Per chi vota la mafia di Peter Gomez 20 marzo 2008

L'amico del killer che uccise Falcone,
i notabili sotto processo o assolti per cavilli, i parenti stretti dei padrini.
Tutti i nomi nelle liste di Udc, Pdl e Pd. Ecco il peso dei boss nelle elezioni

Se le cose andranno come devono andare, se in Sicilia l'Udc supererà la soglia dell'8 per cento dei voti, nel prossimo Senato siederà un uomo che Giovanni Brusca, il capomafia killer del giudice Giovanni Falcone, considerava "un amico personale". Si chiama Salvatore Cintola, ha 67 anni, è laureato in lingue e in vita sua è stato prima repubblicano, poi socialdemocratico e quindi socialista. Per qualche settimana ha anche militato in Sicilia Libera, un movimento indipendentista creato nel '93 per volere del boss Luchino Bagarella. Ma alla fine ha scoperto una vocazione per il centro ed è passato alla corte di Totò Cuffaro diventando deputato regionale sull'onda di migliaia di preferenze (17.028 nel 2006). Due anni fa ad Altofonte, raccontano le intercettazioni, la sua campagna elettorale era stata condotta pure dagli uomini d'onore, ma farsi votare dalla mafia non è un reato. Frequentare i boss neppure. E così la posizione di Cintola, iscritto per ben quattro volte nel giro di 15 anni sul registro degli indagati della procura di Palermo, è stata come sempre archiviata.

Cintola, numero quattro del partito di Casini nella corsa a Palazzo Madama, può insomma tentare liberamente il gran salto in Parlamento. E se ce la farà si troverà in compagnia di una foltissima pattuglia di amici, parenti, soci, complici veri, o presunti, di mafiosi, 'ndranghetisti e camorristi. Sì perché mentre Confindustria espelle non solo i collusi, ma persino chi paga il pizzo (persone cioè che codice alla mano non commettono un reato, ma lo subiscono), Udc, Pdl, e, in misura minore, il Pd, di fronte al rischio mafia chiudono gli occhi.

Nelle tre regioni del sud, Sicilia, Calabria e Campania, quello della criminalità è infatti un voto organizzato, al pari di quello delle associazioni dei precari (voti in cambio dei rinnovi dei contratti pubblici) o del volontariato (voti contro finanziamenti). Quanto pesi dipende dalle zone. In alcuni comuni della Calabria, ha spiegato il pm Nicola Gratteri, sposta fino al 20 per cento dei consensi. Numeri analoghi li fornisce a Napoli il sociologo Amato Lamberti che parla di una "joint venture criminale tra camorristi, imprenditori spregiudicati e e politici affaristi, in grado di orientare su tutta la regione il 10 per cento dell'elettorato". Mentre a Palermo, il vicepresidente della commissione antimafia Beppe Lumia (Pd), spiega: "I voti che Cosa nostra controlla sono circa 150mila. Sono una sorta di utilità marginale che, indipendentemente dai sistemi elettorali, serve per raggiungere gli obiettivi: o la quota dell'8 per cento al Senato, o la vittoria complessiva in caso di testa a testa. Solo alla fine della campagna elettorale, comunque, chi opera sul territorio può rendersi conto delle scelte delle cosche. È a quel punto che i mafiosi lanciano segnali: sanno di essere forti e lo fanno pesare".

Già, i segnali, ma quali? I colloqui intercettati durante le ultime consultazioni narrano che Cosa nostra, quando si vede richiedere il voto, sceglie spesso la linea dell'understatement. "Allora noi ci muoviamo. Però con riservatezza, come merita lui, con molta pacatezza, capisci (altrimenti) gli facciamo danno", dicevano nel 2001 i mafiosi di Trabia a chi domandava loro un appoggio per la candidatura di Nino Mormino, l'ex vice-presidente della commissione Giustizia della Camera, oggi lasciato in panchina dal Pdl. Non è insomma più epoca di evidenti passeggiate sotto braccio con il capomafia del paese. E a Palermo, per accorgerti di cosa sta succedendo, devi saper identificare i nomi e i volti di chi distribuisce manifestini o santini elettorali.

