Italia anno 2010 Il "Potere" e l'Informazione:
Quante mani lunghe sul Tg1

Presentato oggi a Roma il libro di Giulio Borrelli che racconta la storia del primo telegiornale da Vespa a Minzolini. Retroscena, manovre di palazzo, pressioni dei politici, l'anticipazione di alcuni brani in esclusiva:
Venerdì 21 aprile 2010, alla Sala Capranichetta di Roma (P.zza Montecitorio, 125), viene presentato il libro
"Le mani sul Tg1 - Da Vespa a Minzolini, l'ammiraglia Rai in guerra"
di Giulio Borrelli, ex direttore del telegiornale e attualmente corrispondente dagli Stati Uniti.
Il volume sarà in libreria dal 28 maggio (Coniglio editore, 14,50 euro).
Alla presentazione intervengono Carlo Freccero, Giampiero Mughini e Filippo Rossi. Modera Giuliano Compagno.

 
Il libro di Borrelli ripercorre gli ultimi vent'anni del più importante telegiornale italiano
ed è una vera "inside story" di quanto avviene nelle sue stanze e nei suoi corridoi.
Da L'espresso in esclusiva un'anticipazione del volume.

"Togli tu, che ci metto questo qua"
La Rai è da sempre legata alla politica, è un fatto. Dalla sua nascita, navigando per l'epoca Bernabei, fino alla presidenza Garimberti, tutti i direttori e i vicedirettori, nessuno escluso, hanno ottenuto l'investitura tenendo conto delle maggioranze di governo e dei posti da riservare all'opposizione. Un tassello discutibile, quello delle nomine Rai, ma a suo modo autorizzato in quella zona a traffico limitato chiamata viale Mazzini. In Italia, del resto, si lottizzano anche i primari d'ospedale. Adriano Celentano direbbe: «C'è sempre un motivo». Un tempo esisteva il dominio di un solo partito, la DC, che aveva le redini del Paese. Poi, con il mutare degli equilibri politici, si è passati alla lottizzazione. Il vecchio presidente socialista Enrico Manca la riteneva, comunque, una sterzata al futuro rispetto al parossismo del precedente latifondo. (...)

Non è pensabile di poter scrivere una storia onesta, veritiera della Rai, senza tener conto dei partiti, dei mastodonti industriali e delle lobby giornalistiche. Quando si accenna ad assunzioni, collaborazioni ed avanzamenti di carriera, le ingerenze politiche non mancano mai all'appello. È vero che – con governi di destra, di centro, di sinistra – i partiti contano moltissimo, ma se ci fermassimo a loro non capiremmo tutto il meccanismo. (...)

Negli ultimi 15 anni sono stati nominati dieci direttori al Tg1. Solo tre possono essere considerati professionisti interni all'azienda. Uno ha fatto la spola tra la Rai e Mediaset. Gli altri, ben sei, sono giornalisti approdati dall'esterno a dirigere la testata italiana più importante, con scarsa esperienza televisiva e nessuna pratica nel servizio pubblico. Qualcosa vorrà pur significare. Non vi pare? A intraprendere la via della scelta esterna e a servirsene, per primo, è stato Berlusconi, come abbiamo detto. La strada è stata battuta anche durante i governi di centrosinistra ed è motivo di non poche recriminazioni. È il capitolo grigio di un quindicennio confuso e contraddittorio.

Ecco perché, accanto alla mia piccola vicenda personale, cerco di ricordare alcuni passaggi essenziali della storia contemporanea degli ultimi tre lustri, così come li ho vissuti, con qualche raffronto con la realtà americana conosciuta più di recente. Il centrodestra ha un capo indiscusso ed accettato e, con lui, gli alleati stabiliscono gli assetti politico-istituzionali e le catene derivate. Applicano un proprio criterio e garantiscono stabilità. Nello schieramento opposto, gli insuccessi, le antipatie e le faide interne hanno abbattuto, uno dopo l'altro, i leader e, come riflesso di questa guerra, si ritrovano un campo di macerie negli assetti sottostanti. La Rai è uno dei terreni più paludosi e devastati. Intercambi da copione anarchico per un regista fantasma: «Togliti tu, che ci metto quest'altro più gradito». Una membrana di replicanti aziendali. Non a caso gli avvicendamenti hanno spesso messo in ombra i valori reali, i meriti professionali di profili interni e, di conseguenza, gli apprendisti stregoni si ritrovano il vuoto attorno.

