sistema bancario che assicura loro
i necessari flussi finanziari, apparirebbe ostativo in un paese retto da regole democratiche
certe e non manipolabili attraverso il monopolio esercitato dai mezzi di comunicazione che le
stesse banche e gli stessi costruttori detengono.

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Giuseppe Zamberletti, l’Uomo nuovo del Ponte, presiede dalla sua fondazione nel 1986, l’IGI -
Istituto Grandi Infrastrutture, centro di studi e ricerche in campo ingegneristico,
infrastrutturale, finanziario e legislativo, che raccoglie tutte le più grandi imprese di costruzioni
italiane ed anche determinati istituti bancari.
Scopo statutario dell’IGI è di “approfondire i temi degli appalti pubblici”. In vista del rilancio
delle Grandi Opere, l’istituto ha ampliato la propria base associativa, con l’ingresso dei grandi
concessionari autostradali, degli enti aeroportuali, delle compagnie di assicurazione e di settori
imprenditoriali complementari ai tradizionali costruttori. “Accanto all’Osservatorio sui grandi
lavori pubblici, che consente all’Istituto di monitorare, unico in Europa, tutto l’iter dei grandi
appalti, dalla gara al collaudo, sono stati effettuati approfondimenti sui sistemi normativi degli
altri Partner europei, mentre un altro Osservatorio, di recente avvio, mira a mettere sotto
controllo tutte le iniziative in materia di finanza di progetto”. Insomma un istituto-lobby,
capace di intervenire in tutte le sedi istituzionali, nazionali ed europee, per sponsorizzare e
proporre la realizzazione di megainfrastrutture o per richiedere la modifica delle norme in
materia di appalti e concessioni in modo da favorire gli investimenti e il ritorno finanziario ai
privati, che sono poi gli stessi soci-dirigenti dell’istituto presieduto dall’on. Zamberletti (158).
L’IGI può essere definito come un vero e proprio centro di confronto-scambio tra le società e i
manager che hanno fatto la storia economica d’Italia, una storia troppo spesso caratterizzata
da macroscandali, corruzioni dell’amministrazione pubblica, tangenti a partiti e parlamentari,
interventi del pubblico a favore degli interessi e dei profitti dei privati. Una cassa di
compensazione su cosa, dove come e con chi progettare e realizzare, magari definendo
prioritariamente regole e metodologie di spartizione. Oggi che i confini tra Stato e aziende
sono stati cancellati, associazioni simili possono anche decidere di sostituirsi ai poteri pubblici
per regolare l’economia e gestire il territorio.
Riciclati e riciclabili
Scorrere i nomi dei massimi dirigenti dell’Istituto Grandi Infrastrutture può essere utile per
rimettere in discussione l’assunto che ci sia stata una prima repubblica e che dopo Mani Pulite
ne sia iniziata una seconda. Vice presidente vicario dell’IGI è il cavaliere del lavoro Franco
Nobili, presidente della FIEC – Fédération de l’Industrie Européenne de la Construction (la
federazione delle grandi società europee di costruzione), con un invidiabile curriculum
professionale nelle maggiori aziende pubbliche e private d’Italia: amministratore delegato
nell’impresa di costruzioni Angelo Farsura S.p.A. di Milano, dal 1959 al 1989 amministratore e
poi presidente della Costruzioni Generali Cogefar S.p.A. del Gruppo Fiat, consigliere della
Pizzarotti S.p.A. di Parma, vicepresidente e amministratore della Bastogi-IRBS e infine, dal
novembre del 1989 al maggio 1993, presidente dell’IRI, l’impero dell’industria statale
nazionale
(159).
La stagione di Franco Nobili all’IRI coincide con il piano di rilancio della controllata Società
Stretto di Messina e del progetto del Ponte, con la nomina di Nino Calarco alla presidenza, e
con l’inserimento nella finanziaria, di un pinguo stanziamento annuale a favore della stessa
società. Nobili dovette abbandonare l’incarico all’IRI in seguito all’arresto per una storia di
tangenti. Ad accusarlo l’allora vicedirettore d’Italstat Alberto Mario Zamorani: secondo il
manager, Franco Nobili, insieme al ministro dei trasporti Giorgio Santuz e a quello dei lavori
pubblici Gianni Prandini, avrebbe fatto parte del cosiddetto “sistemone”, il tavolo di
suddivisione di appalti e subappalti per i lavori all’ANAS e alla Società Autostrade a cui
sedevano grandi costruttori privati, manager delle imprese pubbliche e politici. I giudici di
Milano hanno altresì rilevato nei bilanci della Cogefar - al tempo della presidenza di Franco
Nobili e quando era di proprietà di Acqua Marcia (Gruppo Romagnoli) - movimentazioni che
hanno lasciato intravedere un giro di tangenti e di fondi neri. Nobili trascorse settantasette
giorni in prigione; rinviato a giudizio fu assolto otto anni dopo. Successivamente è finito sotto
inchiesta a Milano, Salerno e Roma per vicende relative agli appalti dell’ENEL. I processi,
tuttavia, hanno dato ragione al vice di Zamberletti: a Milano, dopo la condanna in primo grado

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assoluzione in appello; assoluzione a Salerno e infine prescrizione nel procedimento aperto dai
giudici della capitale (160).
Tra i vicepresidenti dell’IGI, compare anche Giancarlo Elia Valori, neopresidente dell’Unione
Industriali di Roma e presidente dell’A.S.E.C.A.P. – Association Européenne des
Concessionnaires d’Autorouts et d’Ouvrages à Péage (l’associazione europea dei concessionari
delle autostrade a pagamento). Sino allo scorso mese di maggio, Giancarlo Elia Valori ha
ricoperto l’incarico di presidente della Autostrade S.p.A. la società a capo della più grande rete
autostradale del mondo, con i suoi 3.000 chilometri d’asfalto, 3.200 miliardi di fatturato, 426 di
utili. Al suo posto è stato nominato, su designazione dell’Edizione Holding del gruppo Benetton,
maggiore azionista di Autostrade, il manager Gian Maria Gros-Pietro, presidente uscente
dell’ENI, il quale dovrebbe subentrare a Valori anche alla vicepresidenza dell’Istituto Grandi
Infrastrutture
(161).
Gli anni trascorsi da Valori alla guida di Autostrade sono stati decisivi per l’espansione nel
mercato della concessionaria; in particolare il manager è stato tra gli ideatori del consorzio
telefonico Blu, di cui è stato nominato presidente, per la creazione del quarto gestore Gsm, e
che ha visto scendere in campo oltre ad Autostrade, Benetton, il costruttore-editore
Caltagirone, Mediaset e la British Telecom. Originario della Calabria, Giancarlo Elia Valori non
poteva non restare insensibile al mito del Ponte sullo Stretto, e sin dalla sua nomina a
presidente di Autostrade è intervenuto pubblicamente a favore della realizzazione dell’opera,
promettendo l’ingresso finanziario nella Stretto di Messina del colosso di cui era alla guida.
Come Franco Nobili, anche Valori è giunto alla presidenza di Autostrade S.p.A. dopo aver
ricoperto incarichi di prestigio nelle maggiori società pubbliche e private d’Italia: entrato alla
Rai nel 1965 come consulente, ne divenne presto funzionario; negli anni ‘70 fu vicedirettore
generale di Italstrade e consulente del Gruppo Fiat; negli anni ‘80 passò alla vicepresidenza
della Sme, la finanziaria agroalimentare dell’IRI presieduta al tempo da Romano Prodi. Dopo
una breve parentesi alla presidenza della Sirti, società della Stet, nel 1987 Valori fece ritorno
alla Sme, come presidente della GS Supermercati (162). Tre anni più tardi, il nuovo presidente
dell’IRI, quel Franco Nobili con cui poi avrebbe condiviso la vicepresidenza dell’IGI, lo nominò
nuovamente alla guida della Sme. Infine, nel 1995, durante il governo di transizione di
Lamberto Dini, Giancarlo Elia Valori diventò il “Signore delle Autostrade” (163).
Nel corso della sua carriera come top manager nelle grandi società a maggioranza pubblica,
Valori si è distinto nella politica delle privatizzazioni e delle dismissioni delle aziende
controllate. Da presidente della Sme, ad esempio, ha ceduto le prestigiose marche alimentari
Cirio-Bertolli-De Rica ad una società nelle mani di uno sconosciuto finanziere, Saverio
Lamiranda, che presto le ha rivendute con insperati guadagni al presidente della Lazio Sergio
Cragnotti e alla multinazionale Unilever. Prima di passare alle autostrade, Valori ha avuto il
tempo di disfarsi della nota catena di distribuzione alimentare e di ristorazione autostradale
Autogrill, trasferita alla famiglia Benetton, che l’ex manager Sme ritroverà nei consigli
d’amministrazione dell’Autostrade S.p.A. e del consorzio telefonico Blu. Alla guida della
concessionaria Valori convincerà il governo a ridurre la propria presenza societaria e a cedere
parte del pacchetto azionario ad una cordata d’imprenditori capeggiata dai Benetton e da
Franco Caltagirone, l’editore de Il Messaggero a capo della Vianini costruzioni, socia IGI. Anche
Caltagirone, come Benetton, entrerà poi nel consorzio Blu presieduto da Valori (164).
Meno conosciuti sono i rapporti intessuti a livello internazionale dal potente manager, dalla
Cina alla Corea del Nord, dal Medio Oriente alla Libia, dalla Romania di Ceasescu all’Argentina
di Juan Domingo Peron. Di quest’ultimo, Giancarlo Elia Valori è stato amico e profondo
estimatore, al punto di accompagnarlo personalmente in Argentina nel 1973 dopo il lungo
esilio in Spagna. Valori non fu l’unico italiano a bordo dell’aereo di Peron. Con lui viaggiò anche

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il gran maestro Licio Gelli alla cui loggia lo stesso Valori, già massone della ‘Romagnosi’ del
Grande Oriente d’Italia, si era affiliato nel 1973. “Licio Gelli – scrive il giornalista Gianni
Barbacetto - lo contatta perché sa dei suoi ottimi rapporti con l’Argentina, lo iscrive al Centro
Culturale Europeo e lo coinvolge in una società di import-export chiamata Ase. Che cosa
importi e che cosa esporti - carne, armi, informazioni - non è dato sapere. Valori comunque
sostiene di esserne uscito subito, lasciando Gelli al suo destino” (165). In realtà, i rapporti tra i
due si incrinarono nel momento in cui Gelli egemonizzò la relazione con il neopresidente Peron
e con il suo braccio destro, il piduista José Lopez Rega. Lo scontro Gelli-Valori si sarebbe
concluso con l’espulsione di quest’ultimo dalla P2.
Nonostante l’uscita di scena dall’entourage dei fratelli della superloggia, Giancarlo Elia Valori si
è mantenuto in stretto contatto con gli ambienti dei servizi segreti italiani, in particolare con il
generale Giuseppe Santovito, con il faccendiere Francesco Pazienza e con il giornalista di Op
Mino Pecorelli, successivamente assassinato. Per questi legami certamente non ordinari tra i
manager e gli imprenditori italiani, Valori fu ripetutamente chiamato a deporre nelle indagini
chiave dei primi anni ‘80, quelle della Procura di Roma sulla P2, del giudice Carlo Palermo sui
traffici d’armi, di Rosario Priore sui suoi rapporti con i Paesi arabi, nel contesto dell’inchiesta
sulla strage di Ustica. A differenza poi dei colleghi a capo dei maggiori imperi finanziari e
imprenditoriali, l’ex presidente di Autostrade S.p.A. è uscito del tutto indenne dal filone
d’indagine di Mani Pulite. “L’unica ombra di Tangentopoli che lo ha sfiorato è un versamento di
150 milioni nel giugno 1991; ne parla, al sostituto procuratore di Milano Francesco Greco,
Giuseppe Garofano, allora presidente della Montedison: ‘Si è trattato di un versamento da me
effettuato a favore di Valori Giancarlo Elia, attuale presidente della Sme, che all’epoca aveva
prestato consulenze professionali alla Montedison. Il Valori mi chiese di erogare la somma in
nero e per contanti, per motivi fiscali’” (166). Trattandosi di un pur discutibile incarico di
consulenza da parte di una società privata, il fatto non poteva essere punibile
processualmente. I magistrati poi, non trovarono riscontri alle dichiarazioni dell’ex presidente
della
Montedison.
Pur conclusasi per oggettivi limiti d’età la carriera manageriale in Autostrade di Giancarlo Elia
Valori, esiste ancora chi lo ritenga un personaggio potente da adulare e rispettare. Così gli
industriali di Roma e della regione Lazio lo hanno voluto alla presidenza della propria
associazione, mentre a fine aprile, l'assemblea degli azionisti di Italintesa S.p.A., riunitisi a
Reggio Emilia, gli ha conferito la presidenza onoraria della società. Nel corso dei lavori è stato
altresì deliberato un sostanziale aumento del capitale sociale e l’ingresso tra gli azionisti del
politologo americano Edward Luttwak, già consulente di Italintesa ed assiduo editorialista nelle
testate del Gruppo Monti e della siciliana Gazzetta del Sud. Come Valori, Luttwak vanta un
passato contiguo ai poteri atlantici più o meno occulti. E’ stato tra i fondatori e gli animatori del
Csis – Center of Strategic and International Studies di Washington, il centro di studi strategici
legato alla CIA e al Pentagono americano, noto per aver elaborato l’interventismo Usa a fianco
dei regimi fascisti-militari in America latina ed in Europa. Casualità vuole che il Csis abbia
avuto in Italia come partner la Fondazione Bonino-Pulejo del presidente onorario della Stretto
di Messina, Nino Calarco, nell’organizzazione a Taormina, anno 1993, di una convention
internazionale sugli “Effetti delle migrazioni nei paesi industrializzati” (167).
La lobby delle tangenti e dei Servizi
In quota Banca Intesa Bci, il colosso bancario sorto dalla fusione di Cariplo, Ambroveneto e
Commerciale Italiana che ha espresso l’interesse ad entrare finanziariamente nell’affare Ponte
sullo Stretto, l’Istituto Grandi Infrastrutture ha riservato la vicepresidenza anche all’ex
parlamentare Maurizio Pagani, già ministro delle poste e telecomunicazioni nel primo governo
Amato e nel successivo di Azelio Ciampi. In molti lo considerano l’anima berlusconiana nella
lobby dei grandi costruttori diretta dall’on. Zamberletti. Pagani, infatti, fu accusato dalle
opposizioni di essere stato da ministro troppo indulgente con gli interessi televisivi del futuro
premier Silvio Berlusconi, già abbondantemente favorito dalla legge Mammì sull’emittenza
privata. Di certo dopo l’esperienza governativa nelle file del PSDI, l’on. Maurizio Pagani preferì

