Temistocle si oppose al progetto di trasferire la flotta sulle coste del Peloponneso e, secondo la tradizione, avvisò segretamente Serse di quel progetto, per convincerlo a dare battaglia di fronte a Salamina. La battaglia avvenuta nel settembre del 480 fu una vittoria decisiva.
Nel 479 Temistocle si occupò della ricostruzione di Atene, in particolare delle mura e della fortificazione del Pireo. In seguito tentò di suscitare una rivoluzione democratica nel Peloponneso; ma nel 471, messo in minoranza, venne esiliato.
Dall'esilio continuò la sua azione politica, e forse considerò possibile un accostamento alla Persia, venendo così accomunato allo spartano Pausania nell'accusa di «medismo»; condannato a morte dall'assemblea panellenica riunita a Lacedemone, venne accolto da Artaserse, successore di Serse, e mandato a vivere a Magnesia, dove morì nel 461.
Dopo i successi colti nel corso del 480 (conquista della Grecia centro-settentrionale, saccheggio e incendio di Atene dopo la vittoria alle Termopili) Serse fu finalmente messo alle corde. Con grande astuzia strategica e diplomatica Temistocle riuscì ad attirare la flotta nemica nello stretto braccio di mare tra Salamina e la costa attica e a convincere i Persiani ad accettare la battaglia, che si risolse in un vero massacro e in una completa vittoria per i Greci. Eschilo, testimone oculare dell'impresa, non esita a scrivere: «Ho visto il mar Egeo coprirsi di cadaveri [...] Abbattevano gli uomini come si abbattono i tonni, con remi rotti e frammenti di legno». Serse, con un esercito di 60.000 uomini, si ritirò in Asia a svernare e pose il suo quartier generale a Sardi. L'esercito persiano fu lasciato in Tessaglia al comando di Mardonio, per riprendere le operazioni nella primavera successiva. Nel frattempo i Greci edificavano monumenti, regolavano i loro conti interni e si spartivano il bottino di Serse stesso: è curioso il fatto che Temistocle, il suo avversario, il cui comportamento non era sempre stato molto chiaro, fu ricoperto di onori.
Diversamente dal padre, Serse condusse una politica ispirata da un intollerante zoroastrismo. Portò a termine la costruzione di Persepoli. Nei suoi ultimi anni fu coinvolto in intrighi di palazzo: morì, insieme al figlio maggiore Dario, vittima di una congiura organizzata dal prefetto di palazzo Artabane su istigazione di un altro figlio di Serse, Artaserse I.
Sul fronte opposto Temistocle, dopo aver affrontato i persiani nella battaglia di Maratona, non si era rassegnato, negli anni immediatamente seguenti, a veder svanire il proprio disegno di dotare Atene di una flotta da guerra degna di questo nome. Secondo lui, infatti, era questo il solo mezzo possibile per cercare, con reali possibilità di vittoria, di risolvere una volta per tutte il problema costituito dalla minaccia persiana.
Temistocle ebbe bisogno di tempo per raggiungere il proprio scopo; in una Atene sotto l'influenza della politica filo-aristocratica di Milziade egli dovette usare tutta la sua abilità oratoria inventando persino un falso scopo. La costruzione definitiva della flotta iniziò infatti col pretesto di una guerra contro la vicina isola ellenica di Egina: per convincere i propri concittadini, Temistocle sfruttò la bramosia e l'invidia per la ricchezza commerciale eginate, che si rivelò uno strumento più forte della minaccia persiana.
I problemi che Atene dovette affrontare per dotarsi di una flotta furono, in verità, enormi. Atene e l'Attica non disponevano, in effetti, di nessuna delle numerose materie prime necessarie per le costruzioni navali su grande scala: il legname doveva provenire dalla Tracia o dalla Macedonia, i cordami dalla Gallia o dall'Iberia, la pece per il calafataggio (impermeabilizzazione dello scafo) addirittura dall'Asia in mano al nemico persiano.
Atene possedeva però una risorsa inestimabile: le miniere d'argento del monte Laurion, nelle quali un nuovo filone, recentemente scoperto, aveva permesso al tesoro cittadino di incamerare 200 talenti (un talento attico valeva circa 35 kg) di buon argento. Ai cento più ricchi cittadini fu concesso un prestito di un talento, con lo scopo di costruire e mantenere una trireme, mentre gli altri cento talenti furono offerti a 50 naucrarie, gruppi di cittadini meno abbienti, ognuna delle quali avrebbe dovuto occuparsi di due triremi. Ecco dunque che con la ricchezza delle miniere d'argento e una struttura organizzativa capace di mobilitare tutte le energie cittadine, senza distinzione di censo, Temistocle riuscì a dotare la patria di una flotta militare permanente di almeno 200 triremi; per la media produttiva e organizzativa dell'epoca si trattò di un vero e proprio record.