«Susanna Petruni, fedele scudiera del Cavaliere»
(...) Il sindacato dei giornalisti dà filo da torcere e, per diversi mesi, Mimun non riesce a imporre modifiche radicali, anche se nel frattempo l'azienda (con Cattaneo e Comanducci) incide sui corrispondenti all'estero, rimuovendo Badaloni da Bruxelles e Remondino da Belgrado.

Anche con me ci provano, come racconterò in seguito, ma fanno un buco nell'oceano. Uno dei fatti più discussi avviene nel luglio 2003 in occasione dell'apertura del semestre italiano di presidenza dell'Unione europea. L'inviata Susanna Petruni (il nuovo corrispondente Masotti, berlusconiano di provata fede, non basta) confeziona un servizio in cui non si sente il Cavaliere che dà del 'kapò' a un eurodeputato tedesco che lo critica. Una scelta clamorosamente diversa da quella dei Tg di quasi tutto il mondo. Il direttore la difende, così come giustifica che, durante il discorso di Berlusconi all'assemblea generale dell'ONU, in un'aula pressoché vuota, la Petruni abbia usato, nel montaggio, le immagini dell'affollata platea che seguiva il precedente intervento di Bush. Per non lasciar solo il povero presidente del consiglio italiano, l'aula è stata riempita con un falso. All'inizio del 2004 il Tg1 cambia scenografia. La precedente risaliva al tempo della mia direzione. È l'occasione per un'autocelebrazione e per annunciare un cambio di passo.

«Adesso – dice Clemente – è il momento giusto per pensare all'arrosto ». La ciccia va a Susanna Petruni, fedele scudiera del Cavaliere, che viene messa a condurre l'edizione delle 13.30, e ai responsabili di una serie di piccole rubriche create con lo scopo di soddisfare appetiti redazionali e allargare il consenso più che la qualità dell'informazione. I trasferimenti dal Tg2, che Mimun aveva diretto negli anni Novanta, si moltiplicano, mentre per i precari del Tg1 non c'è posto. Carmela Giglio, scrupolosa giornalista, è costretta a emigrare al giornale radio per essere assunta. Arrivano altri, estranei alla tradizione della testata. Una fredda domenica mattina di gennaio, nella bacheca redazionale appare una lettera di dimissioni di Daniela Tagliafico, vicedirettore, che da tempo va denunciando il meccanismo del 'panino' nell'informazione politica.

L'opposizione, in pratica, viene schiacciata come un pezzo di mortadella tra due fette di pane dello stesso sapore. Una trentina di redattori sottoscrivono subito una lettera di solidarietà che, nei giorni successivi, raccoglierà altre firme. «Il Tg1 – viene detto durante quella levata di scudi – deve essere patrimonio comune di tutti gli italiani che pagano il canone». Qualche settimana dopo Lilli Gruber si candida al Parlamento europeo. Già al brindisi di Natale del 2005 Mimun annuncia che per lui sarà l'ultimo al Tg1. Avvia, nel frattempo, la rubrica Dopo il tg, che conduce personalmente. È ancora direttore, nell'estate del 2006, con Prodi al governo che, dalla Toscana, coordina assieme a Chirac l'intervento militare in Libano. Impegno non da poco, per l'Italia. Il presidente del consiglio viene seguito, in quell'occasione, solo da una troupe, in appalto, di Telemaremma. (...)