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approdare tra gli Azzurri di Forza Italia con cui poi, fu eletto sindaco di Novara.
In rappresentanza di un altro istituto di credito, la Banca Popolare dell’Emilia, nel direttivo
dell'IGI, c’è un altro personaggio di cui è nota la forte simpatia con il partito-azienda del
Presidente del consiglio. Si tratta di Claudio Calza, contestualmente consigliere
d’amministrazione del Banco di Sardegna e dell’azienda farmaceutica Pierrel, amico come
Zamberletti dell'ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga (168). Calza ha fatto molto
parlare di sé in questi mesi a proposito dell'inchiesta sulla tangentopoli che ha colpito i vertici
politici della Basilicata, primi fra tutti i parlamentari Angelo Sanza (Forza Italia) e Antonio
Luongo (DS). Il presidente della banca emiliana, infatti, è stato arrestato con l’accusa di
concorso in corruzione per le presunte mazzette che sarebbero state versate dal gruppo
imprenditoriale De Sio per aggiudicarsi l’appalto per una nuova sede dell’INAIL. Il Calza
avrebbe intrattenuto stabili contatti con i De Sio: il suo ufficio sarebbe stato aperto nello stesso
appartamento di Roma dove c’è l’ufficio dell’ingegner Antonio De Sio, mentre in passato
Claudio Calza ha ricoperto il ruolo di presidente della Banca Popolare del Sinni, della quale i De
Sio risultano azionisti (169).
Particolarmente inquietanti le trascrizioni di alcune telefonate intercettate al consigliere
dell’IGI. Claudio Calza era in costante contatto con il dirigente del Sisde, generale Stefano
Orlando, in servizio al Quirinale quando era presidente Francesco Cossiga. Il militare è stato
accusato dai magistrati di Potenza di rivelazione di segreti d’ufficio e favoreggiamento nei
confronti proprio di Calza, per conto del quale avrebbe fatto alcuni accertamenti avvalendosi
dei mezzi a disposizione del Sisde. Orlando avrebbe avviato un rapporto con Calza, “forse nella
prospettiva di reclutarlo nei servizi segreti, di farne una fonte dalla quale ricevere notizie di
prima mano su operazioni economiche e finanziarie per miliardi di lire” (170). Qualcosa del
genere è stato ipotizzato per spiegare le relazioni tra il collega-socio nell’Istituto Grandi
Infrastrutture, Giancarlo Elia Valori, e l’allora direttore del Sismi Giuseppe Santovito.
Considerate poi le ambigue ‘rivelazioni’ del presidente Zamberletti sulle stragi di Ustica e di
Bologna resta l’impressione che nell’esclusivo club delle Grandi Opere, le entrature nei o dei
Servizi, siano proprio tante.
I miracolati di Mani Pulite
Centro studi, lobby del Ponte e delle megacostruzioni, club trasversale alle divisioni di corrente
e di partito, area grigia tra imprenditoria, finanza e poteri più o meno occulti, confraternita
immolatasi al dio delle privatizzazioni comunque e dovunque. L’IGI è tutto questo e forse più di
questo. Di certo, agisce da corte dei miracoli e molte delle società che vi sono affiliate hanno
agito da grandi dispensatrici di miracoli e prebende a favore di politici ed amministratori.
Hanno temuto di essere spazzate via dal ciclone tangentopoli, ma le lentezze procedurali, i
depistaggi nelle indagini, qualche benevolenza in sede processuale, i colpi di spugna
dell’esecutivo e delle maggioranze politiche vecchie e nuove, le hanno graziate, miracolate, ne
hanno restituito verginità e vigore. Oggi queste imprese si proiettano alla conquista del fiume
di denaro assegnato al piano di devastazione delle risorse territoriali scampate al saccheggio
degli anni del Caf, la sigla del triunvirato Craxi-Andreotti-Forlani.
Sono socie illustri le aziende, società e banche che partecipano al ‘consorzio’ per le grandi
infrastrutture. Della maggioranza delle aderenti, le cronache giudiziarie di Mani Pulite ne hanno
tracciato intime radiografie, ricostruendo metodologie tangentizie sperimentate con successo
da Nord a Sud. Su alcune – Grassetto, Impregilo-ex Cogefar - ci siamo soffermati in
precedenza per le maxinchieste della Procura di Milano sui lavori alla metropolitana e al
passante ferroviario di cui la Rocksoil del ministro Pietro Lunardi ha eseguito consulenze per
svariati miliardi. Possiamo solo aggiungere che il titolare della Grassetto, il costruttore siciliano
Salvatore Ligresti, noto per la sua amicizia con Bettino Craxi, oltre ad essere stato attenzionato
per l’affare della Metropolitana di Milano, è stato implicato nello scandalo della vendita di alcuni
palazzi ad enti pubblici da parte della sua Premafin, e in quello dell’accordo Eni-Sai, secondo

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cui furono affidati alla società del costruttore, tutti i contratti assicurativi dei dipendenti
dell’ente petrolifero, grazie al pagamento di una tangente di diciassette miliardi di lire.
Per ciò che riguarda la grande società di costruzioni del gruppo Fiat è interessante notare come
tra le socie nell’IGI, compaiano due delle maggiori banche che ne sono azioniste, la Banca di
Roma e la Cariplo, quest’ultima entrata in Banca Intesa, il più accreditato istituto finanziario
del Ponte di Messina. Nell’Istituto Grandi Infrastrutture c’è poi un’altra grande azionista
dell’Impregilo, la Girola Partecipazioni. Cariplo e Girola hanno condiviso con l’Impregilo, ex-
Cogefar, alcuni guai giudiziari: l’allora presidente della cassa di risparmio lombarda, Roberto
Mazzotta, è stato arrestato e processato per una storia di tangenti a DC e PSI. Dopo una
condanna in primo grado, Mazzotta è stato graziato in appello grazie alla modifica dell’art. 513
del codice di procedura penale che impedisce l’utilizzo delle accuse in fase istruttoria se non
ripetute in aula. La Girola, invece, è stata una delle innumerevoli società implicate nello
scandalo delle ‘Fiamme sporche’, le mazzette girate ad ufficiali e sottufficiali della Guardia di
finanza, una ventina dei quali affiliati alla massoneria, per ottenere un occhio di riguardo su
bilanci truccati e fatturazioni di comodo (171). Sempre nell’IGI, compare un’altra società di
riferimento del Gruppo Agnelli, la Fiat Engineering, finita nelle cronache giudiziarie per aver
tentato una poco ortodossa sollecitazione su un europarlamentare del PDS per ottenere un
parere favorevole per l’appalto al nuovo stadio di Venezia, tentando “di riciclare il progetto
bocciato per il ‘Delle Alpi’ di Torino” (172).
Nel sistema spartitorio degli appalti alla metropolitana di Milano, oltre alle società già
menzionate, hanno partecipato alcune delle maggiori cooperative ‘rosse’. Due di esse, la
Coopsette di Reggio Emilia e la Cmc di Ravenna, sono tra i soci-consiglieri dell’Istituto Grandi
Infrastrutture dell’on. Zamberletti. Grazie all’ingresso nell’affare metro, le cooperative di
costruzioni “vengono trattate come tutte le altre aziende: vengono cioè inserite nelle
aggiudicazioni preconfezionate degli appalti, in cambio del pagamento ai partiti di una quota
percentuale sul valore della commessa” (173). La Coopsette è inoltre tra le aziende che hanno
realizzato il centro commerciale Le Gru di Gugliasco, alle porte di Torino, di proprietà
dell’Euromercato-Standa (Gruppo Berlusconi-Fininvest). Per ottenere le autorizzazioni a
realizzare il centro commerciale, i proprietari sono sospettati di aver distribuito tangenti ad
assessori e consiglieri comunali del capoluogo piemontese.
La Cooperativa Costruttori e Cementisti di Ravenna (CMC), da parte sua, in consorzio con le
società Torno, Guffanti e Collini ha ottenuto l’appalto per le forniture del lotto 6 della
metropolitana di Milano, che secondo i giudici, avrebbe visto l’esborso di cospicue tangenti a
favore degli amministratori meneghini. Altre tangenti sarebbero state versate da Torno,
Guffanti e Collini per un altro lotto, il 2/a, della metropolitana. Nello specifico la Torno di
Milano, società che è socia della CMC nell’Istituto Grandi Infrastrutture, avrebbe versato per i
lavori alla metro di Milano, fra i 300 e i 400 milioni l’anno, per lo meno dal 1987 al 1991 (174).
La cooperativa ravennate invece, è un gruppo che si è caratterizzato per un certo attivismo nel
‘difficile’ mercato delle costruzioni in Sicilia. In particolare, sbaragliando l’Impregilo dell’allora
presidente Franco Carraro, la CMC ha ottenuto un appalto di oltre ottanta miliardi per
l’ampliamento della base militare di Sigonella. Per lunghi anni quest’infrastruttura strategica
delle forze armate statunitensi è stata in mano a consorzi e società delle cosche mafiose locali,
che ne hanno gestito lavori infrastrutturali, trasporti, pulizie. Nel corso delle indagini è stato
scoperto che un’azienda della famiglia Ercolano, la Sud Trasporti, si è incaricata della
movimentazione per conto della CMC di Ravenna. La stessa cooperativa ha affidato alla
Trasporiental dei fratelli Francesco e Antonio Pesce, i lavori di pulizia di alcuni appartamenti
realizzati a Sigonella. Anche la Trasporiental è tra le società controllate dai gruppi catanesi di
Cosa Nostra. Gli inquirenti hanno accertato che tra i dipendenti della cooperativa hanno fatto
parte due elementi di spicco del clan Santapaola, entrambi condannati nel 1996 per

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associazione mafiosa, Natale Di Raimondo e Carmelo Santocono.
Alla mensa delle Ferrovie
Come se non fossero bastati i miliardi della nuova linea metropolitana di Milano, alcune delle
società del Club per le Grandi Opere hanno partecipato e partecipano al banchetto dell’Alta
Velocità. C’è innanzi tutto il colosso Impregilo, che presiede i due superconsorzi della Bologna-
Firenze (Cavet) e della Torino-Milano (Cavtomi). La società del gruppo Fiat, insieme alla
controllata Lodigiani ed all’Astaldi, partner nel consiglio direttivo dell’IGI, avrebbero dispensato
discutibili contribuzioni a partiti e sindacati “per evitare la microconflittualità nei cantieri” in
vista dei progetti sull’Alta Velocità e per l’ampliamento dell’autostrada Firenze-Bologna (175).
L’Astaldi, la Lodigiani-Impregilo con i costruttori Caltagirone e Salini – anch’essi soci
dell’istituto presieduto da Zamberletti - fanno parte del nucleo centrale che ha ottenuto dal
‘general contractor’ una fetta consistente dei lavori di realizzazione della moderna rete
ferroviaria.
Nel consorzio Cociv che cura i lavori per la tratta dell’Alta Velocità Milano-Genova, c’è poi
un’altra associata IGI, la Tecnimont, società d’engineering della Montedison. Con la Tecnimont
si sono consorziate due grandi società di costruzioni, una appartenente al gruppo Grassetto-
Ligresti, l’altra al gruppo Itinera-Gavio. Anche sulla megacommessa della Milano-Genova
incombono le ombre della magistratura, interessata in particolare ad una serie di studi di
natura idrogeologica in buona parte “inutili”, ma soprattutto ipercostosi (si parla di una spesa
di oltre cento miliardi di lire). Contro la Tecnimont, la procura di Milano sta poi procedendo per
falso in bilancio a seguito della scoperta di “consulenze fantasma” eseguite per suo conto da
un’azienda irlandese presumibilmente nell’orbita di Pierfrancesco Pacini Battaglia. La
fatturazione sarebbe servita a creare fondi neri per possibili tangenti (176). L’Itinera del
costruttore Marcellino Gavio, a sua volta, è finita sotto inchiesta per un giro di mazzette
versate ai massimi dirigenti del PSI per ottenere i lavori per la realizzazione della Milano-
Serravalle, autostrada gestita da una società per azioni entrata anch’essa nella potente schiera
dell’Istituto Grandi Infrastrutture.
Sempre per restare in tema di corruzioni vere o presunte realizzate dai componenti IGI, un
capitolo a parte meritano i fratelli imprenditori-editori Leonardo e Francesco Gaetano
Caltagirone, titolari della Vianini Lavori. Entrambi sono stati rinviati a giudizio nell’estate del
2001 per corruzione in atti giudiziari, per una tangente versata in concorso con il
commercialista Sergio Melpignano, ai giudici romani Orazio Savia ed Antonino Vinci
(quest’ultimo recentemente scomparso), che indagavano sul cosiddetto scandalo dei ‘palazzi
d’oro’ che vedeva coinvolti, tra gli altri, i due fratelli costruttori. In passato un’altra indagine
aveva interessato i fratelli Caltagirone per un presunto versamento di un contributo per un
miliardo e 600 milioni a favore del cassiere della DC Severino Citaristi per ottenere una
variante al piano regolatore sull’area milanese del Portello. Nel 1994 i Caltagirone furono anche
sottoposti a misura cautelare, ma quattro anni più tardi, l’inchiesta fu archiviata dal PM
Antonino
Vinci.
Oltre metro, treni ed autostrade, i tentacoli dei grandi costruttori non potevano non estendersi
ai grandi appalti di ‘Malpensa 2000’, la realizzazione del nuovo e inquinante aeroporto di
Milano, su cui sono piovute le immancabili indagini giudiziarie. A gestire i due aeroscali del
capoluogo (Linate e Malpensa), la Sea, azienda a capitale pubblico-privato, affiliata al gruppo
IGI. Il suo vicepresidente, il democristiano Roberto Mongini, fu arrestato nel 1992 perché
considerato uno dei ‘cassieri’ dell’intero sistema tangenti di Milano. Per il giro di mazzette alla
Sea, a conclusione delle indagini, quarantaquattro persone tra politici, amministratori e
dirigenti dell’azienda, sono state rinviate a giudizio. Per ottenere alcuni appalti nel nuovo
aeroscalo di Malpensa, il costruttore Paolo Pizzarotti, a capo dell’omonima società che ha una
delle vicepresidenze IGI, avrebbe consegnato a Bettino Craxi una tangente di 500 milioni in tre
tranche. Secondo il costruttore parmense, per i lavori di ‘Malpensa 2000’, esisteva un preciso

