Il 6 novembre del 2009 il presidente della Camera, Gianfranco Fini, partecipava a un convegno organizzato in occasione
del «premio Paolo Borsellino» (un giudice assassinato dalla mafia 17 anni prima.)
Accanto a lui c’era un anziano magistrato, Nicola Trifuoggi. Non rendendosi contro della sensibilità dei microfoni, il presidente
della Camera intavolò con Trifuoggi una conversazione attorno ai gravi problemi giudiziari di Silvio Berlusconi, il capo del
governo dell’epoca, e fece una serie di considerazioni sulla necessità che, di fronte a un sospetto grave come quella di collusione
con la mafia (una potente organizzazione criminale capace di infiltrarsi nelle istituzioni pubbliche), le indagini della magistratura fossero particolarmente accurate.
Il magistrato, naturalmente, condivise: «Si devono fare queste indagini», disse. In altri tempi la conversazione sarebbe
finita lì. Il fatto è che all’epoca - nei giorni del tramonto della Seconda Repubblica - niente era ovvio, nemmeno le regole di base della convivenza civile. Il presidente della Camera fece notare al magistrato che certamente le indagini si dovevano fare, ma c’era un problema. «Lui - disse riferendosi al presidente del Consiglio - confonde il consenso popolare con una sorta di immunità nei confronti di qualsiasi altra autorità di garanzia e di controllo». «È nato con qualche millennio di ritardo - osservò il magistrato - voleva fare l’imperatore romano». (Questo passo del colloquio può risultare oggi incomprensibile: bisogna sapere che il capo del governo italiano dell’epoca era un multimiliardario e praticamente controllava, caso unico nell’occidente democratico, l’intero sistema dell’informazione).
Ma dicevamo che il presidente della Camera non aveva considerato la sensibilità dei microfoni. Quel colloquio privato, infatti,
fu captato e divenne pubblico, con grande scandalo. Ne parlarono tutti i telegiornali e tutti i giornali. Gli uomini fedeli al capo del governo trattarono quelle ovvie considerazioni sulla lotta al crimine organizzato come una specie di tradimento. Spropositi oggi incomprensibili, ma allora divennero un tema del dibattito politico.
Pochi fecero caso alla rassegnata ironia con cui quel vecchio magistrato aveva ascoltato le osservazioni del presidente della Camera. Il giudice Nicola Trifuoggi - come avrebbe raccontato in seguito - venne a sapere della pubblicizzazione di quel
colloquio da un telegiornale. Malinconicamente aprì una vecchia cartella e tirò fuori un ritaglio di giornale del 17 ottobre del
1984. C’era anche il suo nome, accanto alla definizione «pretore d’assalto». Era successo che, applicando una legge che vietava
alle televisioni private di trasmettere in simultanea in tutto il territorio nazionale, aveva ordinato l’interruzione di quella pratica illegale. Ma pochi giorni dopo il presidente del Consiglio dell’epoca, si chiamava Bettino Craxi, aveva fatto un decreto per rendere legale quella illegalità. «È cominciato tutto allora», pensò il giudice Trifuoggi prima di spegnere la tv.
"A Silvio ho detto: statte quieto. Per lui il consenso è immunità" Ecco il testo integrale della conversazione intercorsa tra i due mentre credevano di non essere ascoltati, ma che è stata registrata perché avvenuta a microfoni ancora «aperti»: Fini: - Pecora nell’ambito del suo discorso afferma: «Noi siamo di passaggio, qua nessuno è eterno, non si vive in eterno». - Fini: «...Se ti sente il presidente del Consiglio si incazza». |