L'AUGUSTO PRESCELTO
(...) Col nuovo governo, cambia il consiglio di amministrazione e, fiutata l'aria, Gianni se ne va. Passa a dirigere «Il Sole 24 Ore», il quotidiano della Confindustria. A reggere una faticosa transizione, in attesa dell'unto da Berlusconi, viene lasciato Andrea Giubilo, giornalista di grande esperienza, che ama la quiete ed è poco adatto per le mischie.

Il Cavaliere dà, in un primo momento, la benedizione a Maurizio Belpietro, punta d'acciaio degli organi della famiglia berlusconiana. Il nuovo presidente della Rai, Paolo Garimberti, mette il vèto. «Troppo schierato e fazioso, non posso tollerarlo». Non può ripetere lo stesso comportamento con Augusto Minzolini, suo amico di vecchia data, che viene da «La Stampa» e ha una rubrica su «Panorama».

Il prescelto dà subito una svolta. Accorcia i tempi del messale politico, centra i temi che interessano la nuova maggioranza. Mette in cantiere 14 rubriche per attirarsi le simpatie della redazione. Quella che cuoce più carne e brucia le tappe è ancora la Petruni che, nell'ultimo giro di arrosto, diventa vicedirettore e conduttrice delle 20 dopo aver mancato la direzione di Raidue. La favorisce un precedente inaugurato da Riotta, che aveva promosso Sassoli nella doppia funzione, tenuta fino ad allora distinta nel Tg1. Ancora a Gianni si richiama Augusto, quando viene criticato, in commissione parlamentare di vigilanza, per i suoi editoriali. «È un mio diritto farli. Prima di me, Riotta ne ha fatti 15». È vero. Anche altri hanno fatto editoriali. C'è da dire, però, che Riotta, e non solo lui, hanno scelto una vasta gamma di argomenti per esprimere le proprie opinioni. Augusto, con tempismo, compare sempre per difendere il governo di centrodestra e sostenere le tesi berlusconiane.

Un esempio, tra tanti. Quando Guido Bertolaso, il capo della protezione civile, finisce nei guai, Minzolini si schiera con lui, a spada sguainata. Il giorno in cui le figlie dell'accusato, Chiara ed Olivia, scrivono una lettera in difesa del padre, il manoscritto viene inviato a «Panorama» e al Tg1, considerati ormai organi della stessa famiglia, e divulgato con grande clamore. Alle parole delle figlie fa eco, subito dopo, il commento di Minzolini, detto Minzo, che va giù di sciabola contro le intercettazioni e la 'gogna mediatica' che avrebbe già sancito la condanna per Bertolaso. Può darsi che quella inchiesta della magistratura di Firenze sugli appalti della protezione civile, come altre, finisca in una bolla di sapone, ma il marcio che rivela è sconcertante. Ci vorrebbe un po' più di distacco da parte dell'ammiraglia del servizio pubblico radiotelevisivo.

Minzo, invece, non ha dubbi. «Puntualmente – chiosa alla vigilia di una consultazione regionale – le inchieste giudiziarie sostituiscono la campagna elettorale». La giustizia, i magistrati, insomma, sono schierati con una parte politica e contro Berlusconi. È la tesi, appunto, che il Cavaliere asserisce tutte le volte che pubblici ministeri e giudici si occupano di lui o dei suoi uomini. Nessun direttore di Tv pubblica ha mai fatto, prima di lui, ripetuti editoriali di sostegno al governo. Alcune telefonate, intercettate dalla Procura di Trani durante un'indagine sui tassi di usura, confermano il legame ombelicale. Berlusconi danza con i superlativi, lo chiama 'direttorissimo' e si lamenta con lui del modo di fare dei giudici in un'inchiesta di mafia. Il Minzo confeziona subito un editoriale contro le 'balle e minchiate' del pentito siciliano Spatuzza, spavaldo e discusso accusatore del 'Cavalierissimo'.