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procedimento spartitorio: una società provvedeva alla DC, un’altra al PSI e un’altra ancora al
PCI. Nonostante i soldi a Craxi, Pizzarotti era il referente per lo scudocrociato. “Personalmente
ho provveduto a versare il denaro alla DC nelle mani del senatore Severino Citaristi per un
importo complessivo di circa un miliardo, un miliardo e 300 milioni”, ha dichiarato Pizzarotti. Il
costruttore fu costretto a diversificare ulteriormente la contribuzione, provvedendo, pare, ad
ungere qualche funzionario del PCI-PDS di Milano (177).
Sempre in tema di contribuzione illecita ai partiti, il primo grande ‘pentito’ di tangentopoli, il
socialista Mario Chiesa, ha raccontato ai giudici che tra le società di costruzioni da cui avrebbe
ricevuto grosse tangenti, compariva l’ennesima socia IGI, la Sic di Ugo Fossati. In società con
la Ifg-Tettamanti, una delle tante società per cui ha lavorato come consulente il ministro
Lunardi, la Sic ottenne un appalto da sessanta miliardi, ampliabile fino a centoventi, per le
costruzioni di alcuni padiglioni del Pio Albergo Trivulzio. “In cambio Sic e Tettamanti avevano
versato a Mario Chiesa 100 milioni al mese, fino a raggiungere i sei miliardi di lire pattuiti”
(178).
Ad essere incorsa in un procedimento penale è un’altra delle grandi cooperative ‘rosse’ che
quasi a sottolineare la trasversalità del mondo della politica e degli affari italiani, siedono al
tavolo dell’Istituto Grandi Infrastrutture. Si tratta dell’Iter di Ravenna, il cui direttore Michele
Cavallini è stato arrestato a Catania nell’ambito dell’inchiesta per i lavori di costruzione del
nuovo ospedale ‘Garibaldi’. Sotto osservazione dei magistrati etnei, oltre alla cooperativa
emiliana, Filippo Salamone, l’imprenditore agrigentino divenuto punto di riferimento del
‘tavolino’, il nuovo patto tra politici, imprenditori e Cosa Nostra, e Giulio Romagnoli, della
famiglia un tempo proprietaria del gruppo finanziario Acqua Marcia (179). Romagnoli,
presidente della Costruzioni generali Cgp S.r.l., società che ha partecipato ai lavori del
‘Garibaldi’ con Iter, Collini S.p.A. ed Impresem è stato accusato di concorso esterno in
associazione mafiosa, poiché ritenuto in collegamento con il boss Giuseppe Intelisano, del clan
di Nitto Santapaola. E’ da notare che negli anni ’70 la famiglia Romagnoli, insieme ai
costruttori siciliani Cassina, Costanzo e Rendo, aveva partecipato alla realizzazione
dell’autostrada Palermo-Punta Raisi. Nell’occasione, i materiali di costruzione furono forniti
dalle cave di Cinisi, Terrasini e Partinico gestite dai clan diretti da Tano Badalamenti (180).
Romagnoli S.p.A., con Tettamanti, Cogefar-Impregilo, Gruppo Ferruzzi, Lodigiani, Pizzarotti,
Grassetto, Consorzio Intermetro e Metropolitana di Milano, hanno una cosa in comune oltre
alle tangenti: l’essersi fregiate delle consulenze del ministro Pietro Lunardi, il nuovo Re Mida
delle Grandi Opere e del Ponte, l’ingegnere della deregulation in tema di appalti e concessioni
I.G.I.
Consiglio
direttivo
Presidente Giuseppe Zamberletti
Vice Presidente Vicario cav. lav. dr. Franco Nobili imp. Pizzarotti
Vice Presidenti :
prof. Giancarlo Elia Valori Soc. Autostrade

Page 47
dr. Giuseppe Mustica Fiatengineering
geom. Vittorio Morigi C.m.c.
dr. Maurizio Pagani Intesa BCI S.p.A.
consiglieri:
dr. ing. Gianni Battolla Iter
dr. ing. Paolo Bruno Condotte S.p.A.
dr. Paolo Cetroni Astaldi
dr. Giorgio Cimagalli SIC
geom. Donato Fontanesi Coopsette
dr. Giuseppe Gatto Impregilo
dr. Franco Lattanzi Banca di Roma
dr. ing. Valter Montevecchi Vianini S.p.A.
dr. Guelfo Tagliavini Alcatel
dr. ing. Massimiliano Di Torrice Oice
dr. Mario Lupo Agi
dr.Claudio Calza Banca Pop. Emilia Romagna
Tesoriere dr. Francesco S. Salini Salini S.p.A.
Collegio dei Revisori
Presidente dr. Paolo Resta
Componenti:
dr. Adolfo Leonardi
rag. Maurizio Silvi
I SOCI
Alcatel – Business Distribution; Alstom Power Italia; Assiteca; Astaldi; Autostrade S.p.A.;
Autostrade Serravalle; Baldassini-Tognozzi; Banca di Roma; Banca Popolare dell’Emilia
Romagna; Banca Popolare di Milano; Gruppo Banca Popolare di Vicenza; C.M.C. – Cooperativa
Muratori e Cementisti di Ravenna; Società Italiana per Condotte d’Acqua S.p.A.; Coopsette; De
Lieto Costruzioni Generali; A & I Della Morte S.p.A.; Ferrovie Emilia Romagna; Fiat
Engineering; Fioroni Sistema; Sviluppo Sistema Fiera di Milano; Girola; Grandi Lavori Fincosit;

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Impresa Grassetto; Impregilo; Intesa BCI; Iter – Cooperativa Ravennate; Lombardini Ruscalla
Costruzioni; Pizzarotti & C.; Pontello S.p.A.; Safab Società Appalti e Forniture per Acquedotti e
Bonifiche; Salini Costruttori; System Service; S.A.T.A.P. S.p.A.; S.E.A.; S.I.C. – Società
Italiana Cauzioni; Taverna S.p.A.; Tecnimont; Tenax; Todini Costruzioni Generali; Torno;
Trevi-Finanziaria Industriale; Unicalce; Unieco; Vianini Lavori.
L’Istituto del Ponte
"La società Stretto di Messina può avere un grande ruolo nella realizzazione del Ponte - ha
dichiarato il presidente dell'IGI, Giuseppe Zamberletti poco prima di essere chiamato alla guida
della S.p.A. del Ponte. "La società può diventare, per conto del Governo, stazione appaltante,
perché avendo elaborato il progetto di massima conosce bene tutti i termini del problema, ed
esercitare l'alta sorveglianza sul concessionario perché ha al suo interno non solo il Ministero
del Tesoro ma anche Ferrovie e ANAS che sono gli utilizzatori del progetto. La società è quindi
il più naturale rappresentante della committenza" (181).
Ha le idee chiare in materia l’on. Zamberletti. Trasformare la società di progettazione in entità
privata, fuori da ogni controllo pubblico e farle assumere la responsabilità dell’intero ciclo
dell’opera, dal reperimento delle risorse finanziarie, alla gestione del bando di gara,
all’assegnazione degli appalti, fino alla realizzazione delle infrastrutture e magari alla futura
gestione delle attività d’attraversamento del Ponte. Quando il governo avrà definito il destino
della società concessionaria e la quota di contributo pubblico da allocare, spiega Zamberletti, la
Stretto di Messina potrà operare ”per parti e/o per fasi, ad esempio come soggetto promotore
e/o poi appaltatore e/o poi affidatario dei lavori e/o poi gestore a regime, etc”.
Al futuro della società del Ponte, l’Istituto Grandi Infrastrutture ha riservato studi, analisi e
commissioni di lavoro. Nei fatti si è sostituito al parlamento e all’esecutivo, i quali, pur
rilanciando mediaticamente il sogno-mito di un’infrastruttura di collegamento tra le coste di
Scilla e Cariddi, mai hanno affrontato con serietà una questione di per sé strategica. Nel 2001,
l’IGI delle grandi società di costruzione e del cuore bancario d’Italia, ha istituito una speciale
commissione di lavori “Ponte sullo Stretto”, affidandone il coordinamento al dottor Baldo de
Rossi, già amministratore delegato della Stretto di Messina, quota Italstat, accanto a Nino
Calarco presidente e Gianfranco Gilardini vice (182). I risultati della commissione di studio
sono stati resi pubblici assai di recente e il testo finale del documento è consultabile su
internet. Ne riportiamo i passi più significativi.
L’IGI, ha valutato la fattibilità finanziaria dell’opera e la situazione giuridica dell’attuale società
Stretto di Messina, di cui innanzi tutto se ne chiede la ricapitalizzazione e privatizzazione,
anche se ad oggi nessuna grossa azienda internazionale si è fatta avanti per partecipare
all’ipotesi progettuale del Ponte (183). Per rendere appetibile l’investimento e l’ingresso dei
soggetti di natura privata, secondo l’IGI, sarà però prima necessaria “l’emanazione della norma
speciale che consenta alla neo società di assumere le responsabilità dell’intero ciclo operativo e
delle attività tecnico-finanziarie”. La commissione ‘Ponte sullo Stretto’ prefigura due ipotesi: la
prima prevede l’abrogazione della legge 1158 del 1971 che istituisce la società pubblica per la
progettazione e la costruzione dell’infrastruttura per l’attraversamento dello Stretto,
“attraverso un provvedimento legislativo e la conseguente eliminazione dell’atto di
concessione”, per poi mettere in gara la concessione stessa, previa acquisizione del progetto di
massima predisposto. La seconda ipotesi prevede l’ingresso di un socio privato nella Stretto di
Messina, affidando il pacchetto di controllo dell’IRI al concorrente miglior offerente.

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Quest’ultima possibilità è stata però scartata dall’Istituto per le Grandi Opere poiché “in
conflitto con le attuali norme europee”, soprattutto dopo che la Commissione dell’Unione ha
diffidato il governo italiano di continuare a considerare la Stretto di Messina concessionaria
della realizzazione della megainfrastruttura (184). “Resta dunque sul campo, se si vuole
evitare una lunga e logorante controversia con la commissione UE, solo l’ipotesi di porre fine
all’attività della società Ponte sullo Stretto, come concessionaria e di mandare in gara per la
scelta di un concessionario di costruzione e gestione il progetto di massima approvato con
prescrizioni dal Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici e che attende l’approvazione formale del
Governo”.
Il documento elaborato dall’Istituto Grandi Infrastrutture passa poi ad elencare una serie
d’ipotesi per accelerare la cantierizzazione e l’esecuzione dell’opera. Per il club dei signori del
cemento è necessaria la “modifica delle norme ordinarie in tema di opere pubbliche” onde
assicurare la “eccezionalità delle molteplici attività di acquisizione dei fondi, di gestione
amministrativa, d’affidamento delle commesse, di scelta fiduciaria dei fornitori, di provvista dei
materiali, di reperimento della manodopera e di tutto ciò che rende unica la realizzazione
dell’opera”. Alla nuova Stretto di Messina in mano ai privati, cioè, devono essere affidati pieni
poteri, “poteri eccezionali”, quasi come ci si trovasse di fronte ad una grande emergenza (un
terremoto? una guerra? una catastrofe naturale?). Per l’idea del ‘Ponte chiavi in mano’ sono
così necessarie l’adozione di “semplificazioni procedurali che contraddistinguono le
autorizzazioni o le contrattazioni previste per i grandi investimenti privati industriali”, ulteriori
contributi pubblici “che oltre all’apporto in conto capitale”, prevedano “appropriate forme di
esenzione/riduzione di IVA, di rimodulazione del costo del lavoro, di tassazione differenziata
per comparti e fasi di realizzazione, di copertura programmata dell’eventuale differenziazione
costi/ricavi di gestione” (185). Come dire che l’Opera che doveva prevedere la finanziazione
privata, di privato avrà solo la gestione delle risorse e dei profitti, scaricando costi e rischi
all’erario pubblico e per di più bypassando le norme in tema di contratti di lavoro e sicurezza
nei cantieri (186).
Come se ciò non bastasse, l’Istituto Grandi Infrastrutture ritiene che alla riformulata Società
Stretto di Messina, dovrebbero essere infine consentite “potestà amministrative pari a quelle di
una autonoma ‘autorità di territorio’, perlomeno responsabile di tutte le attività antecedenti la
realizzazione fisica dell’opera, ivi compreso il riassetto ambientale ed urbanistico della zona”
(187). Una mostruosità giuridica che avrebbe come conseguenza l’extraterritorialità di diritto e
di fatto dello Stretto, esautorando i poteri degli enti locali in tema di ordinamento territoriale,
pianificazione e regolazione urbanistica, ecc. Un ulteriore regalo ai poteri criminali e alla
borghesia mafiosa che già regna sovrana tra Scilla e Cariddi. “Le cosche mafiose – scrive
Rocco Sciarrone - hanno storicamente dimostrato una grande capacità di adattamento,
riuscendo a sfruttare a proprio vantaggio occasioni economiche che nascono e si sviluppano in
un clima di emergenza, che poi esse stesse hanno cura di alimentare nel tempo”. Proprio per
non creare opportunità favorevoli alla mafia, il rapporto di Nomos sul ‘rischio criminalità’
diffidava che i “caratteri di straordinarietà che indubbiamente presenta l’opera” fossero tradotti
in emergenzialità, “ovvero in attori che giustifichino procedure d’urgenza o eccezionali, oppure
corsie preferenziali o speciali, che di fatto possono finire per aggirare le normative e gli
standard previsti e richiesti” (188). La divergenza con lo Zamberletti pensiero è proprio
insormontabile.
L’ordine è esautorare la legge ed eliminare i controlli
All’auspicata realizzazione del Ponte sullo Stretto lo stesso Giuseppe Zamberletti, ha dedicato
ampi stralci della sua relazione di chiusura dell’anno 2001 davanti a consiglieri e soci
dell’Istituto Grandi Infrastrutture. Definendo il Ponte “opera emblematica per l’effetto di
trascinamento del processo di infrastrutturazione del Mezzogiorno”, l’ex pluriministro ha
integrato il pacchetto di richieste destinate all’esecutivo per dare consistenza all’ipotesi
progettuale: smantellamento della legge Merloni che regola l’aggiudicazione degli appalti per le
grandi opere, deregulation in tema di estensione del contratto integrato (general contractor) e

