La mappa dei poteri secondo Ciancimino junior
02 febbraio 2010 Saverio Lodato

Ma chi è? Da dove è saltato fuori? E perché dice tutto quello che dice? E tutte queste cose come le sa?
E chi gli lo fa fare di dirle tutte insieme, una dietro l’altra, in un processo pubblico, concedendo perfino che le telecamere
lo riprendano? E perché osa sfidare le ire del generale Mario Mori, petto stracolmo di medaglie pesanti, elargite da prima
e seconda Repubblica, e imputato per favoreggiamento a Cosa Nostra, avendo, secondo l’accusa, fatto scappare
Bernardo Provenzano, ma, comunque sia, uno fra gli uomini dei servizi segreti più potenti e informati d’Italia?

È Massimo Ciancimino, 46 anni vissuti pericolosamente.
Sembra ancora un giovanotto, è di piccola statura, con occhi neri vivacissimi, parlata lenta con parole affilate dal bisturi, in impeccabile grisaglia, persino il panciotto che ormai usano in pochi. E si porta dietro, al banco del pretorio, un bottiglione d’acqua minerale da due litri perché sa che l’udienza sarà lunga e solo la sete potrebbe tirargli brutti scherzi.

Ciancimino è figlio di suo padre,  “don” Vito, che lo prescelse, fra i suoi cinque figli, quattro maschi e una femmina, perché da grande ereditasse il bastone del comando. O che lo allevò sin da bambino, ipotesi subordinata, nell’insolita veste, a futura memoria, di testimone di fatti e persone, retroscena e fuori scena, porcherie di Stato e porcherie di mafia, delitti e stragi ideati da menti tanto più laide proprio in quanto insospettabili.

Solo che, diventando grande, Massimo ha derazzato, si è cioè allontanato dalla via maestra indicatagli dal padre: non è diventato mafioso, forse anche perché i tempi sono cambiati, ma non per questo è diventato pentito, il che, in memoria di cotanto padre, è il minimo che poteva fare.
E ieri Massimo Ciancimino, in quell’aula bunker dell’Ucciardone gemella del primo maxi processo a Cosa Nostra, ha indossato i panni del geografo audace, controcorrente, che disegna le mappe di un mondo spaventoso, dove non splende mai il sole, eternamente buio popolato com’è da creature doppie e triple che governano in ossequio a patti sconosciuti e scellerati, individui sfuggenti che di nomi ne avevano almeno due, ma che tutti, di cognome, facevano: “Nessuno”.

Ora basta con le ciance, sembra dire il figlio di “don” Vito, quando, a proposito degli affari canadesi del padre - che fu Giovanni Falcone a scoperchiare per primo - svela che furono i Caltagirone e i Ciarrapico, imprenditori di razza fina, di salotto buono, a suggerirglieli in vista delle Olimpiadi di Montreal. Basta con il si dice e il non si dice, sembra dire il figlio di “don” Vito quando racconta che il padre, anche se scettico, perché lo considerava “faraonico”, alla fine si fece convincere dai costruttori Bonura e Buscemi, tutti mafiosi e di sua fiducia, a mettere la sua quota nel progetto di “Milano 2”, tenuto a battesimo, e questo neanche gli storici più negazionisti potranno ignorarlo, da Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri.

Ma chi ha raccontato agli italiani, sembra dire il figlio di “don” Vito, la leggenda metropolitana della latitanza di Bernardo Provenzano, quando ricorda tutte le volte che proprio il superlatitante andò a trovare il padre, nel frattempo agli arresti domiciliari nel suo appartamento di via Sebastianello, a due passi da Piazza di Spagna? E in nome di quale mandato, sembra sottintendere il figlio di “don” Vito, reverendissimi Alti Commissari per la lotta alla mafia, quali Emanuele De Francesco e Domenico Sica, ricevevano papà se andava a trovarli in strutture di copertura, mimetizzate presso ospedali o anonimi condomini della periferia romana?

E a chi vogliono raccontare, sottintende ancora una volta il ragazzo che da grande decise di farsi la sua strada, che Totò Riina, era il più gran latitante di tutti i latitanti se suo padre lo riceveva in camera da letto, in Via Sciuti n.85, nel cuore della Palermo per signori costruita, grazie allo scempio edilizio, proprio dalle giunte comunali di Vito Ciancimino, democristiano e persino sindaco di Palermo?

Che quadretti, che istantanee, che siparietti, quelli che l’audace geografo, che riscrive le mappe dei poteri in oltre sessant’anni di storia patria, ci riporta dal mondo spaventoso. Ne vogliamo parlare dei Gioia, dei Ruffini, dei Lima, che per prendere ordini da “don” Vito si servivano di una linea telefonica tutta per loro? La stessa della quale beneficiava Provenzano, che si presentava come “l’ingegner Lo Verde”?

Ce n’è per tutti, sembra sottintendere il disincantato geografo che ormai ha smesso di meravigliarsi, quando ricorda che il padre riuscì a farsi annullare un ordine di carcerazione grazie alle sue aderenze in Cassazione; o quando si impegnò con Luciano Liggio a farlo mettere agli arresti ospedalieri grazie ai suoi rapporti con altissimi magistrati di Palermo.
Non va dimenticato: il figlio di “don” Vito non ha conosciuto questo mondo parallelo, ci è cresciuto dentro sin da bambino. Lo si intuisce quando parla del “signor Franco” che, a volte, diventava il “signor Carlo”; 70 anni e più portati benissimo. Pare sia ancora vivo, i magistrati lo cercano ma non riescono a svelarne l’identità. Un uomo-cerniera fra mondi diversi che ebbe “don” Vito quasi in affidamento, per conto di non si sa chi, sin dagli anni 70, dai tempi in cui Antonio Restivo, democristiano e ministro dell’Interno, lo accreditò, insieme ad un’altra persona, proprio a “don” Vito, come interlocutore e referente.

Deve essere uomo di fedeltà di ferro e solidi principi, l’uomo-cerniera se, a prestar fede a Massimo Ciancimino, in questo come in tutto quello che dice, si recò di persona al cimitero dei Cappuccini a Palermo per assistere alla tumulazione di “don” Vito, nel 2002; e dove, per l’occasione, gli consegnò una busta con le condoglianze alla famiglia proprio di Provenzano che in quel momento - sulla carta- figurava latitante. Infine, la trattativa.

La trattativa fra le stragi di Capaci e via D’Amelio. Il papello, con le richieste di Riina per conto di Cosa Nostra. E Nicola Mancino e Virginio Rognoni, all’epoca ministri democristiani i quali, ancora una volta a detta del figlio di “don” Vito, sapevano tutto quello che c’era da sapere e che avallarono; anche se suo padre, alla ricerca di coperture blindate, non considerandoli all’altezza di un compito così titanico, avrebbe preferito tirarsi dentro Luciano Violante della cui risposta, però, “don” Vito poi non seppe più nulla.

Il resoconto dal mondo spaventoso finisce qui. E con ogni probabilità, già oggi, quando si concluderà la seconda parte della deposizione del figlio di “don” Vito, sarà il generale Mario Mori a rendere dichiarazione spontanea.
È facile prevedere che, davanti alla quarta sezione penale del Tribunale, presieduto da Mario Fontana - giudici a latere Wilma Mazara e Annalisa Tesoriere - squadernerà tutt’altro Atlante.