Il passo successivo per Temistocle fu cercare di creare un'alleanza in grado di sostenere l'urto del colosso persiano; ma in questo il risultato fu inferiore alle aspettative. Tutta la Grecia a nord dell'Attica, salvo Tespi e la fedele Platea in Beozia, si consegnò, per paura, nelle mani dei Persiani. Con le isole dell'Egeo già da tempo in mano al gran re, non rimase che una confederazione di 31 città: Sparta, Atene, Megara, Corinto, Egina (con cui alla fine, nel bisogno, gli Ateniesi si allearono), Calcis e altre venticinque città per nulla importanti sul piano militare. Era con questa tutto sommato esigua forza che l'Ellade attendeva Serse.
Il piano di operazioni persiano era semplice e lineare: il gran re in persona si mise alla testa dell'esercito che, gettato un ponte sull'Ellesponto, iniziò a scendere lungo la costa della Tracia e della Tessaglia appoggiato da vicino dalla flotta.
I Greci decisero di provare a bloccare la progressione persiana all'altezza del passo delle Termopili, nella Locride Opunzia, dove il re spartano Leonida giunse con 7.000 opliti, tra cui 300 spartiati. Dal canto suo la flotta guidata da Temistocle, forte di 300 triremi, 200 delle quali ateniesi, si piazzò nello stretto di Artemisio tra la costa dell'Eubea settentrionale e il continente. Era una posizione ben scelta: le due forze, quella navale e quella terrestre erano in grado di appoggiarsi a vicenda, mentre lo stretto passaggio delle Termopili consentiva alla Falange greca di sfruttare la propria maggior potenza d'urto togliendo ai Persiani, almeno in una prima fase, il vantaggio del numero enormemente superiore. In realtà la manovra sarebbe stata efficace se i dissidi e le diverse visioni della strategia generale in seno alla Lega Ellenica non ne avessero, fin dal principio, minato le basi strategiche. Gli Spartani, con tutti i Peloponnesiaci, erano convinti che l'unica soluzione fosse quella di ritirarsi dietro l'istmo di Corinto, nel Peloponneso, e qui attendere il nemico; ma si trattava di una visione miope che avrebbe lasciato in mano ai Persiani due terzi dell'Ellade, compresa Atene e tutta l'Attica. Di fronte alle proteste di Temistocle, che arrivò a minacciare il ritiro delle navi ateniesi dalla flotta, Sparta accondiscese alla spedizione di un contingente alle Termopili, ma lo scopo non dichiarato era più quello di ottenere il comando generale della flotta per lo spartiate Euribiade, come effettivamente successe, che quello di difendere efficacemente l'Attica. Rifiutando rinforzi e sostegno a Leonida e i suoi, gli Spartani condannarono la manovra al fallimento e segnarono il destino di Leonida e dei suoi trecento omoioi (uguali) spartani.
All'inizio sembrò che la doppia posizione delle Termopili e dell'Artemisio fossero difendibili a tempo indefinito; mentre Leonida respingeva numerosi assalti nemici, infliggendo gravi perdite e subendone di relativamente leggere, la flotta diede battaglia ai vascelli persiani, sfidando un rapporto di forze di uno contro due, riuscendo ad affondarne parecchi. In effetti, però, la situazione era strategicamente insostenibile. Leonida, privo di rinforzi, non era in grado di parare le manovre persiane aggiranti lungo la dorsale sulla propria sinistra e Temistocle, non potendo difendere entrambi i lati dell'isola Eubea, rischiava l'accerchiamento da parte della flotta persiana che, con un contingente abbastanza forte, avrebbe potuto facilmente doppiare l'isola da oriente.
Secondo la tradizione Leonida, venuto a conoscena che un traditore (rispondente al nome di Efialte) aveva indicato a Serse una via lungo la montagna per aggirare il passo, comunicò a Temistocle l'intenzione di rimandare indietro il grosso degli opliti rimanendo coi suoi Spartani per un ultimo disperato combattimento sul passo in modo da coprire la ritirata. Temistocle dal canto suo sapeva che anche la sua posizione non era più sostenibile; le triremi elleniche si erano battute bene aumentando la fiducia nei mezzi della flotta, ma restare ancora così a nord sarebbe stato un rischio del tutto inutile.