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project financing (189). “Il Ponte sullo Stretto – ha specificato Zamberletti - è un esempio di
operazione che possiamo tentare in project financing - e in questo abbiamo convinto anche
l’attuale Governo, impegnato a sondare la disponibilità del mercato - sempre che non si debba
sottostare ai vincoli temporali legati alla durata di una concessione che, per opere di
particolare rilevanza, deve essere valutata caso per caso (190).
Più specificatamente, l’Istituto Grandi Infrastrutture punta alla sostanziale modifica delle
previsioni della legge Merloni relative alla percentuale del contributo pubblico all’investimento
nell’opera (attualmente le norme pongono il limite della partecipazione statale al 50%) e alla
durata della concessione, in modo da estenderla oltre l’attuale limite massimo dei 30 anni.
Entità dell’investimento pubblico e durata della concessione sono i “punti critici” emersi
durante gli incontri tra i maggiori istituti bancari e il ministero delle infrastrutture, relativi alla
fattibilità finanziaria del Ponte sullo Stretto. "Se non vengono eliminati i vincoli giuridico-
amministrativi della Merloni, il progetto non sta in piedi” è il commento unanime dei banchieri.
“Se la concessione non può andare oltre i 30 anni, sarà difficile anche recuperare il servizio del
debito perché stiamo parlando di un progetto da oltre 9mila miliardi. (...) Considerando le
stime di mole di traffico sul ponte e una tariffa concorrenziale con quella dei traghetti,
l'operazione non è concepibile se poi lo Stato non contribuisce con più del 50%". Per le banche,
quindi, "è indispensabile che la legge obiettivo, attualmente all'esame del Parlamento,
intervenga su questi due punti. Prima di allora, è impossibile per gli istituti di credito valutare
fondatamente la finanziabilità del progetto: è difficile per una banca pronunciarsi sul lato
economico-finanziario quando non conosce nemmeno quanto può essere il contributo dello
Stato"
(191).
Il governo ha fatto proprie le considerazioni del Club per le Grandi Opere, varando a fine
dicembre 2001 una legge delega finalizzata a porre le condizioni per la realizzazione di un
programma nazionale di diciannove infrastrutture definite strategiche, tra cui ovviamente il
Ponte, e che prevede investimenti quantificati in 235 mila miliardi di lire (192). Più
concretamente, il cosiddetto decreto Lunardi prevede una serie di interventi tesi “a rimuovere
gli ostacoli che hanno impedito una massiccia partecipazione dei privati ai finanziamenti delle
opere”. Al proposito viene individuato uno strumento, il general contractor o contraente
generale, già sperimentato in occasione dei lavori per le tratte dell’Alta Velocità
interappenniniche, di cui sono noti gli effetti ambientali e il fitto sistema corruttivo generato. La
legge Merloni ne limitava il ricorso solo alle opere la cui redditività era così elevata da
consentire un apporto di capitali privato superiore al 50% dell’onere. Con la ‘legge obiettivo’ si
estende l’intervento del general contractor alle opere stretagiche di cui è lo Stato ad essere il
principale se non il solo finanziatore. Unico limite per il soggetto aggiudicatore (il consorzio
delle aziende private), il rispetto delle normative europee in tema di evidenza pubblica e di
scelta dei fornitori di beni o servizi, “ma con un regime derogatorio rispetto alla legge 109 del
1994 per tutti gli aspetti di essa non aventi necessaria rilevanza comunitaria” (193).
Come spiegato dallo stesso ministro Lunardi, attraverso le competenze affidate al general
contractor, il contraente viene individuato come “esecutore con qualsiasi mezzo di un’opera
rispondente alle esigenze specificate dal soggetto aggiudicatore”. Il contraente, cioè, “è un
costruttore di opere che, per altro, a differenza dell’appaltatore di lavori pubblici regolato dalle
leggi attuali, può realizzare l’opera ad esso affidata con qualsiasi mezzo, cioè anche
subaffidandola in tutto o in parte a terzi dallo stesso prescelti e coordinati” (194). Lo Stato
cioè, rinuncia rinuncia ad ogni controllo sulla realizzazione dell’opera (dalla progettazione, alla
gestione degli appalti, alle varianti in corso d’opera, ecc.), anche se i costi dell’infrastruttura
graveranno interamente sul bilancio pubblico. Enti locali e regioni saranno del tutto esautorati;
vengono ridotte le possibilità di ricorso al TAR e limitati gli effetti della sospensiva in attesa di
giudizio; si da ampia possibilità ai contraenti di realizzare le grandi opere senza la Valutazione
di impatto ambientale, sostituendo la normativa con un ‘accertamento di compatibilità
ambientale’, di cui sarebbe responsabile il CIPE (195). L’affidamento alle aziende private del
rapporto diretto con il territorio, scavalcando il ruolo di intermediazione dei soggetti pubblici

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locali, porrà ancorà di più le opere a rischio d’infiltrazione mafiosa. Saranno possibili nuovi e
più stringenti accordi tra le cosche e i soggetti incaricati, e nel caso, improbabile, in cui ci si
vorrebbe opporre al dominio mafioso, il privato possiede meno strumenti di reazione nei
confronti della violenza criminale” (196).
“La legge Obiettivo – ha commentato l’economista Ada Becchi - è l’ennesimo provvedimento,
varato per ‘sregolare’ le procedure per la realizzazione di opere pubbliche. Il riferimento, in
questo caso, è alla legislazione per la tutela dell’ambiente, ma più ancora alla legislazione
cosiddetta Merloni, approvata negli anni ‘90, e motivata in larga parte dalla necessità di por
fine agli sprechi ed alla corruzione che avevano a lungo dominato il campo” (...). Il recupero
del passato, delle deroghe, del ricorso indiscriminato al general contractor, ecc., è così drastico
e sfrontato da lasciare interdetti” (197). Dopo i colpi di spugna giudiziari al Malaffare di
tangentopoli, un dispositivo legislativo che sigilla il ritorno ai circuiti imprenditoria-politica-
mafia per il saccheggio delle risorse e del territorio.
Le alternative nel cassetto
Se a governare la politica, l’economia e l’informazione non ci fosse a Messina il ‘partito del
ponte’, probabilmente sarebbero stati cantierizzati tutta una serie di progetti, che avrebbero
risposto positivamente alla domanda di lavoro e di sviluppo del territorio.
Il rilancio della centieristica in sostegno al potenziamento del traghettamento pubblico nello
Stretto e la realizzazione di collegamenti veloci con l’aeroporto di Reggio Calabria e le isole
minori dell’arcipelago eoliano; l’attivazione di quei servizi pubblici la cui inesistenza accentua il
gap con le aree urbane del Settentrione e ha drammatiche ricadute in tema di vivibilità; il
recupero del patrimonio storico e artistico danneggiato dal terremoto del 1908 e dall’incuria di
tutte le aministrazioni locali post-ricostruzione; il risanamento dei quartieri periferici dove
imperano le baracche e sono inesistenti spazi verdi e luoghi di socializzazione; la manutenzione
delle abitazioni private e degli edifici pubblici del centro storico le cui realizzazioni sono
fatiscenti e ad alto rischio di crollo; una politica di prevenzione antisimica in un’area dove i
sismologi attendono a breve un evento di dimensioni simili a quello subito all’inizio del XX
secolo; la riqualificazione del territorio collinare devastato dall’abusivismo edilizio e dalla
cementificazione dei torrenti, già oggetto di disastrosi nubifragi; la valorizzazione turistica del
porto e la realizzazione di parchi urbani per il recupero dell’antico sistema fortilizio; la
valorizzazione di alcune aree paesaggistiche straordinarie, oggi in stato d’abbandono (la zona
falcata, Capo Peloro, i monti Peloritani); l’impegno sul fronte delle nuove tecnologie ove può
avere un ruolo propulsivo l’Università, caratterizzatasi sino ad ora come soggetto distributore
di reddito ed appalti; l’investimento nell’agricoltura biologica e il rilancio delle produzioni
tipiche dell’area (agrumi, olio d’oliva, vigneti); la valorizzazione dell’artigianato locale e il
recupero delle antiche produzioni artistiche; lo sfruttamento delle energie rinnovabili (proprio
lo Stretto ha un patrimonio energetico incommensurabile – si pensi all’energia eolica e alle
correnti marine); il finanziamento diretto e la facilitazione di accesso al credito per tutto il
‘terzo settore’ in vista dell’incentivazione delle imprese sociali, dell’associazionismo e delle
cooperative giovanili (quest’ultime finalmente libere dalle relazioni clientelari e di
sperimentazione della flessibilità d’orario e di salario che le hanno caratterizzate sino ad oggi).
Ecco alcune delle alternative possibili, reali, credibili, al modello obsoleto e insostenibile del
Ponte di Scilla e Cariddi.
Rispondere ai criteri di un’economia autocentrata che valorizzi le risorse locali e dia risposte
concrete ai bisogni della gente. Mettere innanzi tutto i valori della difesa del patrimonio
esistente nell’area dello Stretto, contro speculazioni, saccheggi, rapine dei Signori del Ponte.
Pensare, creare, sognare, organizzare, la Vita contro la cultura della Morte, il ritorno alla
relazione ancestrale con il territorio e l’ambiente contro il dominio mafioso dell’acciacio e del
cemento.

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1 Nel febbraio del 2001, il Ministero dei Lavori Pubblici ha stimato un costo per il Ponte di
Messina, pari, al netto dell’IVA, di circa 9.400 miliardi contro i 7.150 miliardi stimati nel 1997.
Per quanto concerne gli interventi infrastrutturali di supporto (rete stradale, ferroviaria, ecc.)
l'advisor ha stimato, una spesa ulteriore pari a 4.650 miliardi di lire.
2 In Gazzetta del Sud, 23 aprile 1998.
3 Per una più approfondita analisi sui collegamenti tra le cosche catanesi, i clan della provincia
di Messina e il gruppo ‘ndranghetista di Africo si consulti www.terrelibere.it/africo).
4 “Denaro e potenziale di fuoco – si legge nelle due relazioni semestrali 2001 della Dia - sono i
veri assi della manica della ‘ndrangheta che gode del silenzio politico e sociale per espandersi,
fare proselitismo con le promesse di lavoro e infiltrare giorno dopo giorno il tessuto sociale
sano della Calabria”.
5 In Il nuovo Soldo, 11 maggio 2002.
6 Si vedano in particolare le indagini ‘Olimpia 1, 2, 3 e 4’.
7 M. Portanova, “ll lamento del grande escluso”, in Il diario della settimana, 13-19 aprile 2001.
8 G. Barbacetto, “Campioni d’Italia. Storie di uomini eccellenti e no”, Marco Tropea Editore,
Milano, 2002, pag. 243.
9 In Gazzetta del Sud, 15 settembre 1999.
10 In Gazzetta del Sud, 17 dicembre 2000.
11 In Gazzetta del Sud, 5 dicembre 2000.
12 Gli advisor sono stati prescelti dal Ministero dei lavori pubblici per fornire gli elementi per la
decisione definitiva sulla realizzazione dell'opera. La consulenza per l’approfondimento degli
aspetti tecnici del progetto di massima del Ponte di Messina, è stata assegnata alla Parsons
Transportation Group di Washington con la controllata Steinman di New York (l’importo della
gara è stato di euro 857.318 + IVA). La definizione delle “problematiche territoriali, ambientali,
sociali, economiche e finanziarie del progetto” è stata invece assegnata nel dicembre 1999 al
Certet dell'Università Bocconi di Milano, alla Coopers & Lybrand, alla Pricewaterhouse Coopers,
al Sic e al Sintra (importo di euro 2.143.296 + IVA).
13 G. Colussi, “Perchè i mafiosi amano tanto il ponte”, Carta, n.19, 16-22 maggio 2002, pag.
27.
14 A. Becchi, “Criminalità organizzata. Paradigmi e scenari delle organizzazioni mafiose in
Italia”, Donzelli, Roma, 2000, p. 40.
15 R. Sciarrone, ‘E la mafia, starà a guardare? Il rischio criminalità’, in AA.VV., “Ponte sullo
Stretto”, Meridiana. Rivista di storia e scienze sociali, Donzelli Editore, Roma, 2001, p.167-168.
16 Ibidem, p. 169.
17 Ibidem, p. 174-175.
18 Tribunale di Palmi, “Richiesta di rinvio a giudizio, di misure cautelari e di archiviazione nei
confronti di Galluzzo V. R. + 81”, Palmi, 1993, p. 1687.
19 In Gazzetta del Sud, 15 settembre 1999.

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20 E. Ciconte, “Processo alla ‘Ndrangheta”, Laterza editori, Roma, 1996, p. 223. Per intendere
come i poteri criminali abbiano modificato i loro rapporti con le grandi imprese di costruzioni
nazionali, si può pensare a quanto successo, ancora una volta a Gioia Tauro, con la società
Calcestruzzi del gruppo Ferruzzi-Gardini, entrata in consorzio con uomini legati al clan Piromalli
per il riciclaggio delle ceneri della centrale. Come vedremo successivamente, la Calcestruzzi,
oggi nell’orbita della famiglia Pesenti, è una delle tante imprese candidate alla realizzazione del
Ponte dello Stretto.
21 R. Sciarrone, ‘E la mafia, starà a guardare?’, cit., p. 176-177.
22 G. Colussi, “Perché i mafiosi amano tanto il ponte”, p. 27.
23 R. Sciarrone, “E la mafia starà a guardare?”, cit., p. 177.
24 Ibidem, p. 178.
25 O. Pieroni, “Il mostro sullo Stretto”, Ora locale, n. 9, ottobre-novembre 1997.
26 Ibidem, p. 180.
27 Ibidem, p. 181.
28 In Gazzetta del Sud, 10 febbraio 2001.
29 R. Sciarrone, “E la mafia, starà a guardare?”, cit., p. 183.
30 In Gazzetta del Sud, 25 giugno 2002.
31 In Gazzetta del Sud, 26 aprile 2002.
32 Procura di Reggio Calabria-DDA, “Operazione Olimpia. Condello Pasquale ed altri”, Reggio
Calabria, 1994, p. 4884.
33 E. Ciconte, “Processo alla ‘Ndrangheta”, Cit., p. 143.
34 Tribunale di Reggio Calabria, “Ordinanza-Sentenza contro Albanese Mario + 190”, Reggio
Calabria, 1998, p. 312.
35 In N. Tranfaglia, Mafia, politica e affari. 1943-91. Editori Laterza, 1992, pagg. 369-70.
36 R. Sciarrone, “E la mafia, starà a guardare?”, cit., p. 169.
37 La convenzione fu firmata da Claudio Signorile, dall’allora presidente dell’ANAS Franco
Nicolazzi, da Romano Prodi per l’IRI, dal presidente della Stretto di Messina on. Oscar Andò e
dall’amministratore delegato Gianfranco Gilardini. Nonostante gli impegni assunti da Craxi e
Signorile, la Gazzetta del Sud aprì uno scontro con il governo, accusato di “parlare con il cuore
e non con la mente”. Anche l’allora presidente delle Ferrovie dello Stato, l’on. Lodovigo Ligato
si dichiarò scettico sul rispetto dei tempi previsti (in Onda Verde, n. 9, gennaio-febbraio 1991,
pp. 74-75). Ligato, ritenuto vicino alla famiglia De Stefano, verrà successivamente assassinato.
Nino Calarco, direttore della Gazzetta, nel 1990 sarà nominato presidente della Stretto di
Messina, mentre l’on. Sebastiano Vincelli, intimo amico di Ligato, entrerà nel consiglio
d’amministrazione della società del Ponte, su designazione dell’IRI di Romano Prodi.
38 E’ opportuno menzionare che l’indagine ‘Olimpia 4’ ha fatto luce su un’altra inquietante
vicenda criminale, l'omicidio del dipendente della società Tourist Ferry Boat, Vincenzo Santoro,
avvenuto a Villa S. Giovanni il 14 giugno 1984 (in Gazzetta del Sud, 2 settembre 1998). Come