Per le politiche del 2006, per esempio, tra ragazzi del motore azzurro, l'organizzazione voluta da Marcello Dell'Utri (condannato in primo grado per concorso esterno e in secondo per tentata estorsione), figurava tutta la famiglia di Rosario Parisi, il braccio destro del boss Nino Rotolo, a cui era stato pure delegato il compito di curare uno dei tanti gazebo berlusconiani. Nel quartiere popolare della Kalsa, invece, fino a venti giorni prima delle amministrative non si vedeva un manifesto. Poi, una bella mattina, sulla saracinesca del negozio vuoto del più importante latitante della zona qualcuno aveva appeso un' immagine del sindaco Diego Cammarata (verosimilmente all'oscuro di tutto). Era il via libera. Mezz'ora dopo i muri dell'intero quartiere, come gli abitanti, parlavano solo di lui.

Non deve stupire: la mafia, anzi le mafie, sono ormai laiche, non sono a prescindere di destra o di sinistra, e prima della chiamata alle urne fanno dei sondaggi. Come ha raccontato il pentito Nino Giuffrè l'organizzazione ha uomini ovunque in grado di percepire gli umori dell'elettorato. Poi, quando diventa chiaro chi può vincere, stringe accordi con chi è disponibile al dialogo. O imponendo candidature, o offrendo voti in cambio di soldi, appalti o favori. Anche per questo, e non solo per distrazione, nelle liste oggi c'è finito di tutto. In Sicilia, per esempio, presentare Cuffaro, condannato in primo grado a 5 anni per favoreggiamento, è stato come segnare una svolta.

Cintola a parte, l'Udc fa correre alla camera Francesco Saverio Romano, tutt'ora indagato per concorso esterno; Calogero Mannino, imputato davanti alla corte d'appello di Palermo; e Giusy Savarino, che solo un mese fa ha visto il Tribunale inviare, al termine del processo 'Alta Mafia', alcuni atti che la riguardano alla procura. Secondo i giudici dalle intercettazioni e dai verbali emerge come nel 2001 lo scontro sulla sua candidatura alle regionali tra suo padre, Armado Savarino, e l'ex assessore Udc, Salvatore Lo Giudice, poi condannato a 16 anni di reclusione, sia stato risolto dalla mediazione del boss di Canicattì, Calogero Di Caro.

Certo, si può benissimo concordare con Pier Ferdinando Casini, il quale di fronte alle polemiche, fin qui limitate al nome di Cuffaro, ripete "non è giusto che le liste le faccia la magistratura". Resta però il fatto che il numero di suoi candidati risultati in rapporti con uomini di Cosa nostra, o coinvolti a vario titolo in indagini per mafia, è altissimo. Troppi per ritenere che le accuse lanciate dai pentiti, secondo i quali il voto per il partito di Cuffaro negli ultimi anni sarebbe stato compatto, siano del tutto campate in aria. In questa situazione, con la magistratura che non può intervenire perché per arrivare al processo ci vuole (giustamente) la prova dell'accordo con i mafiosi, a denunciare e bonificare ci dovrebbe pensare la politica.

Il tentativo della commissione Antimafia di far approvare, per iniziativa del senatore di Forza Italia Carlo Vizzini, un codice etico che impedisse la presentazione di candidati collusi almeno alle amministrative del 2007 è però rimasto lettera morta. Al primo febbraio del 2008 su 103 prefetture, solo 86 avevano inviato alla commissione una fotografia di quello che era accaduto nelle urne sei mesi prima. E stando a quanto risulta dai documenti che 'L'espresso' ha letto, mancavano, tra l'altro, all'appello le risposte delle provincie di Avellino, Caltanissetta, Enna, Messina, Palermo, Reggio Calabria, Taranto e Trapani. I partiti avversari poi tacciono tutti. Il Pdl, nonostante le polemiche contro il "cuffarismo e il clientelismo", è prudentissimo. Anche perché gli azzurri in lista non si sono limitati a ricandidare il senatore Pino Firrarello, condannato in primo grado per turbativa d'asta aggravata e ora sotto inchiesta per concorso esterno, o l'ex sottosegretario Antonio D'Alì, ex datore di lavoro del superlatitante Matteo Messina Denaro, e oggi accusato dall'ex prefetto di Trapani Fulvio Sodano di aver voluto il suo trasferimento per fare un piacere a Cosa nostra (sulla vicenda è in corso un'indagine e un processo per diffamazione).