C'è di più. Qualche giorno dopo l'editoriale pro-Bertolaso, si scopre – da altre intercettazioni telefoniche disposte dalla magistratura – che Minzolini è amico di alcuni dei funzionari pubblici e degli imprenditori finiti nell'inchiesta sulla protezione civile e li frequenta. I risvolti, non necessariamente penali, della indagine giudiziaria e la filippica contro la 'gogna mediatica' rivelano chiaramente gli intrecci, le manovre e i pensieri di una lobby politico-imprenditorial-giornalistica, che ha uno dei suoi avamposti nel Tg1, con scambi di favori vari. Le cronache di quei giorni, ricavate ancora dalle intercettazioni, riferiscono di un'intervista fatta dal maggior telegiornale italiano a Lorenzo Balducci, figlio di uno degli indagati, che recita in una fiction Rai, e caldeggiata sia da Giancarlo Leone, vicedirettore generale dell'azienda di viale Mazzini, sia dall'ammiraglio del Tg1.

Tutti e due se ne compiacciono, al telefono, col padre dell'intervistato, cioè con l'alto funzionario al centro della trama degli appalti della protezione civile. Anche a Minzolini è toccato misurarsi con un concorrente Rai, prima della sua nomina, e ha avuto facilmente la meglio nello schema vigente. L'interno è Mauro Mazza che, dopo la bocciatura di Belpietro, viene ben presto escluso. È bravo, sì, ma è culo e camicia con Fini, fin dalla giovinezza. Hanno lavorato e giocato assieme, meglio un altro esterno di piena fiducia berlusconiana.

Mazza passa dal Tg2 a dirigere Raiuno, niente male! Lì, dopo gli intrecci consolidati tra pubblico e privato, non preoccupa colui che teme i comportamenti di Fini nel centrodestra. Nelle stanze di comando del Tg1, resta il vicedirettore Ferragni, attribuito a una non meglio definita opposizione. Non è certo un cuor di leone (non ha firmato la solidarietà con la Tagliafico, il giorno della lettera di denuncia del 'panino') né è capace di raccogliere attorno a sé coloro che non accettano di attaccare l'asino dove vuole il padrone. Minzo, che non è uno sprovveduto, lo preferisce ad altri e lo conferma in un posto chiave. Il maggiore telegiornale italiano cambia pelle. Una nuova generazione, senza memoria storica, prende il sopravvento. In redazione non ci sono più i Nuccio Fava, i Bruno Vespa, i Roberto Morrione, i Romano Tamberlich, i Paolo Frajese, le Lilli Gruber.

Nell'elenco, che potrebbe continuare, dovrei includere, senza apparire presuntuoso, anche il mio nome. Persone diverse, con i loro difetti e i loro caratteracci, che erano cresciute alla scuola del servizio pubblico e avevano, comunque, una visione comune della Rai e della sua funzione. I soldati graduati eseguono ora qualsiasi disposizione, senza fiatare. Il modello che svetta è una brava collega, affetta da bulimìa professionale. Con Mimun difende Mimun perché è diventata l'inviata di punta nelle zone di guerra; con Riotta sta con lui, che le permette di spendere e spandere in giro per il mondo; con Minzolini fa carriera, viene promossa e dilaga.

Le eccezioni, naturalmente, non mancano. Quello che non si avverte è una temperie redazionale in grado di affermare, pur con limiti e contraddizioni, i valori professionali della correttezza e dell'autonomia. La gente non la nota, non la sente. E così quando Maria Luisa Busi va all'Aquila, per girare un servizio sulle macerie del capoluogo abruzzese, si sente gridare da un gruppo di terremotati: «scodinzolini, scodinzolini». I redattori degli anni Ottanta e Novanta del Tg1, anche se la linea dei direttori non piaceva, hanno sempre girato per strada a testa alta perché all'esterno si sapeva che, nel rispetto dei ruoli e delle funzioni, in parecchi nelle stanze di via Teulada e di Saxa Rubra contestavano apertamente linee editoriali partigiane e scorrette.