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vedremo in seguito, la Tourist è una delle società che ha il monopolio dell’attraversamento
privato dello Stretto di Messina, un’attività dove è stata forte l’“attenzione” mafiosa e dove
impera un’imprenditoria che guarda con sempre maggiore attenzione alla realizzazione del
manufatto per il collegamento stabile.
39 Proprio in località Campo Piale, nel comune di Villa San Giovanni, è previsto l’ancoraggio del
Ponte dello Stretto.
40 In Gazzetta del Sud, 19 marzo 2002.
41 In Il nuovo Soldo, 27 aprile 2002.
42 Per comprendere la complessità del sistema di relazioni tipico della cosiddetta ‘borghesia
mafiosa’, si consulti U. Santino, “La borghesia mafiosa”, CSD, Palermo,
43 Si pensi innanzitutto alla forte presenza a Messina dell’obbedienza massonica della Camea
strettamente inserita nel sistema mafioso-finanziario di Michele Sindona. Sindona, originario
della provincia di Messina, aveva avviato nell’area importanti attività industriali ed era
proprietario della Banca di Messina.
44 E’ da sottolineare come alcuni degli aderenti alla Gladio siciliana sono risultati affiliati alla
loggia massonica ‘Giuseppe Minolfi‘ del Grande Oriente d’Italia, contestualmente a un
vicequestore, un ufficiale di marina, un comandante dei carabinieri e a noti imprenditori e
docenti universitari delle due città di Messina e Reggio Calabria.
45 Secondo il CENSIS, il 28,2% dei residenti risulterebbe disoccupato contro una media
nazionale del 12,1% Tra le fasce giovanili, il tasso di disoccupazione raggiunge punte del 60%.
46 Nel solo territorio comunale sono state censite 255 imprese del settore finanziario ed
assicurativo, un valore di 1.1 in rapporto alla popolazione (su 1.000 abitanti) contro lo 0,8
nazionale. Ad esse si aggiungono 68 sportelli bancari.
47 in Gazzetta del Sud, 26 aprile 2002.
48 La Caronte S.p.A. è stata creata nel luglio 1998 dopo aver rilevato parte del patrimonio
della Caronte Shipping S.p.A. La Caronte è entrata in pool con la Tourist Ferry Boat del gruppo
siciliano Franza e attualmente controlla oltre l’80% della quota di mercato del traffico gommato
nello Stretto di Messina. Presidente è stato nominato Elio Matacena. Dalle ceneri della Caronte
Shipping è sorta anche la Amadeus S.p.A. a cui sono state attribuite tutte le attività
economiche del gruppo Matacena diverse dal settore armatoriale. A presiedere l’Amadeus, il
cavaliere del lavoro Amedeo Matacena senior.
49 In merito alla rivolta di Reggio, il collaboratore di giustizia Giacomo Lauro ha ricostruito con
dovizia di particolari i legami tra la ‘ndrangheta, l’eversione di destra e alcuni noti imprenditori
calabresi. In relazione ad Amedeo Matacena, il Lauro ha raccontato che l’armatore avrebbe
fornito “i soldi per le azioni criminali per la ricerca delle armi e dell’esplosivo “. Ha aggiunto poi
di aver ricevuto da Ciccio Silverini, accusato della strage al treno di Gioia Tauro del 22 luglio
1970, tre milioni di lire come pagamento dell’esplosivo utilizzato per l’attentato. “A dire di
Ciccio Silverini, e non aveva motivo di dirmi una palla per un’altra, i soldi gli erano stati forniti
da Amedeo Matacena e dal cavaliere Mauro nelle mani di Ciccio Franco” (Procura di Reggio-
DDA, “Operazione Olimpia”, cit., p. 4830).
50 L’impero dei Franza è stato fondato dal commendatore Giuseppe Franza, recentemente
scomparso, risultato affiliato al Centro Sociologico italiano, la superloggia massonica
palermitana di Via Roma 391 in cui sono risultati iscritti alcuni tra i maggiori boss di Cosa
Nostra (In la Città, 19 febbraio 1998). Attualmente le redini della famiglia Franza sono tenute

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dalla signora Olga Mondello, vedova dell’ingegnere Giuseppe, nominata da Carlo Azeglio
Ciampi cavaliere del lavoro, e dai figli Vincenzo, Helga e Pietro. Tutti sono azionisti della
società armatoriale. Tra i soci della Tourist Ferry Boat compare anche l’on. Francantonio
Genovese, neoparlamentare della Margherita all’Assemblea Regionale Siciliana, figlio del
senatore DC Luigi Genovese e nipote dell’ex ministro Nino Gullotti, azionista ‘ombra’ e padrino
del successo economico della famiglia Franza.
51 Il collaboratore di giustizia Mario Marchese ha dichiarato in particolare che le dazioni di
denaro a favore della società del gruppo Matacena sarebbero proseguite almeno sino ai primi
anni ’90 a favore del clan ‘ndranghetista Imerti-Mondello (In Contro, 30 aprile 1998).
52 La Società Ponte d’Archimede ha comunque avviato la progettazione di infrastrutture
similari da realizzare in Norvegia, tra le città di Sandnes e Oanes, nello Stretto di Jintang
(Cina), a sud di Shangaj, e nel lago di Como, per congiungere Menaggio a Bellano. I progetti
prevedono il finanziamento dell’Unione Europea; solo in Cina è stimata una spesa di 500
milioni di euro (in Il nuovo Soldo, 11 maggio 2002). Nonostante il rifiuto del progetto per un
ponte sommerso, la Ponte d’Archimede è comunque tornata ad essere attiva nell’area dello
Stretto di Messina, avviando un programma sperimentale per la “produzione di energia dalle
correnti marine”. Lo studio sulle correnti dello Stretto di Messina prevede la partnership con la
società cinese Zheijang Provincial Science and Technology Commission e l’Università Federico
II di Napoli.
53 In Gazzetta del Sud, 25 luglio 1996.
54 Come abbiamo visto in precedenza, Paolo De Stefano è colui che scatenò la guerra di mafia
per l’accaparramento dei flussi finanziari per le grandi opere nella provincia di Reggio Calabria,
e in particolare di quelli per la realizzazione del Ponte sullo Stretto.
55 Singolari le idee di Amedeo Matacena junior sul tema della mafia: "Voi giornalisti fate
confusione tra la delinquenza e la mafia, che ha le sue regole morali. Regole morali simili a
quelle del miglior galateo. La mafia parla di protezione della donna, di strette di mano e non di
carte scritte, di rispetto della persona e di valori. Io parlo della mafia delle campagne, di quella
con le scarpe sporche di terra, della Calabria che non è mai stata capita perché colonizzata dal
Nord" (In Corriere della Sera, 31 ottobre 1989).
56 In Gazzetta del Sud, 10 maggio 2002.
57 E. Ciconte, “Processo alla ‘Ndrangheta”, cit, p. 218-219.
58 M. Torrealta, “La trattativa. Mafia e Stato: un dialogo a colpi di bombe”, Editori Riuniti,
Roma, 2002, p. 66.
59 M. Portanova, “ll lamento del grande escluso”, cit..
60 G. Barbacetto, “Campioni d’Italia”, cit., p. 256.
61 In Gazzetta del Sud, 10 luglio 2002.
62 Il Gruppo Franza è azionista di minoranza degli storici Cantieri navali Snav – Rodriquez che
realizzano aliscafi e unità veloci utilizzabili anche a fini militari.
63 Il Gruppo Franza opera nel settore delle costruzioni attraverso la Siceas Building, società
responsabile di una devastante cementificazione delle colline sovrastanti i laghi di Ganzirri, una
delle località naturalistiche più importanti di Messina, a due passi da Capo Peloro dove
dovrebbe sorgere il Ponte sullo Stretto.

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64 Del Messina Calcio, è vicepresidente il giovane Pietro Franza; presidente il gioiellere
Emanuele Aliotta, già vicepresidente dell’Acr Messina guidato dall’imprenditore di Bagheria
Michelangelo Alfano, oggi in carcere per essere ritenuto uno dei referenti stortici di Cosa Nostra
a Messina.
65 Forti perplessità sull’opera furono espresse dai leader locali del PSI Nicola Capria e Giacomo
Mancini e dall’allora presidente delle Ferrovie dello Stato on. Ligo Ligato, esponente
democristiano, successivamente assassinato dalla ‘ndrangheta.
66 In Il Soldo, 25 gennaio 1986.
67 In Centonove, 14 maggio 1994.
68 Nell’occasione, ad accompagnare il ministro su un traghetto del Gruppo Franza, c’erano
anche l’allora presidente della Società Stretto di Messina, Nino Calarco, e il presidente della
Regione siciliana Totò Cuffaro. Il ministro Lunardi si è così espresso: “Il Ponte sullo Stretto è
una struttura straordinaria che verranno a vedere da tutto il mondo. Sarà un’opera eccezionale
dal punto di vista ingegneristico e ambientalistico, che avrà una valenza come il Colosseo e le
Piramidi, indispensabile per il rilancio del Sud” (In Gazzetta del Sud, 7 aprile 2002).
69 Al Consorzio Costruttori Messinesi, oltre alla Siceas Building del Gruppo Franza, hanno
aderito la A & V costruzioni, la Antonino Lanzafame di Messina, la Anzà costruzioni di Patti,
l’ing. Paolo Arcovito S.r.l. di Messina, la Antonino Bongiovanni di Messina, la Benito Borrella di
Spartà, la C. e D. costruzioni S.r.l., la D & D, la Giovanni De Domenico Snc, la Edil.Gen. S.r.l.,
la Edilmoter di Barcellona, la E.Spert S.p.A. di Messina, la Fago S.r.l. di Milazzo, la Figliozzi
costruzioni S.r.l., la geom. Domenico Gemelli di Messina, la Italgeo S.r.l., la Vincenzo Oliva di
Milazzo, la Giuseppe Pettinato, la Studi progetti e costruzioni S.p.A. di Messina e la Trio S.r.l. di
Pace del Mela. Alcune di queste società sono state coinvolte in inchieste di tangentopoli.
70 Il Gruppo Franza, per la sua affermazione nei settori armatoriale, edile, industriale e
finanziario, ha goduto della ‘protezione’ e dell’amicizia di importanti istituti di credito regionali
e nazionali, in particolare del Banco di Sicilia, della Cassa di Risparmio Siciliana, della BNL e
della Banca del Sud oggi assorbita dal Banco di Lodi.
71 Della COMIT i Franza sono i maggiori azionisti accanto a Giuseppe Stefanel, alle
Assicurazione Generali, alla Commerzbank tedesca, al Gruppo Lucchini, al gruppo Monti e alla
Codelouf del finanziare Luca Padulli, azionista a sua volta del gruppo Ferruzzi e Montedison. Il
Gruppo Intesa Bci è attualmente il maggior gruppo bancario italiano; si è costituito nel 1998
con l'integrazione fra Cariplo e Ambroveneto a cui si sono aggiunti l'anno successivo
Cariparma, FriulAdria e Banca Commerciale Italiana.
72 Per l’operazione di acquisizione di Mediocredito-Banco di Sicilia, il Gruppo Franza è entrato
in cordata con i costruttori Virlinzi di Catania, con l’editore del quotidiano La Sicilia, Mario
Ciancio Sanfilippo - al tempo presidente della Federazione Editori Italiani (Fieg) - e con i
banchieri trapanesi D’Alì Staiti, ex proprietari della Banca Sicula poi assorbita dalla COMIT,
oggi Banca Intesa Bci.
73 La Banca Antonveneta è alla guida di uno dei principali gruppi bancari italiani che
comprende, oltre al Capogruppo e alla Banca di Credito Popolare di Siracusa, il Credito
Industriale Sammarinese, la Banca Popolare Jonica (Grottaglie Taranto), la Banca Cattolica
(Molfetta, Bari), la Banca Nazionale dell'Agricoltura e la Banca Agricola Etnea (Catania).
Quest’ultimo istituto è appartenuto al costruttore siciliano Gaetano Graci, di cui sono stati
provati i legami con le maggiori cosche mafiose catanesi e con il finanziere Michele Sindona.
Grazie all’assorbimento della BAE, l’Antonveneta dispone attualmente in Sicilia di 74 sportelli
bancari.