Negli elenchi fa capolino pure la new entry Gabriella Giammanco, ex aspirante velina, volto giovane del Tg4, ma soprattutto nipote di Vincenzo Giammanco, definitivamente condannato come socio e prestanome di Bernardo Provenzano. E poi ci sono tutti gli altri. A partire da Gaspare Giudice, assolto in primo grado dalle accuse di mafia con una sentenza in cui il tribunale sostiene di aver però "verificato con assoluta certezza" l'appoggio datogli da Cosa nostra nel 1996 e "con grandissima probabilità" anche nel 2001. Per arrivare a Renato Schifani, considerato in pole position dal 'Giornale' come futuro ministro degli Interni, sebbene negli anni '80 sia stato a lungo socio, assieme all'ex ministro Enrico La Loggia, della Siculabrokers: una compagnia in cui figuravano anche Nino Mandalà, futuro boss di Villabate, e Benny d'Agostino, imprenditore legato per sua ammissione al celebre capo di tutti i capi, Michele Greco.

Insomma, meglio non discutere di mafia. Un po' come fa il Pd messo in imbarazzo dalle proteste di Beppe Grillo e della Confindustria, quando con un colpo di mano aveva tentato di escludere dalle liste Beppe Lumia. Dietro a quella scelta non è difficile vedere l'ombra del grande avversario di Lumia, il dalemiano Mirello Crisafulli, filmato mentre discuteva, dopo averlo baciato, di appalti e favori con i boss di Enna, Raffaele Bevilacqua. Da quando nel 2007 Lumia, condannato a morte da Cosa nostra, aveva definito la sua candidatura inopportuna, Crisafulli, grande amico di Cuffaro, non lo salutava più. Poi in lista c'era finito solo Crisafulli e Lumia era stato recuperato come numero uno al Senato solo quando era diventato chiaro che stava per passare con Di Pietro. In compenso tra gli aspiranti deputati del Pd è comparso Bartolo Cipriano, ex sindaco e poi consigliere del comune messinese di Terme Vigliatore, sciolto per mafia nel 2005.

Meglio vanno le cose in Calabria, dove le liste di Veltroni, capeggiate dall'ex prefetto De Sena sono in buona parte pulite (al contrario di quanto era accaduto con le regionali quando la 'ndrangheta votò per il centrosinistra). Tra i democratici suscita qualche perplessità principalmente il nome di Maria Grazia Laganà, la vedova di Francesco Fortugno, il vice-presidente della regione ucciso dai clan, sotto inchiesta per truffa ai danni dello Stato nell'ambito delle indagini sulle infiltrazioni mafiose alla Asl di Locri. Qui, come in Campania, la battaglia con il centrodestra si profila in ogni caso all'ultimo voto. E il Pdl candida al Senato (decimo posto) addirittura Franco Iona, cugino primo del boss Guirino Iona, capo dell'omonima cosca crotonese ora in carcere dopo anni di latitanza. Nel 2005 Iona non aveva potuto correre per le amministrative con l'Udeur proprio a causa della sua ingombrante parentela. Ora, nonostante le proteste del presidente della commissione Antimafia Francesco Forgione, Iona si dà da fare per raccogliere voti e ribadisce di essere incensurato.

Difficile comunque che ce la faccia, al contrario di Gaetano Rao, numero 17 del partito di Berlusconi e Fini alla Camera, e soprattutto nipote di don Peppino Pesce, vecchio boss dell'omonima e potentissima cosca di Rosarno. Per uno strano scherzo del destino Rao si ritrova candidato assieme ad Angela Napoli (An), membro della commissione Antimafia e feroce avversaria della 'ndrangheta. La Napoli, insomma, ingoia amaro anche perché con lei sono candidati Pasquale Scaramuzzino, l'ex sindaco di Lamezia Terme, un comune sciolto nel 2002 dal governo per mafia in seguito a una sua battaglia, e Giuseppe 'Pino' Galati, allora leader del Ccd: un partito che l'attaccava a tutto spiano.

Anche in Campania, dove solo nella provincia di Napoli, sono stati sciolti 15 comuni (in prevalenza di centrosinistra) dal 2001 a oggi, c'è incertezza. Alle prese con l'emergenza rifiutiil Pd pare essersi mosso con relativa cautela, anche perché scottato dalle indagini sul clan Misso e i suoi rapporti con la Margherita. Tutt'altra storia sono invece le liste degli avversari. In Parlamento entrerà Sergio De Gregorio, l'ex dipietrista subito convertito a Berlusconi, indagato per riciclaggio dopo che sono stati scoperti suoi assegni in mano a Rocco Cafiero detto ''o capriariello', un contrabbandiere considerato organico al clan Nuvoletta. Con lui ci sarà Mario Landolfi (An), ora costretto a fronteggiare l'accusa di essere stato appoggiato nel 2006 da un manipolo di camorristi. E c'è pure Nicola Cosentino, uno che la mafia se l'è trovata suo malgrado in casa, visto che uno dei suoi fratelli ha sposato la sorella del boss, detenuto al 41 bis, Peppe Russo, detto 'o padrino'. Insomma, c'è da stare tranquilli. Comunque finiranno le cose il 13 aprile avremo un Parlamento specchio del paese. Peccato solo che a essere riflessa, almeno nel sud, sarà anche la parte peggiore.
 

