Ora le rogne sono tutte della procura di Roma perché quel che è avvenuto è chiaro alla luce del codice penale. Articolo 640, ricettazione. "Chi, al fine di procurare a sé o ad altri un profitto, acquista, riceve o occulta cose provenienti da un qualsiasi delitto o comunque s'intromette nel farli acquistare, ricevere od occultare, è punito con la reclusione da due a otto anni". È indubbio che Signorini, Marina Berlusconi e Maurizio Costa, per procurarsi un profitto, hanno ricevuto quel video palesemente ottenuto con un delitto (con la violenza e la violazione del domicilio). È indubbio che Silvio Berlusconi si sia intromesso per far acquistare, prima, e occultare, poi, quella "cosa proveniente da un delitto". Se la legge è uguale per tutti, è ragionevole pensare che la procura di Roma cercherà di capire chi ha "pilotato" i falsi ricattatori mentre invierà a Milano, per competenza, le carte di una ipotetica ricettazione. |
Ricatto a Marrazzo. La fonte vicina all'inchiesta non ci gira intorno: "Non c'è alcun altro politico di destra o di sinistra, ministro in carica, ministro uscente, professionista celebre o ignoto, "Chiappe d'oro" o d'argento nella nostra indagine". Forse salteranno fuori domani o forse mai. Per intanto, si deve dire che il vivamaria di indiscrezioni e nomi sussurrati che avvelenano o eccitano il Palazzo appare soltanto un efficace lavoro per confondere l'affaire. Che ha due capitoli. Il primo è noto. All'unisono tutti - una volta tanto - chiedono che sia chiuso con le dimissioni di Marrazzo. Riguarda le debolezze private del governatore, la leggerezza di un uomo pubblico che, ricattato, non denuncia il ricatto e, scoperto il ricatto, mente o dissimula nella scriteriata speranza di salvare il collo e la reputazione. Ma fu vero ricatto o Marrazzo può avere qualche ragione se ha creduto, per quasi quattro mesi, di essere stato vittima di una rapina e non di un'estorsione?
Bisogna allora leggere il secondo capitolo della storia dove la trama degli eventi è sconnessa, la successione contraddittoria, le volontà e le azioni senza senso. Tre carabinieri, tre tipi sinistri, con la complicità di un pusher tossicomane (Gianguarino Cafasso), penetrano con la forza in un appartamento dove il governatore è in compagnia di un viado. Lo sbattono contro un muro. Lo obbligano a sfilarsi i pantaloni (è l'ultima versione di Marrazzo). Sistemano un palcoscenico con trans scollacciato, denaro, cocaina, tessera dell'"Associazione nazionale esercenti cinema" con foto. Riprendono la scena con un cellulare. Gli svuotano il portafoglio (2.000 euro). Lo obbligano a firmare tre assegni per 20 mila euro (che non incassano). Se ne vanno. È il 3 luglio, venerdì. Già qualche giorno dopo, l'11 luglio, il pusher tossicomane contatta, attraverso il suo avvocato, la redazione di Libero (diretto da Vittorio Feltri). È bizzarro un ricatto con i ricattatori che non provano nemmeno a spillare denaro alla vittima, ma si preoccupano subito di rendere inutilizzabile l'arma minacciosa che si sono procurati. Perché? La ragione ce l'abbiamo sotto gli occhi: Piero Marrazzo non è stato mai ricattato dai carabinieri. Quelle canaglie non ci hanno mai pensato. Avrebbero dovuto comportarsi in un altro modo. Hanno il governatore nelle loro mani, troppo terrorizzato per denunciarli. Possono mettersi comodi e spremerlo per bene, e a lungo, ottenendo denaro e favori. Con tutta evidenza, non è questa la loro missione. Non chiedono niente, non vogliono niente, non si fanno mai vivi per batter cassa. Il lavoro sporco che devono sbrigare è un altro: incastrare il governatore e "sputtanarlo". Ecco perché cercano di vendere subito il video. L'iniziativa, a tutta prima, appare stupida, incomprensibile, se parliamo di estorsione. Si rivolgono all'agenzia PhotoMasi di Milano. Non ha torto Carmen Masi a chiedersi oggi: "Quale ricattatore cerca di rendere pubblico l'oggetto del ricatto? È assurdo". Infatti, lo è. Hai un bottino che può durare nel tempo e lo trasformi in un piatto di lenticchie mangiato una volta e per sempre?
Chi sono allora questi furfanti vestiti da carabinieri? Bisogna chiederlo alla fonte vicina all'inchiesta. Quello si gratta la testa e dice: "Ce ne occuperemo a tempo debito. Ora si possono fare solo tre ipotesi. 1. Sono tre pezzenti. 2. Sono "comandati". 3. Sono eterodiretti". La prima ipotesi è la più improbabile". Per dare un senso a una storia che non sta in piedi, si deve accantonare il ricatto che non c'è, che non c'è mai stato, ed esplorare la strada che imbocca il video. Chi lo vede? Chi lo possiede?