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74 Nella finanziaria Consortium, sorta nel 1980 per gestire il salvataggio poi non effettuato
della Snia, oltre al Gruppo Franza, sono presenti tra gli altri, la Mediolanum della famiglia
Berlusconi, Unicredito, la Banca di Roma, la Tredicimarzo (ex gruppo Lazard), le Assicurazioni
Generali e il costruttore Marcellino Gavio, titolare della società Itinera, coinvolta in alcune
inchieste di tangentopoli per gli appalti autostradali.
75 In www.imgpress.it
76 La Marathon Holding era di titolarità della Cominvest di Roma, società attiva nella gestione
patrimoniale di proprietà del finanziere Sergio Cragnotti. Nel 1994 fu ceduta ad un gruppo di
manager e promotori finanziari, guidati dal Gruppo Franza, su ordine della Consob, dopo la
condanna in Canada del presidente della Lazio e dell’ex braccio destro Raul Gardini, per una
vicenda di “insider training’ nella Borsa dell’Ontario (Il Mondo, 9-16 gennaio 1995, pag. 87).
77 Oltre alla Banca del Sud, la Popolare di Lodi ha acquisito in Sicilia la Banca Popolare di
Belpasso, istituto finito nelle mani del boss mafioso catanese Giuseppe Pulvirenti ‘u
malpassotu, la Banca Popolare di Carini, il cui consiglio di amministrazione è stato rinviato a
giudizio per falso in bilancio, le banche monosportello di Vittoria e Mazara del Vallo, il Credito
Siciliano guidato dall’ex eurodeputato di Forza Italia, Pietro Di Prima. La Popolare di Lodi è in
mano ad un gruppo di privati: la immobiliare romana Magiste di Stefano Ricucci (4,99%), la
Barilla (3,2%), la Hopa di Emilio Gnutti (2%), la Tabacchi della Safilo (1%) (in Il nuovo Soldo,
8 giugno 2002).
78 E’ grazie all’emendamento presentato come primo firmatario dall’on. Pietro Folena
dell’allora PCI, che venne iscritto per la prima volta nella Finanziaria un fondo di 40 miliardi di
lire a favore della Società Stretto di Messina, a cui è stata affidata la progettazione del Ponte. A
partire dal 1991 tutte le Finanziarie hanno previsto un capitolo a favore della società, con il
voto unanime di tutti i partiti escluso Verdi e Rifondazione Comunista (in Il Manifesto, 10 luglio
1996).
79 La Società Stretto di Messina assicura, con l’indotto, 7.000 posti di lavoro a termine, che
considerata l’entità dell’investimento è poca cosa se si pensa che i dodici Patti Territoriali
approvati nel 1998 dal CIPE con una spesa di 1.245 miliardi prevedono un incremento
occupazionale stabile di 7.040 unità.
80 S. Pantaleoni, “Quotidiani desiderati. Giornalismo, editoria e stampa in Calabria”, Edizioni
Memoria, Cosenza, 2000, p. 200.
81 Secondo i progettisti, il Ponte sarà lungo 3.690 metri, ma l’intero manufatto raggiungerà i
5.070 metri. La campata centrale sarà di 3.360 metri. A sorreggerla ci saranno quattro cavi di
dimensioni gigantesche (il loro diametro sarà di 132 centimetri) che avranno il compito di
“ancorare la sede stradale alle quattro torri”, alte ciascuna 380 metri. La campata sarà sospesa
a 64 metri dal mare e sarà larga 61 metri, così da consentire sei corsie stradali, più due
d’emergenza, e quattro binari ferroviari. Verranno inoltre costruiti 27 chilometri di collegamenti
stradali e 35 di ferrovie.
82 La carica di Nino Calarco è rimasta ‘scoperta’ sino allo scorso 21 maggio, quando il governo
ha nominato presidente della Stretto di Messina, l’ex parlamentare DC Giuseppe Zamberletti,
già ministro dei lavori pubblici e della protezione civile. Nino Calarco è stato tuttavia nominato
‘presidente onorario’ della società.
83 Si trattava di un seminario sull’Europa di Maastricht, organizzato dalla Fondazione Bonino-
Pulejo presieduta dall’on. Calarco e a cui intervennero oltre ad Andreotti e Cossiga, Gustavo
Selva, Antonio Martino e Achille Occhetto. Giulio Andreotti giunse a Messina direttamente da
Palermo dove aveva assistito, da imputato, ad un’udienza dello storico processo per concorso
esterno in associazione mafiosa. Andreotti al tempo, era anche imputato al processo per

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l’omicidio del giornalista Mino Pecorelli a Perugia. Come è noto, da questi processi Andreotti
uscirà assolto.
84 Il sen. Calarco è stato commissario di sconto del Banco di Sicilia e componente della
commissione distrettuale delle Imposte dirette. Per la sua elezione al Senato scese
direttamente in campo il consorzio La Casa Nostra, che per l’occassione sperimentò il voto
differenziato: per il Senato Calarco; per la Camera dei deputati il PSI, preferenze all’allora
ministro Nicola Capria, a Natale Amodeo e Salvatore Rizzo; per il parlamento europeo Salvo
Lima. Dietro la realizzazione del complesso edilizio La Casa Nostra, un’opera devastante dal
punto di vista paesaggistico e del territorio, sono stati determinanti gli interessi economici dei
gruppi mafiosi vicini all’imprenditore Michelangelo Alfano. “Per il complesso edilizio di Tremonti
– ha dichiarato ai magistrati il collaboratore Gaetano Costa – erano direttamente interessati
Leoluca Bagarella, Luciano Liggio, Mariano Agate, Totò Riina, Leonardo Greco ed altri esponenti
di Cosa Nostra”.
85 Alberto Sensini fece domanda di affiliazione alla P2 il 2 settembre 1977, quando stava per
aprirsi la corsa alla direzione del Corriere della Sera, dopo le dimissioni di Piero Ottone. L'8
novembre 1977 la sua domanda fu accolta. Successivamente Sensini cominciò a pensare
“d'aver fatto una sciocchezza” e su sua richiesta, nel giungo 1978 entrò nella condizione di
"sospeso".
86 Di Costantino Belluscio, la Gazzetta del Sud giunse a pubblicare una smentita di affiliazione
alla loggia P2, lunga tre colonne, nonostante i giudici fossero in possesso di alcune ricevute di
pagamento del parlamentare a favore di Licio Gelli.
87 La scelta di Nino Calarco da parte dell’allora presidente del consiglio Giulio Andreotti, fu
fatta di concerto con i ministri dei lavori pubblici Giovanni Prandini e dei trasporti Carlo Bernini.
I due ministri saranno travolti dallo scoppio di Tangentopoli.
88 In Ondaverde, n. 9, gennaio-febbraio 1991, p. 79.
89 Va aggiunto che il figlio dell’on. Nino Calarco, Duilio, ha assunto recentemente l’incarico di
giornalista presso la sede regionale di Palermo di Rai Tre.
90 Nell’ordinanza dei magistrati di Reggio si fa esplicito riferimento ad “una politica calabrese
prigioniera, ingabbiata e soprattutto manovrata”, pronta ad allontanare il direttore generale
della Asl che non si era piegato alle intimidazioni mafiose, per sostituirlo con Francesco
Cosentino, detto ‘Ciccio mazzetta’, “già arrestato per concussione, legato alla massoneria di
Vibo Valentia e contiguo agli interessi della 'ndrangheta” (F. Folda, “Minniti e quel favore molto
Stretto”, in Panorama, 18 novembre 2000).
91 In una telefonata del 9 settembre 1999, l’ex generale dei carabinieri Francesco Delfino si
rivolgeva al giornalista Pollichieni perché il sottosegretario diessino Marco Minniti si
interessasse alla sua vicenda processuale relativa al sequestro dell’imprenditore Giuseppe
Soffiantini, conclusasi con la condanna a tre anni e quattro mesi per il reato di truffa. Il nome
del generale Delfino è comparso tra le carte di un’altra inchiesta, quella relativa ad maxitraffico
d’armi gestito dalle cosche catanesi, l’imprenditore messinese Filippo Battaglia e alcuni
esponenti siciliani vicini a Forza Italia. A Delfino, al tempo in forza al comando dei Carabinierri
di Roma, si rivolgeva telefonicamente l’ex agente Walter Beneforti, in stretto contatto con i
principali trafficanti siciliani.
92 Esponente dei DS, Minniti, è il politico di governo che insieme a Lamberto Dini si recherà a
Tunisi per partecipare ai solenni funerali del latitante Bettino Craxi. Interrogato come teste
nell’indagine sulla malasanità, Marco Minniti ha ammesso di conoscere l’omonimo
amministratore della Edilminniti e di averlo incontrato sia a Reggio Calabria che Roma.
93 F. Folda, “Minniti e quel favore molto Stretto”, in Panorama, 18 novembre 2000.

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94 Ibidem.
95 In Gazzetta del Sud, 1 febbraio 2001.
96 In Gazzetta del Sud, 4 ottobre 1999.
97 Gaetano Martino è il padre di Antonio, attuale ministro della difesa e ministro degli esteri
nel primo governo Berlusconi, una domanda di iscrizione, ‘sospesa’, alla loggia P2 di Licio Gelli.
98 Le elezioni politiche del 1972 rappresentano un grande successo per il partito neofascista,
che a Messina elegge oltre a Uberto Bonino, l’on. Saverio D’Aquino, futuro sottosegretario alla
sanità e agli interni, e che è stato ritenuto dagli inquirenti come uno dei politici locali più
contigui alle organizzazioni criminali.
99 Prima della sua partenza per Milano, il finanziere Michele Sindona lavorava presso lo studio
di Antonino Mangiò, tributarista del gruppo Bonino e sindaco nella Gazzetta del Sud e nella
società Mulini Gazzi di proprietà dei coniugi Uberto Bonino e Sofia Pulejo.
100 La privatizzazione de facto dell’Ateneo e dell’Opera Universitaria oltre alla Fondazione
Bonino-Pulejo vede il protagonismo delle società del Gruppo Franza, che oltre a sponsorizzare
alcune iniziative culturali, sono contestualmente erogatrici per contratto di servizi e
infrastrutture a favore delle istituzioni universitarie di Messina. Gli interessi comuni dei due
grandi gruppi economici vanno al di là della condivisione delle spese per la realizzazione di
eventi culturali in ambito universitario. La Banca Commerciale, oggi in Intesa Bci, ha aperto nel
dicembre ’96 una propria filiale all’interno dei locali della Gazzetta del Sud di Via Bonino a
Messina; i loghi del Gruppo Franza e della Fondazione Bonino-Pulejo compaiono accanto nelle
campagne abbonamento per le stagioni calcistiche del Messina di serie B, squadra di cui è
vicepresidente Pietro Franza. Nella stagione 95-96, quella del rilancio del Messina Calcio e
dell’ingresso nella proprietà dei Franza, il Centro Neurolesi della Fondazione è stato lo sponsor
principale della squadra.
101 Attualmente l’amministratore della SES è il presidente dell’Associazione Industriali di
Messina Gianni Morgante.
102 “Tra quattro anni saranno necessari centinaia di ingegneri, che non dovranno certo essere
presi altrove” ha inoltre dichiarato Nino Calarco. “Mafia e 'ndrangheta si sconfiggono con il
progresso economico che deve coinvolgere le giovani leve siciliane e calabresi, alle quali è
giusto dare la possibilità di proiettarsi nel futuro” (Gazzetta del Sud, 15 marzo 2002).
103 In Gazzetta del Sud, 28 aprile 2002.
104 E. Ciconte, ‘Ndrangheta dall’unità ad oggi’, Laterza, Bari, 1992, p. 299.
105 Comitato messinese per la pace e il disarmo unilaterale, “Le mani sull’Università”,
Armando Siciliano Editore, Messina, 1998, p. 149-150.
106 E.Ciconte, “’Ndrangheta dall’unità ad oggi”, cit., p. 243.
107 Salvatore Cacace è stato candidato nelle file del PSDI dell’ex sottosegretario alla Difesa
on. Dino Madaudo, accusato dai magistrati di legami con il clan Marchese della zona nord della
città di Messina e con il boss Giuseppe Pulvirenti ‘u Malpassotu’ di Catania. Madaudo è stato
assolto dall’accusa di voto di scambio con la mafia per intervenuta prescrizione del reato.
108 La società S.p.i.d.a. aveva progettato la lottizzazione di una vasta area per creare
insediamenti industriali, in un terreno a ridosso del villaggio Tremestieri, noto come ‘Villa
Melania’, sottoposto a vincolo della Soprintendenza nel settembre del 1991 dopo che le ruspe

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portarono alla luce alcuni reperti che hanno confermato l'esistenza di un insediamento romano
di età imperiale.
109 Carlo Pesenti e Mario Ciancio siedono inoltre nel consiglio d’amministrazione della Gazzetta
del Sud Calabria S.P.A, società che cura la stampa delle edizioni calabresi dell’omonimo
quotidiano.
110 In Il Soldo, 16 marzo 1985.
111 Giuseppe La Loggia è il padre dell’attuale ministro di Forza Italia, Enrico La Loggia. Alla
vigilia delle elezioni politiche del 1994, la Procura di Palermo intercettò il futuro ministro La
Loggia in un colloquio telefonico con il commercialista Giuseppe Mandalari, gran maestro di
logge massoniche coperte e uomo di fiducia del boss Totò Riina.
112 Il rapporto tra l’on. La Loggia e Carlo Pesenti continuò negli anni successivi: grazie
all’industriale del cemento e a Carlo Faina della Montecatini, La Loggia ottenne “il sostegno
economico e politico per essere eletto nuovo presidente del governo regionale. E quel governo
venne chiamato dalla stampa di opposizione proprio “il governo dei due Carletti”” (M.
Bartoccelli, “La via giudiziaria al deserto Sicilia. Rapporto su come, per colpire la mafia, la
magistratura ha ucciso l'economia dell'isola”, www.liberalfondazione.it, 2001).
113 Salvatore Ligresti, costruttore intimamente legato a Bettino Craxi e al PSI lombardo è
stato indagato e prosciolto per lo scandalo delle lottizzazioni del ‘Piano Casa’ di Milano; è stato
arrestato con l’accusa di corruzione per i lavori alla metropolitana di Milano, per l’acquisto di un
terreno dell’IPAB, e per l’affare Sai-Eni, il cui procedimento si è concluso con la condanna in
primo grado di Ligresti a quattro anni e quattro mesi. L’imprenditore è riuscito però ad evitare
il carcere facendosi affidare ai servizi sociali. Ligresti è stato coinvolto inoltre nell’indagine sul
tracollo della Maa Assicurazioni di Paolo Berlusconi (G. Barbacetto, P. Gomez, M. Travaglio,
“Mani Pulite. La vera storia”, Editori Riuniti, Roma, 2002, p. 675). Su un ipotetico legame
dell’imprenditore con la criminalità si è soffermato il collaboratore di giustizia Luigi Sparacio,
che in riferimento ad alcune opere in via di realizzazione a Messina, ha dichiarato di aver
ricevuto segnalazioni di imprese dal clan Santapaola “a cui erano interessati i palermitani”. Tra
esse, Sparacio nomina la Di Penta, “un’impresa di calcestruzzi di Ravenna” e la Grassetto di
Salvatore Ligresti che al tempo stava realizzando lavori per 73 miliardi presso il Policlinico
Universitario di Messina (Comitato Messinese per la Pace e il Disarmo Unilaterale, “Le mani
sull’Università”, cit., pp. 79-80). L’azienda di Ligresti, secondo i giudici, per ottenere l’appalto,
avrebbe versato tangenti del 5-6% a funzionari e politici locali. Come vedremo
successivamente la Grassetto è tra i soci dell’IGI-Istituto Grandi Infrastrutture presieduto da
Giuseppe Zamberletti, neopresidente della Società Stretto di Messina.
114 L’Italcementi ha acquisito nel 1992 il Gruppo Ciments Français, conquistando la leadership
internazionale della produzione del cemento. Attualmente possiede al mondo 53 cementerie,
13 centri di macinazione, 150 cave di aggregati, 533 centrali di betonaggio. L’attività è
focalizzata sulla produzione di cemento (oltre il 60% del fatturato) e si integra con la
produzione di calcestruzzo, aggregati e materiali per l’edilizia.
115 Il Gruppo Pesenti, già titolare del 36% del pacchetto azionario della Calcestruzzi S.p.a., ha
acquisito la restante quota societaria dalla Calcemento S.p.a. del Gruppo Lucchini.
116 In E. Bellinvia e S. Palazzolo, “Falcone Borsellino. Mistero di Stato”, Edizioni della
Battaglia, Palermo, 2002, pp. 57-58.
117 G. Barbacetto, “Campioni d’Italia”, cit., pp. 204-205.
118 Già alla fine degli anni '80 la Procura della Repubblica di Massa Carrara aveva scoperto che
l'intero capitale della SAM (Società Apuana Marmi) e dell'Imeg (Industria di Marmi e Graniti),
erano stati ceduti dall'ENI alla Calcestruzzi di Ravenna. L’affare fu realizzato dalla Generale