Silenzio su Gomorra 20 marzo 2008 Giorgio Bocca
Le minacce dei boss in tribunale contro il pm Cantone, Saviano e una cronista sono una dichiarazione di guerra.
Ma dai politici solo tiepide reazioni
Il fatto: alla Corte d'Assise di Napoli il difensore di due camorristi presenta un'istanza di legittima suspicione
perché lo scrittore Roberto Saviano, la giornalista Rosaria Capocchione del 'Mattino' e il magistrato dell'antimafia
Raffaele Cantone (il primo con il libro 'Gomorra', l'inchiesta sull'associazione mafiosa, la seconda per gli articoli
sul 'Mattino' di Napoli, il terzo per la sua attività all'antimafia) avrebbero influenzato la corte.

L'istanza è firmata da due camorristi di Casal di Principe, i cosiddetti casalesi, ed è irridente e minacciosa. Saviano è chiamato il "presunto romanziere", per dire che ha inventato favole, la Capocchione "pennivendola", entrambi d'accordo con il magistrato "calunniatore". I firmatari sono: il camorrista Francesco Bidognetti e Antonio Iovine, latitante da 12 anni, entrambi già condannati in primo grado all'ergastolo. E Antonio Iovine è considerato l'organizzatore del traffico di rifiuti della Campania. Ci si chiede: perché i camorristi di Casal di Principe ostentano una tale arroganza verso i giornalisti e i giudici? E perché una tale arrogante provocazione passa quasi sotto il silenzio dei politici e dei media? L'arroganza è una tradizione dei camorristi di Casal di Principe e del loro leggendario capo dal nome salgariano di Sandokan: grande bandito che insultava, minacciava, taglieggiava i suoi impauriti concittadini. 

La scarsa attenzione dei politici e dei media si può spiegare con la vigilia elettorale, con la vecchia regola dei politici di 'non parlar di corda in casa dell'impiccato', qui del sistema mafioso che si è allargato dalla Sicilia all'intero Meridione ed è risalito al Veneto e alla Lombardia.

Un argomento scomodo, l'inchiesta di Saviano nel libro 'Gomorra'. Per toglierselo dai piedi le nostre autorità volevano relegarlo in una 'località protetta', cioè all'Asinara, dove erano stati reclusi i brigatisti rossi; ora Saviano, cui va la mia piena solidarietà e quella dei giornalisti de 'L'espresso', vive chiuso in casa e ha una scorta dei carabinieri. Di solito le istanze per la legittima suspicione vengono depositate agli atti senza darne lettura. Ma in questo caso l'avvocato difensore ha potuto leggerla in aula: 60 pagine di insulti e minacce, senza che nessuno dei magistrati presenti reagisse; non era mai accaduto nulla del genere. 

La richiesta di legittima suspicione ricorda le dichiarazioni di guerra allo Stato da parte dei corleonesi quando passarono all'uccisione di magistrati e poliziotti. Silenzio dei leader moderati, un breve comunicato Ansa di Veltroni e Bertinotti, una telefonata di Napolitano al direttore del 'Mattino': "Esageruma nen", come diceva Norberto Bobbio. 
 

La questione criminale? Affare del Sud, come i rifiuti
20 marzo 2008 Roberto Saviano

La speranza non ha un volto solo: ne ha dieci, cento, mille, centomila. Volti di ragazzi che sfilano con gioia, opponendo allegria alla cupezza di chi schiaccia il loro futuro, lo soffoca, umilia, disintegra. Volti di ragazzi che con quell'allegria urlano la voglia di libertà, la disperazione per un destino senza nulla in cui credere. La loro marcia era scandita da un elenco senza fine, rilanciato da tutti gli altoparlanti come nelle feste di paese si fa per le musichette: la cantilena ossessiva di un rosario doloroso che unisce in una catena settecentocinque nomi. Settecentocinque cadaveri, settecentocinque giusti, settecentocinque vite che si sono spente ma non piegate lottando contro la mafia: un sacrificio di massa che permetteva a quei ragazzi di marciare senza minacce. La litania dei martiri era infinita, la lista ricominciava sempre dall'inizio, come se la speranza di legalità potesse risorgere soltanto dal sacrificio, dal sangue versato per rendere fertile la terra desolata.