Dopo aver tentato a lungo di convincere Leonida a ritirarsi assieme alle forze alleate, Temistocle, che non aveva mai lasciato il comando effettivo della flotta al superiore nominale Euribiade, decise di ritirarsi a sud dell'Attica, lasciando a malincuore il re spartano ad affrontare la sorte che, fin dall'inizio, la patria spartana gli aveva assegnato.
Dopo la ritirata della flotta e dell'esercito delle città coalizzate, tutte le poleis della Beozia, compresa Tebe, furono costrette ad aprire le porte all'armata del gran re. Dopo una settimana di marcia Serse penetrò infine in Attica pronto a vendicare, una volta per tutte, l'onore di suo padre.
All'avvicinarsi del grande esercito persiano Atene fu costretta a ricorrere a misure radicali: la difesa della città era da escludere a priori poiché a quel tempo Atene non era nemmeno cinta da mura difensive; su proposta di Temistocle, da molti, non solo in Atene, visto come l'ultima speranza dell'Ellade, l'intera cittadinanza fu trasferita dalla flotta sulle isole di Salamina e di Egina, mentre la flotta si schierava tra l'isola di Salamina e la costa dell'Attica.
Solo pochi irriducibili si rinchiusero nell'acropoli, sperando di resistere in un ultimo baluardo fortificato, ma Serse, dopo aver fatto bruciare la città quasi deserta, mise fine all'ultima resistenza massacrando tutti i difensori della fortezza nell'acropoli.
Il nemico, schierato di fronte, poteva effettuare qualche movimento di conversione e di accostata, ma certo non poteva far girare su se stesse le sue unità. D'altra parte bisogna considerare che se il nemico avesse avuto piloti ed equipaggi ben addestrati, poteva tentare la contromossa tattica navale dell'epoca, ossia l'attacco in anticipo sul fianco delle formazioni attaccanti in ordine di fila: con la manovra di conversione che i marinai greci chiamavano periplus (letteralmente circumnavigazione), per la quale era richiesta precisione di manovra e grande velocità. Se il periplus riusciva, era un disastro per l'attaccante, l'azione del diekplus lasciava il fianco aperto allo speronamento o all'abbordaggio nemico.
Nella manovra del periplus, o di accerchiamento, le navi si muovono per aggirare le ali della linea nemica e volteggiare intorno all'avversario, in modo da ridurne sempre più il campo d'azione e scompaginarne le file, in vista di un attacco di fianco o di spalle. Le navi accerchiate potevano utilmente difendersi disponendosi a cerchio, con le prue rivolte all'esterno e le poppe verso il centro. E se dotate di buona capacità manovriera potevano a loro volta attaccare, come Temistocle fece all'Artemisio.
Dunque, il diekplus era possibile solo in caso di una netta superiorità nella capacità di navigazione della flotta attaccante su quella attaccata. Quando invece non era possibile, le due flotte si schieravano frontalmente, prora contro prora, in modo da essere pronte all'attacco e controllare i movimenti nemici, così da impedirgli ogni libertà di manovra ed escludere il rischio dell'aggiramento. In tali casi la battaglia navale si riduceva all'urto di un'unità contro l'altra, con ogni sforzo, dipendente dalla sola capacità di manovrare, per riuscire a trasformare l'attacco prodiero in attacco sulle fiancate. Oppure si cercava di compiere l'arrembaggio, facendo abbordare le proprie fanterie sull'unità nemica, possibilmente facendo precedere l'arrembaggio da azioni distruttive con lanci di giavellotti, sassi o altre armi, in modo da diminuire l'efficienza nelle forze nemiche. Già Temistocle aveva costruito trireme un poco più larghe, gettando da prora a poppa, ove vi erano due piccoli elementi di ponte per il timoniere e per l'ufficialità, una lunga passerella, sulla quale schierare gli opliti per tenerli pronti, a livello, per gettarsi all'arrembaggio.