È, dunque, l'11 luglio. Un avvocato, per conto del pusher tossicomane, contatta la redazione di Libero. Due giornaliste, tre giorni dopo (il 15), incontrano Gianguarino Cafasso che mostra loro, in una stamberga della Cassia, il filmato con Marrazzo. È Cafasso a parlare di "politici e trans, di cui sa tutto" e di quello chiamato "Chiappe d'oro". Vuole 500mila euro (che nel tempo si riducono a 90 mila) per le immagini del governatore: "così chiudo con questa vita". Le giornaliste non sono convinte. I tre minuti del video sembrano taroccati. Chiedono di rivederlo. Niente da fare. Un paio di giorni per decidere o non se ne fa niente, dice Cafasso. Le giornaliste informano Vittorio Feltri che decide di lasciar perdere. Il video si muove ancora. Prima di ferragosto viene proposto ad Oggi (gruppo Rizzoli). Un inviato del settimanale lo visiona il 1 settembre a Roma. Gli appare taroccato. Vuole verificarne l'attendibilità. Gli viene impedito. La direzione di Oggi (Andrea Monti. Umberto Brindani), qualche giorno dopo, chiude la trattativa con la PhotoMasi, incaricata di commercializzare il video da un quarto carabiniere della banda. Il dischetto continua a girare per vie misteriose che vanno oltre i contatti dell'agenzia milanese. Non è più Cafasso a muoverlo. Stroncato dai suoi vizi e dal diabete, è morto in una stanza d'albergo. In settembre sente parlare del video Maurizio Belpietro, diventato direttore di Libero. Riesce a farselo mostrare, anche se non ne entra in possesso, il 12 ottobre. Anche lui s'impiomba dinanzi a quelle immagini troppo confuse che ipotizza false, ma ormai negli ambienti del governo e del centro-destra molti sanno che quel video esiste e che, prima o poi, si troverà il modo per mostrarlo a tutti. C'è chi storce la bocca per il disgusto e lascia filtrare da fine settembre la notizia del "filmatino", rifiutato da Feltri e Belpietro. Sono i primi giorni di ottobre, ormai, e il lavoro sporco dei carabinieri, forse "comandati", forse eterodiretti, mostra la corda. Nessuno vuole il video nelle testate che avrebbero avuto l'interesse politico - Cafasso è esplicito con le croniste di Libero - a pubblicarlo. Feltri l'ha rifiutato. Belpietro non l'ha voluto. A Mario Giordano, direttore del Giornale fino a luglio, non è stato nemmeno proposto.
Bisogna ricominciare daccapo, cambiando qualcosa nella procedura. Quando Carmen Masi contatta Alfonso Signorini, direttore di Chi (Mondadori), ottiene materialmente il video (l'agenzia non l'ha mai posseduto) e viene autorizzata finalmente dai quattro furfanti a lasciarlo in visione al possibile acquirente. È il cinque ottobre, Signorini riceve il dischetto, firma una ricevuta. Copia le immagini. Ora è decisivo sapere che cosa accade tra la Mondadori, Palazzo Grazioli, Villa San Martino, tra il 5 e il 19 ottobre, quando Berlusconi chiama Marrazzo per dirgli che c'è un video compromettente e che farebbe meglio a ricomprarselo dall'agenzia mentre gli detta il numero di telefono di Carmen Masi e di un possibile mediatore. Nella nebbia, c'è qualche punto fermo. Signorini decide di non pubblicare. È certo che non restituisce il dischetto. È certo che informa il presidente della Mondadori (Marina Berlusconi) e l'amministratore delegato (Maurizio Costa). È certo che Silvio Berlusconi ha modo di vedere il video che Signorini ha consegnato a Marina. I tempi diventano determinanti. Quando il direttore di Chi consegna le immagini a Marina? Quando Marina le mostra al padre? Quanto tempo Silvio Berlusconi si rigira tra le mani il dischetto prima di telefonare a Marrazzo?
I tempi sono determinanti perché, in quelle ore, il diavolo ci metta la coda. Le cose vanno così. Un pubblico ministero di una procura italiana sta dietro a una banda di trafficanti di droga che sta combinando "un affare molto, molto grosso". Telefoni sotto controllo. "Cimici" ambientali. Pedinamenti. Insomma, l'ambaradam di questi casi. Nella "rete" resta impigliato uno dei carabinieri canaglia che ha aggredito Marrazzo. L'"ascolto" si allarga ai suoi telefoni. Quello parla con uno della combriccola in divisa e si sente dire: "... il video del presidente...".