Neppure il miracolo di Bari ha smosso qualcosa, neanche l'ondata umana che nel segno di Libera ha riunito tanti ruscelli in unico gesto di rivolta ha dato una scossa ai media chiusi nel torpore di una quotidianità disillusa e alla politica di una campagna elettorale dove si fatica a trovare un contenuto dietro le parole. Mafia è una parola rara e banalizzata, bisogna maledirla per copione e poi dimenticarla in fretta per andare avanti con comizi che devono sempre occuparsi d'altro. Sarebbe stato meglio se mafia fosse stato un termine pericoloso, di quelli che fanno da calamita all'odio, una parola che si fa carne viva di impegno. L'hanno formattizzata, diventa un punto in scaletta, per condire l'introduzione del discorso come i saluti di circostanza. O peggio del peggio, da relegare nelle regioni meridionali.

I leader di centrosinistra e centrodestra non se ne sono occupati? - mi è stato risposto solo pochi giorni fa -, ma lo faranno più avanti, quando arriveranno nel Sud, lo faranno a Napoli quando chiuderanno la campagna. Lo faranno a sud, come per i rifiuti più velenosi che nessuno sa dove buttare e si mandano a inquinare una terra contaminata e condannata. Lo faranno a sud, come se la potenza della criminalità organizzata non riguardasse il nord, come se la ricchezza dei traffici mafiosi non arricchisse le banche padane o se i voti manovrati dai padrini non condizionassero i palazzi romani. Il perimetro del problema agli occhi della politica si è ristretto da piaga planetaria ad affare locale: come se i Kalashnikov avessero sparato e ucciso a Duisburg per una lite di campanile o i casalesi colonizzassero Aberdeen per imparare meglio l'inglese.

'Ndrangheta, camorra e mafia, anzi, come le chiamano gli affiliati, Cosa Nuova, Sistema e Cosa Nostra sono oggi più di ogni altro il 'potere forte'. Quello che controlla direttamente un terzo del paese, quello che è infiltrato in tutto il territorio e ha facoltà di condizionare indirettamente interi settori dell'economia - i trasporti, gli ospedali, i subappalti edili, le catene di supermercati, la produzione tessile, il comparto agricolo, l'industria alimentare, le candidature dei primari, la distribuzione di benzina, i centri commerciali - come un cancro le cui metastasi si sono già diffuse in ogni parte d'Italia e persino d'Europa.

Il potere che decide con quale parte politica schierarsi, quello capace ormai da decenni di sottomettere la politica dei propri territori d'origine e persino di quelli d'investimento al punto di non avere più bisogno di accedere a coperture di livello superiore. Le mafie oggi possono farne a meno perché si sono fatte più ciniche, più realistiche, e perché sono diventate infinitamente più potenti e indefinite, allo stesso tempo arroganti e mimetiche.

Parlarne, affrontare il problema significa rischiare di perdere un numero troppo alto di consensi, ecco perché. Così tutti si limitano a commenti di solidarietà con le vittime e gli inquirenti, complimenti alle forze dell'ordine, generici appelli alla moralità e alla lotta alle mafie. A Palermo le denunce dei commercianti per la prima volta fanno arrestare gli estorsori, è una rivoluzione che per loro merita giusto il tempo di un comunicato. E poi tutto tace di nuovo. Ma perché siano le mafie a tacere per sempre bisogna fronteggiarle senza compromessi, anche a costo di perdere le elezioni nell'immediato per 'vincere' col tempo, una ricchezza e una libertà inestimabili - la salvezza del nostro paese. L'unica che potrà non far sentire l'Italia un paese determinato dal potere criminale.

Nessuno crede che il compito della politica sia di costruire paradisi: che il fato ci scampi da questa maledizione. Nessuno può pensare che ci siano ricette taumaturgiche, che basti un po' di decisionismo e di buona volontà per risanare ciò che per decenni è stato lasciato incancrenire. Ma si smetta di trattare i cittadini come appartenenti a due tifoserie opposte che non possono far altro che scegliere fra l'una e l'altra fazione e con questo si assumono ogni responsabilità di quel che accade dopo le elezioni. Si smetta di chiedere loro con chi stanno. Inizino piuttosto i partiti a dire attraverso scelte chiare in che modo vogliono stare con i cittadini. Scelte che non siano di comodo e di compromesso, che non mirino a un rinnovamento di facciata senza il coraggio di disfarsi dei meccanismi che portano in cambio voti sicuri. Inizino pure dalla fine, se non hanno altro da dire prima.