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Impianti, il cui capitale sociale apparteneva alla Finsavi, società al 50% dei fratelli Buscemi.
Direttore della Imeg era un parente di Buscemi, Rosario Sfera, che diventerà procuratore della
Finimeg “società che porta il gruppo Calcestruzzi tra gli affari di Michele Greco, facendogli
acquistare il complesso immobiliare di Pizzo Sella di proprietà di Rosa Greco Notaro, sorella del
boss Michele Greco” (M. Bartoccelli, “La via giudiziaria al deserto Sicilia”, cit.,
www.liberalfondazione.it.). I lavori di realizzazione del complesso di Pizzo Sella furono eseguiti
inizialmente dall’impresa Sicicalce di Andrea Notaro, marito di Rosa Greco, e furono terminati
dalla Cisa del Gruppo Ferruzzi, guidata dal manager Giuliano Visentin.
119 Hanno scritto in merito i magistrati palermitani: “Non risultano acquisiti elementi per
affermare né per escludere che Salvatore Riina abbia investito propri capitali nelle attività
imprenditoriali del gruppo Ferruzzi. Certo è che Gardini e Penzavolta ben sapevano legare le
loro sorti a quelle di soggetti di cui conoscevano l’influenza e il carisma nel contesto mafioso
palermitano e anzi ritenendo proprio per questo di potere più facilmente introdursi nel difficile
mercato siciliano”. “Non è dato conoscere se vi sia stata una molla scatenante che abbia
indotto i maggiori rappresentanti di uno dei gruppi imprenditoriali più importanti del nostro
paese a mettere totalmente e del tutto consapevolmente a disposizione di pericolosissimi
esponenti di Cosa Nostra la loro struttura, il credito acquisito presso il sistema bancario, il loro
prestigio”.
120 La Crea è stata ceduta dal Gruppo Franco Tosi nei primi mesi del 2000.
121 Attualmente Italgen-Italcementi dispone in Italia di tre centrali termoelettriche con una
potenza installata di circa 150 Mw, di tredici centrali idroelettriche con una potenza di circa 50
Mw, e di linee di alta tensione per oltre 400 chilometri.
122 Con l’accordo con il Gruppo Monti-Riffeser, i Pesenti hanno ceduto la proprietà della
Editrice Romana (editrice del quotidiano Il Tempo) e della Società Tipografica Tiburtina. Le tre
testate edite dalla Poligrafici Editoriale sono invece quelle con cui la Gazzetta del Sud ha un
accordo per la produzione congiunta delle pagine di politica interna ed estera.
123 L’Hdp di Romiti possiede il 7,6% del pacchetto azionario della Poligrafici Editoriale; è
inoltre titolare di una quota della società informatica Dada, attiva nel sistema internet. La Hdp
è inoltre attiva nel mercato della moda, dove controlla la Fila e sino allo scorso marzo la
Valentino, poi ceduta alla Marzotto.
124 Giampiero Pesenti è stato accusato in qualità di presidente del Gruppo Gemina di aver
coperto artificiosamente parte dei 446 miliardi di perdite sui crediti rateali della Rizzoli-Corriere
della Sera. Il processo è stato bloccato all’inizio del maggio 2002 per intervenuta prescrizione
del reato (G. Barbacetto, P. Gomez, M. Travaglio, “Mani Pulite”, cit., p. 658).
125 Dalle ceneri del Banco Ambrosiano è sorto il Banco Ambroveneto, oggi confluito nel
Gruppo Banca Intesa Bci.
126 L. Sisti, G. Modolo, “Il Banco paga. Roberto Calvi e l’aventura dell’Ambrosiano”, Arnoldo
Mondadori Editore, Milano, 1982, p. 203.
127 Carlo Pesenti entra nel consiglio di amministrazione della Centrale, insieme ad altri grossi
personaggi dell’imprenditoria italiana, Alberto Grandi (Gruppo Bastogi), Giovanni Fabbri
(azionista del Gruppo Rizzoli-Corriere della Sera e industriale della carta), e il re dell’acciaio
Luigi Lucchini. Questo gruppo aprirà uno scontro con la cordata di imprenditori guidata da
Enrico Cuccia e Mediobanca, riunitosi nella Consortium e a cui aderirono gli Agnelli, i Bonomi,
Mondadori, Silvio Berlusconi e lo stesso Lucchini.
128 L. Sisti, G. Modolo, “Il Banco paga”, cit., p. 205.

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129 Nel 1979 sono la Toro Assicurazioni con la Kredietbank di Anversa, la Credito Overseas di
Panama e lo IOR del Vaticano a detenere il pacchetto di maggioranza del Banco Ambrosiano.
Tre anni più tardi, quando scoppia il crack dell’istituto di Milano e viene assassinato Roberto
Calvi, la situazione è diversa: l’Italmobiliare di Milano ne è il maggiore azionista (3,62%),
seguita dalla Kreditbank (3,2%), dalla Credito Overseas (2,71%) e dallo IOR (1,58%) (M. A.
Calabrò, “Le mani della Mafia. Vent’anni di finanza e politica attraverso la storia del Banco
Ambrosiano”, Edizioni Associate, Roma, 1991, p. 248).
130 Al tentativo di ‘salvataggio’ del Banco Ambrosiano parteciparono tra gli altri due
personaggi che sono riusciti a superare brillantemente le tempeste politico-giudiziarie degli
scandali dell’Ambrosiano e della loggia P2: il faccendiere sardo Flavio Carboni e l’amico
Giuseppe Pisanu, anch’egli sardo, ex sottosegretario DC, neoministro agli interni del governo
Berlusconi.
131 Attraverso il Banco Andino avvennero i pagamenti di una serie di forniture di materiale
bellico (missili Exocet, cannoni navali Oto Melara, velivoli da trasporto Aeritalia, elicotteri
Agusta) a favore dell’Argentina dei generali golpisti affiliati alla P2 di Licio Gelli. Scoppiata la
guerra con gli inglesi per le Falkland-Malvinas, il buco del Banco Andino divenne una voragine
e il banchiere Roberto Calvi fu costretto a riparare in Svizzera per fuggire ai magistrati italiani
che indagavano sul crack dell’Ambrosiano. Il 17 giugno 1982, giorno delle dimissioni a Buenos
Aires del generale Galtieri, Calvi venne ritrovato impiccato a Londra sotto il 'Blackfrias Bridge',
il ponte dei frati neri, l'unico del Tamigi dipinto in bianco e celeste, i colori della bandiera
argentina.
132 L. Sisti, G. Modolo, “Il Banco paga”, cit., p.154.
133 Oltre ai Pesenti, Battaglia sarebbe stato in contatto con le note famiglie della finanza
Bonomi e Bulgari.
134 In un troncone dell’inchiesta sui ‘mandanti coperti’ delle stragi, sono stati indagati a
Caltanissetta l’attuale presidente del consiglio Silvio Berlusconi e il braccio destro Marcello
Dell’Utri. Lo scorso maggio il Gip ha archiviato l’inchiesta per l’”insufficienza e la
frammentarietà delle prove raccolte”. Nel suo provvedimento di archiviazione, il Tribunale di
Caltanissetta scrive però che sono stati “accertati rapporti di società facenti capo al gruppo
Fininvest con personaggi in varia posizione collegati all’organizzazione di Cosa Nostra”. “Vi è
insomma da ritenere – conclude il Gip di Caltanissetta – che tali rapporti di affari con soggetti
legati all’organizzazione abbiano quantomeno legittimato agli occhi degli ‘uomini d’onore’ l’idea
che Berlusconi e Dell’Utri potessero divenire interlocutori privilegiati di Cosa Nostra”.
135 in G. Barbacetto, P. Gomez, M. Travaglio, “Mani Pulite”, cit., p. 180.
136 In Sicilia, la Cogefar-Impresit è stata tra le maggiori committenti nazionali accanto alla
Calcestruzzi del Gruppo Ferruzzi, alla Lodigiani di Roma, alla CMC di Ravenna e alla Grassetto
del cavaliere Salvatore Ligresti. A fine anni ’90, il dirigente Impregilo per l’area siciliana,
Giuseppe Crini, è stato arrestato nell’ambito dell’inchiesta denominata ‘Trash’, relativa alla
gestione della discarica di Bellolampo (Palermo) e del piano regionale di realizzazione di alcune
discariche comprensoriali in Sicilia, su cui erano forti gli interessi dei maggiori gruppi criminali.
Giuseppe Crini aveva lavorato in passato presso la Cisa del Gruppo Ferruzzi, la società che ha
realizzato il devastante complesso immobiliare di Pizzo Sella. E’ interessante sottolineare che
nell’ambito dell’inchiesta ‘Trash’ è stato arrestato anche l’imprenditore Romano Tronci, titolare
della De Bartolomeis, società realizzatrice con la Fiat-Impresit del grande depuratore di
Palermo, i cui costi lievitarono dai 14 miliardi preventivati ai 170 finali. Tronci, vicino ad
ambienti del PCI-PDS, si era associato con la Calcestruzzi del Gruppo Ferruzzi e l’Ansaldo per
ottenere, dietro il pagamento di una grossa tangente, i lavori per la desolforazione di alcune
centrali a carbone dell’Enel.

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137 L’Impregilo è in mano al gruppo Gemina S.p.A che detiene il 15,63% del pacchetto
azionario, al Gruppo Fiat-Sicind S.p.A. (4,7%), alla Girola Partecipazioni S.p.A. (2,77%) e a
cinque importanti istituti bancari nazionali, la Banca di Roma, la Banca Commerciale Italiana, il
Credito Italiano, Cariplo e il Gruppo Bancario San Paolo-Imi. Per un approfondimento sulle
maggiori infrastrutture realizzate nel Sud del mondo dalla Cogefar-Impregilo, si veda: A.
Mazzeo, A. Trifirò, “Colombia. Conflitto armato, ruolo delle multinazionali e violazione dei diritti
indigeni”, Palombi Editori, Roma, 2001, pp.122-144. Si veda anche
www.terrelibere.it/impregilo.
138 in Carta n. 20, 23-29 maggio 2002, pag. 25.
139 In particolare la Rocksoil di Pietro Lunardi è stata tra le progettatrici nel 1994 delle gallerie
Pianoro, Saderano, Monte Bibele, Raticosa, Scheggianico, Fiorenzuola, Rinzelli, Morticina e
Vaglia (Alta Velocità Bologna-Firenze), e delle gallerie Collatina, Massimo, Colli Albani,
Sgurgola, Macchia Piana 1 e 2, La Botte, Castellana, S. Arcangelo, Selva Piano, Collevento,
Selvotta, Colle Pece, Campo Zillone 1 e 2, Briccelle, Castagne, Santuario (Alta Velocità Roma-
Napoli).
140 G. Barbacetto, P. Gomez, M. Travaglio, “Mani Pulite”, cit., p. 25.
141 L’Iri-Italstat, che vedremo successivamente coinvolta nel grande affare dell’Alta Velocità, è
l’azionista di maggioranza della Società Stretto di Messina a cui è affidata la progettazione e la
realizzazione del Ponte.
142 I. Cicconi, “La storia del futuro di Tangentopoli”, Dei-Tipografia del Genio Civile, Roma,
2000.
143 Ibidem.
144 G. Barbacetto, P. Gomez, M. Travaglio, “Mani Pulite”, cit., p. 559.
145 Nelle indagini, avviate dalla Procura di La Spezia, è stata individuata una misteriosa
società di progettazione dell’Alta Velocità, la Tpl, in mano a Pacini Battaglia, che avrebbe
ricevuto anticipazioni finanziarie largamente superiori al fatturato; dai bilanci della Tpl
sarebbero emerse “irregolarità contrattuali e procedurali che dimostrano sia il vantaggio
economico che il favore riservato a Tpl da parte dei responsabili decisionali di Italferr, Tav e
Fs”. Sempre in ambito ferroviario, Pacini Battaglia avrebbe mediato anche una tangente
versata dal Consorzio Ferscalo per aggiudicarsi i lavori di un gigantesco terminal ferroviario alle
porte di Milano, lo Scalo Firenza. Al consorzio aderivano la Cogei della famiglia Rendo di
Catania, la Lodigiani di Roma e il Consorzio cooperative costruzioni di Bologna, una delle
maggiori coop rosse. Il nome di Pacini Battaglia, accanto a quello di Sergio Cragnotti compare
anche nella maxi-inchiesta Enimont.
146 G. Barbacetto, P. Gomez, M. Travaglio, “Mani Pulite”, cit., p. 561.
147 Dal 1989, la Rocksoil è stata trasformata in società per azioni e che conta attualmente su
una sessantina di collaboratori. Per conoscere la lista completa delle opere progettate dalla
Rocksoil della famiglia Lunardi si consulti il relativo sito web www.rocksoil.com.
148 Il valore delle consulenze della Rocksoil a favore della RAV è stato di circa sette miliardi di
vecchie lire; più specificatamente tra il 1989 e il 1990 sono state progettate per l’autostrada
Aosta-Monte Bianco le gallerie Villenueve, Avise, Leverogne, Les Cretes e Villaret.
149 G. Barbacetto, “Campioni d’Italia”, cit., pag. 412.