Un profondo cambiamento nella tattica navale fu introdotto dallo stratego ateniese Formione nella seconda metà del sec. V. Le sue eccezionali qualità di comandante e di navigatore si appoggiavano su equipaggi e costruzioni marittime nelle quali si affermava una lunga esperienza di popolazioni che vivevano sul mare e del mare. Formione, in alcuni combattimenti, Naupatto su tutti, con enorme inferiorità di effettivi rispetto al nemico (i Corinzi), dispose le sue unità in fila sentendosi evidentemente sicuro che il nemico non avrebbe osato attaccarlo sul fianco, oppure altrettanto sicuro di poter rapidamente cambiare il proprio schieramento appena questo avesse accennato un movimento di attacco e prese a navigare alla massima velocità e più rasente possibile allo schieramento nemico. Formione attese la prima folata di vento disponibile per spingere le navi in testa alla propria formazione a circondare le imbarcazioni nemiche fino a chiuderle all'interno di un cerchio delimitato dalle navi ateniesi, al cui interno il nemico non aveva possibilità di manovra. Così imbottigliati i Corinzi si prostravano agli attacchi nemici: con 20 navi contro 47, Formione attaccò ed ebbe facile vittoria.
In un altro scontro, ancora con 20 navi contro 77, Formione ricorse al sistema dell'anastrofe; questo consisteva nel far passare le proprie unità attraverso le linee nemiche (o meglio, tra le navi nemiche), facendole girare di colpo su se stesse e attaccando immediatamente le unità avversarie sulla prora o su uno dei due fianchi, a seconda della contromanovra con cui il nemico ribatteva all'anastrofe.
L'abilità, l'addestramento, la freddezza, ma sopratutto la velocità nel manovrare tra le navi avversarie degli equipaggi erano, nella manovra dell'anastrofe e ancora al tempo della guerra del Peloponneso, gli elementi decisivi, anzi unici, nel determinare l'esito dei combattimenti navali.
Gli avversari di Atene ricorsero ad altri mezzi, sviluppando maggiormente la tattica del combattimento di fanteria da bordo, o aumentando il peso e la forza dirompente e penetrante delle prore. I Siracusani, nella guerra contro Atene, sicuri della loro capacità di navigatori, impedendo agli Ateniesi di avere a loro disposizione i grandi spazi d'acqua necessari alla loro condotta di guerra marittima e obbligandoli ad affrontarli nelle acque dei porti, trasformavano le navi da guerra in piattaforme per il combattimento di fanteria da bordo. Con queste innovazioni l'abilità dei navigatori divenne meno importante, e il primato dei migliori marinai, gli Ateniesi, cominciò a decadere.
Sino al sec. V le flotte da guerra erano formate da navi a 50 remi, 25 per lato, pentecontori, possedute in piccolo numero di unità, poco veloci e poco manovrabili. Prima di Temistocle, anche dopo l'introduzione della trireme, 40 unità furono il massimo degli effettivi delle flotte messe assieme dai maggiori centri navali, come Samo. La trireme, sino all'introduzione della quinquereme nelle marine ellenistiche, rimase la nave da guerra greca tipica, unica e costante. Lo scafo era leggero, senza ponte, più sottile delle navi mercantili, e di media era lungo 35-40 metri e largo soltanto da 6 a 7 metri. La prora era molto alta, curvata a forma di falce, con una testa di ariete o altro simile oggetto in bronzo. Ai due lati della prora venivano dipinti due enormi occhi allo scopo di tenere lontana la malasorte.
Durante la guerra del Peloponneso la prora venne rinforzata con una trave perpendicolare all'asse longitudinale dello scafo, che andava da lato a lato e fuoriusciva, in modo da proteggere le scalmiere sporgenti della parte prodiera in relazione alla tattica navale del tempo. I banchi dei rematori non erano posti su tre piani differenti in modo da rendere libera la manovra del remo a ogni rematore erano tutti sullo stesso piano, ma disposti a «spina di pesce», vertice in avanti, cosicché, su ogni banco, sedevano tre rematori per parte, ognuno manovrando un remo.
Mentre i Persiani facevano conto sulla manovrabilità delle loro triremi, che trasportavano gruppi di arcieri per bersagliare di frecce il nemico, gli Ellenici a Salamina adottarono una tattica più brutale, cercando il contatto con le navi avversarie per sfruttare, dopo lo speronamento, i contingenti di opliti imbarcati.
Talvolta sulle triremi erano installate anche macchine da guerra per il lancio di pietre o di pesanti giavellotti contro le navi avversarie.