E, non a caso, le lobby giornalistiche, vicine a quei direttori, li accusavano su giornali e settimanali di essere 'bolscevichi' e 'sovversivi', ma nessuno – e tanto meno il pubblico – li ha mai bollati come cagnolini scodinzolanti. Un'accusa bruciante per chi dovrebbe fare il mestiere di cane da guardia del potere.La Busi si difende prendendo le distanze dai servizi della testata sul dopoterremoto e viene – a sua volta – contestata da una sparuta assemblea di colleghi. Prima del voto più d'uno abbandona la sala della riunione. Il giorno seguente, sul «Corriere della Sera», Paolo Conti conclude il suo resoconto con un commento attribuito a un esponente di destra: «La maggioranza dei redattori è con Minzolini».

Una raccolta di firme prodirettore incassa una novantina di adesioni. Sottoscrivono: Francesco Giorgino, Filippo Gaudenzi, Susanna Petruni, Attilio Romita, Fabrizio Ferragni, Monica Maggioni, Franco Di Mare, e parecchi nomi poco conosciuti. Se il grosso della redazione stesse davvero con questo o quell'ammiraglio, sarebbe un fatto normale. Io credo, invece, che negli anni sia maturato un atteggiamento di rassegnazione, di abbandono, da parte di alcuni; e di sfrenato opportunismo, da parte di altri. È la conseguenza, a mio giudizio, della scelta di direttori esterni, responsabili di aver travolto le poche regole e una prassi utili a garantire, in passato, un rispetto – seppur minimo – di criteri professionali in un servizio pubblico. Ora non ci sono più argini per evitare il cumulo di incarichi nonché l'arrembaggio nelle carriere e nelle apparizioni in video. Se il redattore medio potesse rivolgersi direttamente ai potenti che influiscono sul destino della Rai, gli direbbe: caro leader, quando hai potuto, hai piazzato un tuo fiduciario lontano dalla sensibilità e dalle regole di Saxa Rubra, pensando che noi fossimo carne da macello, adesso rivolgiti a chi vuoi per arginare linee editoriali che non ti piacciono e non favoriscono una coscienza critica tra la gente. Un professionista non dovrebbe ragionare così, ma questo è il risultato degli assetti imposti e non condivisi da tanti, nonostante accondiscendenzemomentanee e opportunistiche.

Cambiano anche la composizione del pubblico che guarda e il livello degli ascolti. Molti spettatori trasmigrano su altri canali. L'audience del Tg1 delle ore 20 scende al 26 per cento. Su Facebook, su Twitter, nella piazza del social network, si sviluppa una campagna di opinione contro la maggiore testata del servizio pubblico. Il movimento anti-Minzo si rafforza dopo un'edizione delle 13.30 in cui si presenta come 'assoluzione' una sentenza della Cassazione che sancisce la 'prescrizione' per il reato commesso da David Mills. L'avvocato inglese la fa franca solo perché è scaduto – secondo i giudici supremi – il tempo per poterlo punire. Nel processo di primo grado e in appello era stato condannato per essere stato corrotto da Berlusconi.

«Prescrivere non è assolvere», si grida nella piazza virtuale. Arianna Ciccone, organizzatrice del festival del giornalismo di Perugia, consegna negli uffici di viale Mazzini una richiesta di rettifica della notizia inesatta. L'hanno sottoscritta 200 mila persone su Facebook. È il primo, significativo segnale di una rivolta dei telespettatori contro il comportamento del più seguito telegiornale italiano.
Molto applaudito un articolo di Michele Serra: «Per un giornalista manomettere la verità è un crimine, tal quale per un fornaio sputare nel pane che vende. Qui non si tratta di opinioni, di interpretazioni, di passione politica. È proprio una frode, una lurida frode…». Legioni di giovani e di intelligenze appassionate chiedono il rispetto dei princìpi basilari di una corretta informazione. Nessun rimpianto, naturalmente, del tempo che fu. E tuttavia le differenze tra ieri e oggi appaiono evidenti a chiunque guardi con occhi aperti. (...)