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150 In Il nuovo Soldo, 22 giugno 2002. Nel nuovo consiglio di amministrazione della Stretto di
Messina oltre a Carlo Bucci e Lino Cardarelli, hanno fatto ingresso Giuseppe Calcerano, Ercole
Pietro Pellicanò, Vito Riggio, Francesco Sabato (ANAS), Renato Gabrio Casale (FS), Emmanuele
Emanuele (Regione Calabria) ed Elio Fanara (Regione Siciliana). Nel collegio sindacale sono
stati invece nominati Lucio Brundo (presidente), Gaetana Celico, Giuseppe Chessa (sindaci
effettivi), Lucio Mariani, Giovanni Rizzica e Giuseppe Pedalino (sindaci supplenti).
151 In Gazzetta del Sud, 29 aprile 2002.
152 Giuseppe Zamberletti è stato inoltre componente dell’Assemblea Parlamentare dei Consigli
d’Europa e dell’Unione Europea Occidentale. E’ attualmente presidente dell’UNAIE, associazione
di sostegno agli italiani emigrati all’estero, e come vedremo, dell’IGI, l’Istituto Grandi
Infrastrutture.
153 in Il Resto del Carlino, 29 novembre 2000.
154 Per la realizzazione del suo Piano di Rinascita Democratica in Italia, Licio Gelli guardava
con particolare attenzione, tra gli altri, all’ex ministro democristiano Antonino Gullotti,
messinese, oggi scomparso. Gullotti è ritenuto il maggior ‘padrino’ delle fortune della famiglia
Franza. La sorella Angelina, sposa del sen. Luigi Genovese, con il nipote Francantonio
Genovese, risultano tra gli azionisti e i membri del C.d.a. della Tourist Ferry Boat, della Satme
S.p.A. e della Framon Hotel S.r.l. del Gruppo Franza.
155 John Mc Caffery senior, insieme a Licio Gelli ed Edgardo Sogno ha firmato gli ‘affidavit’ a
favore di Michele Sindona per evitarne l'estradizione in Italia a seguito dell’inchiesta giudiziaria
per bancarotta. Ha dichiarato Mc Caffery: "Sindona è anticomunista, filoamericano, progettò un
colpo di Stato in Italia nel 1972. Era destinato ad insediare un governo filoamericano e
capitalista. A questo progetto partecipai anch'io. Ci incontrammo con ufficiali di alto rango delle
forze armate italiane e Sindona, per proprio conto, ebbe contatti con la Cia e con funzionari di
rango elevato dell'ambasciata americana a Roma". I primi contatti tra Michele Sindona e John
Mc Caffery risalirebbero al periodo in cui il finanziere di Patti sarebbe stato 'arruolato' da Lucky
Luciano per tenere i collegamenti tra gli agenti segreti italo-americani Vincent Scamporino e
Max Corvo con i capi mafiosi della Sicilia, alla vigilia dello sbarco alleato del 1943.
156 U. Santino, “Il ruolo della mafia nel saccheggio del territorio”, paper, Gibellina, 1993, pp.
15-17.
157 I. Sales, “La camorra, le camorre”, Editori Riuniti, Roma, 1988, p. 198.
158 Giuseppe Zamberletti è anche presidente del Forum Europeo dell’Ingegneria generale e di
costruzioni e del Forum europeo delle Grandi Imprese, uno degli interlocutori privilegiati dei
Commissari e degli uffici della Commissione lavori pubblici e infrastrutture dell’Unione europea.
159 Franco Nobili è stato inoltre membro della Giunta Confederale della Confindustria e
vicepresidente dell'ANCE, l’Associazione Nazionale Costruttori Edili, e consigliere dell’Istituto
dell’Enciclopedia italiana, Attualmente ricopre l’incarico di presidente dell’Unione di Amicizia
Italia-Turchia, paese quest’ultimo nel mirino delle maggiori organizzazioni umanitarie
internazionali per le costanti violazioni dei diritti umani e per le attività di repressione del
popolo kurdo.
160 G. Barbacetto, P. Gomez, M. Travaglio, “Mani Pulite”, Op. cit., p. 675.
161 Oltre ai Benetton in Autostrade S.p.a. sono presenti tra i maggiori azionisti la Fondazione
Cr Torino, Acesa, le Assicurazioni Generali, Unicredito.

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162 Al tempo della presidenza di Giancarlo Elia Valori della telefonica Sirti, la Stet che ne era
proprietaria, era era presieduta dal politico socialista calabrese Michele Principe, iscritto alla P2
di Licio Gelli come lo stesso Valori.
163 La biografia di Giancarlo Elia Valori è tratta da G. Barbacetto, “Campioni d’Italia’, cit., pp.
84-95.
164 G. Barbacetto, “Campioni d’Italia”, cit., p. 94.
165 Ibidem, p. 87.
166 Ibidem, p. 88.
167 Comitato Messinese per la Pace e il Disarmo Unilaterale, “Le mani sull’Università”, cit., p.
155.
168 Nel C.d.A. della Pierrel siede con Claudio Calza anche Flavio Briatore, ex accompagnatore
di Noami Campbell ed ex manager della scuderia automobilistica della Benetton.
169 “A proposito di Claudio Calza - ha raccontato ai giudici il collaboratore Gerardo Gastone -
posso dire che lo stesso è una testa di cuoio dell’onorevole Sanza Angelo, lo so con certezza
perchè ho lavorato con Sanza per tre anni. Il Calza, in sostanza, gestisce la Job Orienta
Business che è la società presso al quale si trova l’ufficio di Roma dell’ing. Antonio De Sio e
dove, almeno in passato, lavorava la signora Aurora Bisogni, moglie di Sanza. Negli uffici di
Roma vengono gestiti gli affari sia di De Sio che di Sanza che, peraltro, sono tra loro
legatissimi. (...). So che tra i De Sio e Calza ci sono ingenti movimenti di denaro, in particolare
spesso il dottor Michele versa denaro a Calza. So che in passato sicuramente Calza Claudio ha
smistato tangenti per Sanza” (in Gazzetta del Sud, 31 maggio 2002).
170 Gazzetta del Sud, 11 giugno 2002.
171 Tra le società implicate nell’inchiesta sulle ‘Fiamme sporche’, oltre alla Girola, c’è la
controllata Cogefar, la finanziaria della famiglia Agnelli Gemina, la Falck del gruppo Pesenti, la
Lodigiani di Roma, l’Euromercato dei fratelli Berlusconi.
172 G. Barbacetto, P. Gomez, M. Travaglio, “Mani Pulite”, cit., p. 191.
173 Ibidem, p. 44.
174 La Torno di Milano è indagata a Messina nell’ambito dell’inchiesta sulla realizzazione dei
megasvincoli autostradali di Giostra e Annunziata, insieme ad amministratori e funzionari
comunali ed ai titolari della società di costruzioni di Barcellona Gitto & figli. Per un
approfondimento sull’inchiesta si veda www.terrelibere.it/gitto).
175 G. Barbacetto, P. Gomez, M. Travaglio, “Mani Pulite”, cit., p. 169.
176 Ibidem, p. 568.
177 Ibidem, p. 123. La Pizzarotti S.p.a. è una delle società che ha particolarmente contribuito
al processo di militarizzazione della Sicilia, ottenendo importanti appalti per la realizzazione
della ex base nucleare di Comiso. Per un approfondimento si veda
www.terrelibere.it/memoriacomiso.
178 Ibidem, p. 15.

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179 Secondo i magistrati di Palermo, Totò Riina avrebbe promosso un comitato d’affari tra lo
stesso Filippo Salamone, i fratelli Buscemi e il Gruppo Ferruzzi, che esautorando Angelo Siino,
avrebbe regolato negli anni ’90 la spartizione degli appalti in Sicilia, d’intesa con i politici, gli
imprenditori e la mafia. Filippo Salamone è titolare dell’Impresem e fratello del giudice Fabio
Salamone in forza alla procura di Brescia, titolare dei procedimenti contro i giudici del pool di
Mani Pulite di Milano.
180 Centro siciliano di documentazione ‘Giuseppe Impastato’, “Accumulazione e cultura
mafiosa”, Palermo, 1979, pp. 12-19.
181 Ansa. “Ponte Stretto, Società può essere appaltante”, 30 luglio 2001, ore 16.34.42.
182 Come per Nino Calarco e Gianfranco Gilardini, la nomina di Baldo de Rossi ai vertici della
Società Stretto di Messina fu firmata dal trio di governo Andreotti-Prandini-Bernini.
183 Solo nel 1998 la Mitsubishi Heavy Industries LTD, una delle più grandi società costruttrici
di ponti al mondo, ha manifestato il proprio interesse a partecipare, sia in qualità di costruttore
che di finanziatore, alla realizzazione del Ponte sullo Stretto di Messina. Da allora non sono
seguiti ulteriori interventi.
184 Dalla lettura del testo elaborato dalla commissione ‘Ponte sullo Stretto’ dell’IGI, si evince
che i massimi dirigenti dell’istituto si sono recati di recente a Bruxelles per incontrare “il
professor Mattera e i suoi collaboratori della Direzione Generale del Mercato Interno”. Poi a
Roma c’è stata una riunione tra l’IGI e il capo dell’ufficio legislativo della Presidenza del
Consiglio per approfondire il tema della “situazione giuridica” e dell’apertura ai privati della
Stretto di Messina. Un’ulteriore prova di quanto stia a cuore al consorzio dei grandi costruttori
di tangentopoli, la realizzazione dell’Opera.
185 Il sole-24 Ore ha ipotizzato la “regolamentazione del servizio di traghettamento e
contenimento degli effetti indotti dal trasferimento di traffico alle autostrade del mare” (Il sole-
24 Ore, 7 ottobre 2001). Come spiegato da Giuseppe Gilimberti, presidente di Italia Nostra-
Sicilia, ciò significherebbe che “data la prevedibile necessità di imporre alte tariffe al transito
dei mezzi si dovrà intervenire per evitare che flussi di traffico in specie commerciale possano
prendere la strada del cabotaggio. Ciò non potrà non avvenire se non costringendo anche gli
operatori marittimi ad imporre alte tariffe o evitando di mettere a disposizione le infrastrutture
necessarie allo sviluppo di questo tipo di traffico” (G. Giliberti, “Il gioco dei tre Ponti di
Messina”, Bollettino Nazionale di Italia Nostra, ottobre 2001).
186 Il ministro delle infrastrutture Pietro Lunardi ha le idee chiare sul modello che dovrà
caratterizzare i lavori di realizzazione del Ponte. Nel corso della sua recente visita a Messina ha
dichiarato ai giornalisti che per accelerare i tempi di consegna dell’opera, il governo prevederà
“turni di notte, per complessivi tre turni nel corso della giornata; riconoscimento di incentivi
economici alle imprese che consegneranno i lavori prima dei termini contrattuali; lotti unici
affidati a un “general contractor” con costi e tempi certi” (Gazzetta del Sud, 26 aprile 2002).
187 La relazione finale della commissione IGI per il ‘Ponte sullo Stretto’ è consultabile su
internet all’indirizzo www.igitalia.it/documenti.
188 R. Sciarrone, “E la mafia, starà a guardare?”, cit., pp. 184-185.
189 Sui limiti e le contraddizioni del ‘Project financing’, la ‘progettazione attraverso la
finanziazione pubblica-privata’, si veda M. Lo Cicero, “Project Financing” in AA.VV., ‘Ponte sullo
Stretto’, cit., pp.187-208.
190 Per comprendere appieno la ‘cultura ambientale’ del neopresidente della Stretto di Messina
Giuseppe Zamberletti, è rilevante il successivo passaggio della relazione svolta davanti alle
società e alle banche dell’Istituto Grandi Infrastrutture: “Si è preferito fasciarsi la testa con

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norme farraginose, pensate in una logica appaltistica, che scoraggiano qualsiasi promotore che
abbia idee e soldi e che desideri investirli in progetti remunerativi. (...) Le penalizzazioni
operative imposte dalla Merloni con le successive integrazioni, gli affanni derivanti da un
faticoso processo autorizzatorio, gestito con tutte le prudenze indotte da un khomeinismo
ambientalista, capace di condizionare la pubblica amministrazione, avevano già da tempo
appesantito il mercato dei lavori pubblici, incidendo negativamente sulla attività ordinaria
riguardante le opere programmate” (Giuseppe Zamberletti, “Relazione di chiusura dell’anno
sociale 2001”, Roma, 21 maggio 2001, in www.igitalia.it/documenti).
191 Ansa. “Ponte Stretto, al via audizioni banche”, 3 settembre 2001, ore 18.41.16.
192 Si tratta della cosiddetta “Legge Obiettivo” o “Legge Lunardi” (è la n. 443 del 21 dicembre
2001, “Delega al Governo in materia di infrastrutture ed insediamenti produttivi strategici ed
altri interventi per il rilancio delle attività produttive”. Le norme della legge delega riguardano
oltre al Ponte sullo Stretto di Messina, la realizzazione di altre grandi opere infrastrutturali di
enorme impatto ambientale, tra cui il sistema delle Mose di Venezia, l’autostrada Livorno-
Civitavecchia e la linea ferroviaria ad Alta Velocità Milano-Genova.
193 Per un’analisi approfondita della ‘legge obiettivo’ del ministro Pietro Lunardi, si veda A.
Becchi, “A proposito del Ponte”, in AA.VV., ‘Ponte sullo Stretto’, cit., pp.127-138.
194 In Gazzetta del Sud, 5 maggio 2002.
195 Gli effetti di una deroga in tema di Valutazione dell’Impatto Ambientale nel progetto del
Ponte sarebbero devastanti, considerato anche il fatto che sino ad oggi gli studi ambientali
allegati al progetto sono incompleti e deficitari. Se ne è accorto lo stesso ministro Lunardi che
ha richiesto l’affidamento di un nuovo studio d’impatto ambientale. Il C.d.A. della Società
Stretto di Messina, il 28 giugno 2002, ha affidato il “servizio d’aggiornamento e integrazione
dello studio di impatto ambientale del Progetto del Ponte sullo Stretto” al Raggruppamento
temporaneo di imprese Systra S.p.A. (mandataria), Bonifica S.p.A., Systra-Sotecni S.p.A., Ast
Sistemi S.r.l..
196 G. Colussi, “Perchè i mafiosi amano tanto il ponte”, Carta, cit., pag. 28.
197 A. Becchi, “A proposito del ponte”, cit., p. 133.