Si trattava comunque di una forza molto considerevole, in particolare per le capacità degli eserciti dell'epoca e, in ogni caso, decisamente superiore a quella che gli Elleni erano, nella migliore delle ipotesi, in grado di mettere in campo: circa 10.000 opliti per Sparta, tra i 7.000 e gli 8.000 per Atene, molti meno dalle città più piccole; la sola nota di ottimismo per i Greci veniva dalla grande flotta messa assieme dal lavoro di Temistocle che, come abbiamo detto, aveva dotato Atene di una consistente marina militare.
Restava il problema di convincere Serse a dare battaglia alle condizioni dei Greci. Qui sorge un problema di interpretazione storica; guardando semplicemente una carta della Grecia appare evidente anche a chi fosse del tutto digiuno di strategia navale che Serse, approfittando della netta superiorità navale di cui disponeva, avrebbe benissimo potuto impegnare le navi nemiche con una parte della flotta e far sbarcare una parte dell'esercito, col resto dei vascelli, sulla costa del Peloponneso, prendendo sul rovescio il dispositivo difensivo ellenico.
Secondo la tradizione degli scrittori antichi, Temistocle mandò dal gran re un proprio fedelissimo schiavo che, fingendo di voler defezionare, avvisò Serse che la flotta greca stava per ritirarsi. In realtà pare improbabile che un semplice schiavo abbia potuto rivolgersi direttamente al re; più verosimile sembra il fatto che Temistocle, in qualche maniera, sia riuscito a far girare nel campo avversario questa voce, contando sul fatto che, come era successo all'Artemisio, i Persiani confidassero talmente nella loro superiorità navale da non prendere nemmeno in considerazione l'ipotesi di manovre aggiranti.
E un alto grido suonar s'udiva insieme: «O figli d'Èllade, movete, orsù, liberate la patria, le spose, i figli liberate, e Vare dei Numi patri, e l'arche dei nostri avoli!». Surse di contro, dalle file nostre, un rumorio di persiani accenti: né d'indugi era tempo: già la nave alla nave battea col bronzeo rostro. Fu d'un navile ellèno il primo cozzo, e sfracellò d'un legno di Fenicia tutti gli aplustri; e nave contro nave chi qua chi là dirigono le prore.
La gran fiumana dell'armata persa resse da pria. Ma poi che la caterva dei legni nello stretto era stipata, né luogo avea reciproco soccorso, anzi l'un l'altro con i bronzei rostri si percoteano, gli ordini dei remi franti furono tutti; e i legni ellèni accortamente l'investiano in giro.
Rovesce andaron le carene: sotto i frantumi dei legni, e sotto i corpi insanguinati, scompariva il mare, spiaggia e scogli eran colmi di cadaveri; e quante navi avean le schiere barbare, facean forza di remi, a sconcia fuga.
Ma, come tonni, o come pesci in rete già stretti, gli altri con troncon' di remi, con le schegge e i frantumi, li colpivano, li sbranavano: e gemiti di morte e trionfal clamore empieano il pelago, sin che li ascose de la notte il volto.
Ma dir non ti potrei tutta la piena delle sciagure, pur se il mio racconto durasse dieci anni continui. Sappi bene questo, però: che si gran numero d'uomini in un sol di mai non fu spento.
In Grecia il Re lasciò l'esercito al comando del generale Mardonio, col progetto di passare l'inverno e riproporre una campagna terrestre l'anno dopo. Mentre la flotta rientrava in disordine verso l'Asia Minore, il Re cautamente riguadagnava l'Ellesponto, che attraversò dopo un mese, portandosi tutto l'esercito, esclusi i Persiani e i Medi che Mardonio scelse di tenere con sé, circa 50.000 combattenti.
In verità, come dicevamo, per quanto ancora pericolosa, la presenza persiana nel cuore della Grecia era destinata al fallimento: senza rifornimenti, la flotta ellenica ormai aveva assunto il controllo dell'Egeo, e Mardonio fu costretto ad accettare battaglia la primavera seguente a Platea, dove fu sconfitto e ucciso. Dopo quell'anno, il 479 a.C., i Persiani non minacceranno più direttamente la libertà delle poleis greche. Sarà la Grecia stessa, col venire alla luce dei conflitti che la minaccia persiana aveva solo apparentemente sopito, a dilaniarsi in una guerra fratricida. Dopo la guerra del Peloponneso, gli Elleni dovranno subire la dominazione di un Re, ma si tratterà di un Re di lingua ellenica nato al nord, tra i monti della Macedonia.