Non c'era, dunque, un bel mondo che fu, ma nemmeno una selvaggia appropriazione. Succede, invece, nell'èra della post-lottizzazione, che si passi dai partiti ai salotti, alle lobby politico-imprenditorial-giornalistiche. Una deriva progressiva e accelerata. Si impone il giornalismo che premia il rigido appartenere e il compiacere il gruppo di riferimento. Altro che volti nuovi e nuovi linguaggi televisivi. Gli altri professionisti, refrattari a questa cultura, finiscono in una riserva non protetta. Sono emarginati e sbeffeggiati. Il servizio pubblico o semipubblico non è stato migliorato e neppure privatizzato secondo le regole del mercato.

È diventato strumento di fazione, in nome e per conto di… Addio ai sogni di far meglio del passato. Il presente scivola verso la militarizzazione e l'acchiappa-acchiappa personale. Io conosco quei sentieri e quelle piste di Saxa Rubra. Cisiamo trasferiti lì da via Teulada, negli anni Novanta, per abitare la più grande cittadella italiana dell'informazione. Ho salito, uno ad uno, i gradini che mi hanno portato in giro per il mondo e alla guida dell'ammiraglia, prima di Minzolini, prima di Riotta e prima di Mimun. Negli anni delle loro direzioni sono lontano dall'Italia. Lavoro a New York, come capo dell'ufficio di corrispondenza americano della Rai. Ognuno ha i suoi percorsi, fa le proprie scelte, rivendica i propri meriti. Tutti abbiamo commesso errori. Non tutti abbiamo seguito linee editoriali personalistiche e faziose. Il sistema attuale è andato oltre i vizi e i difetti della vecchia lottizzazione. Ha saltato il fosso con l'arrivo e i giochi dei corsari di palazzo. Il Tg1 che, nonostante tutte le contestazioni di una volta, aveva mantenuto un rispettabile ruolo quasi ecumenico, di ammortizzatore di spinte opposte, si omologa ora agli altri, diventa coriaceo portavoce del governo e di una parte politico-imprenditorial-editoriale.

È il progetto degli anni Novanta, che Carlo Rossella non riuscì a realizzare. Il fatto che l'ammiraglia perda così di credibilità, di prestigio e di ascolti, non interessa i suoi ideatori e non li preoccupa più di tanto perché manca chi possa davvero contrastarli e metterli alle corde. Eppure basterebbe sviluppare qualche semplice ragionamento. In Rai il servizio pubblico è morto. La formula di Enrico Manca ('il pluralismo è la somma di tante parzialità') poteva apparire adeguata nell'epoca dei vecchi partiti. Oggi siamo in un nuovo secolo, abbiamo un bipolarismo consolidato seppur imperfetto, con il leader di uno schieramento che è proprietario di quasi metà del sistema televisivo privato e l'altra metà la controlla stando in Parlamento e al governo.

"Se il Tg1 è destinato ad essere uno dei tanti telegiornali, alle strette dipendenze di una parte, meglio prendere atto della fine del servizio pubblico, riformare l'attuale canone, rimpiazzare il duopolio Rai-Mediaset con un nuovo e più moderno sistema, fondato davvero sulla concorrenza. Sarebbe più onesto, sicuramente favorirebbe una reale competizione tra diverse linee politico-editoriali, e andrebbe a tutto vantaggio del cittadino telespettatore. Basterebbe discutere un semplice articolo di legge che tolga i tetti pubblicitari alla Rai, ovvero all'azienda che ne prenderà il posto, dandole la possibilità di attingere liberamente sul mercato delle risorse pubblicitarie. È la condizione per privatizzare alcune parti e riservare il canone alle strutture veramente di pubblico servizio. Sarebbe uno scossone per la vecchia azienda di viale Mazzini e la fine dell'impero televisivo costruito da Berlusconi. La piazza virtuale e quella reale sarebbero unificate da un unico grido: 'Il re è nudo'. (...)"