Il video del presidente. Il pubblico ministero a chi può pensare? Non è romano, non è laziale. L'ultima persona che gli può venire in mente è Marrazzo. Pensa a quel presidente, a Berlusconi. Si dispera. È di fronte a un'alternativa del diavolo. Sa di dover intervenire subito per proteggere il capo del governo da chissà che cosa ed è consapevole che, se lo fa, gli va per aria l'inchiesta. Decide di liberarsi della patata bollente. Intorno al 9 ottobre chiama il procuratore aggiunto di Roma, Giancarlo Cataldo, e gli spiega l'impiccio: occupatevene voi, vi mando le carte, voi mettete le mani sul video, ammesso che esista, io salvo la mia inchiesta, voi salvate Berlusconi. Così sarà. Il 14 ottobre un'informativa del Ros mette in moto la procura di Roma.
A questo punto, si deve immaginare Berlusconi. Da un lato, come presidente del consiglio, il 19 viene informato che magistrati e carabinieri sono sulle tracce di "un video del presidente" che potrebbe coinvolgerlo. Dall'altro, come proprietario della Mondadori, quel mattino ha sul tavolo il video che magistrati e carabinieri stanno cercando. Non devono essere state ore serene. Se non si muove, se non fa qualcosa, chi toglie dalla testa dell'opinione pubblica che il presidente del consiglio - protetto da uno straordinario conflitto di interessi - governi una "macchina del fango", nel tempo sbattuta contro la reputazione di Dino Boffo (direttore dell'Avvenire), Gianfranco Fini (presidente della Camera), Raimondo Mesiano (giudice responsabile di avergli dato torto in una causa civile)? Chi azzittirà le grida della "solita sinistra" e dei "comunisti" persi dietro al cattivo pensiero che quel video - né pubblicato né restituito né consegnato alla magistratura - sia custodito in attesa di tempi migliori, magari elettorali? Berlusconi decide d'impulso, come sempre. Vuole uscire dall'angolo, ribaltare la scena. Chiama il governatore: "Non mi potranno dire che non sono stato un gentiluomo". Gli dice di muoversi. Spera che Marrazzo faccia in fretta. Compri il video, lo distrugga cancellando un lavoro malfatto che può essere molto pericoloso. Come si sa, il governatore si muove lento, i carabinieri veloci. Quel che rimane è storia di questi giorni e annuncia un terzo capitolo ancora non scritto.
Ora le rogne sono tutte della procura di Roma perché quel che è avvenuto è chiaro alla luce del codice penale. Articolo 640, ricettazione. "Chi, al fine di procurare a sé o ad altri un profitto, acquista, riceve o occulta cose provenienti da un qualsiasi delitto o comunque s'intromette nel farli acquistare, ricevere od occultare, è punito con la reclusione da due a otto anni". È indubbio che Signorini, Marina Berlusconi e Maurizio Costa, per procurarsi un profitto, hanno ricevuto quel video palesemente ottenuto con un delitto (con la violenza e la violazione del domicilio). È indubbio che Silvio Berlusconi si sia intromesso per far acquistare, prima, e occultare, poi, quella "cosa proveniente da un delitto". Se la legge è uguale per tutti, è ragionevole pensare che la procura di Roma cercherà di capire chi ha "pilotato" i falsi ricattatori mentre invierà a Milano, per competenza, le carte di una ipotetica ricettazione.
La Bicamerale di via Gradoli 96 una palazzina dei servizi segreti
Non si finisce mai d’imparare. Tutti a chiedersi ma come è possibile che di questi tempi, coi dossier che si affastellano nelle operose stanze dei giornali dediti a diffonderli - di tutto, nei dossier: quanto paghi di mutuo, se sei in regola con i bollettini della mensa dei figli, che tipo di biancheria intima prediligi e in che negozio la compri, se tuo zio ha militato in un partito politico, se tua nonna fa regali costosi ai nipoti, telefoni e computer naturalmente sotto controllo - ecco come è possibile che un uomo pubblico già giornalista televisivo di fama, uno che per strada riconoscono tutti, massimo esponente dell’opposizione dunque boccone succulento per i manganellatori di regime pensi di poter frequentare con regolarità una casa di appuntamenti facendosi accompagnare dall’autista che aspetta fuori, di giorno, in una strada larga così zeppa di condomini alti così, una strada che è un budello senza uscita, l’ultimo posto al mondo dove consumare incontri clandestini e segreti. Questa era la garanzia reciproca: c’erano tutti e si ignoravano reciprocamente, magari si incrociavano per le scale, gli autisti spostavano le auto quando altre ne arrivavano. «Via Gradoli 96» è il titolo di un libro di Sergio Flamigni: una palazzina dei servizi segreti, scrive. Carabinieri mele marce ricattatori, droga e filmini compromettenti come merce di scambio, chi paga e chi è pagato. Non si finisce mai d’imparare, davvero. Nella stagione del più aspro scontro politico, del tempo delle barricate tra le opposte fazioni la bicamerale di via Gradoli è stato fino a ieri il luogo più frequentato del trasversalismo politico. Tutti d’accordo, sulla Cassia. |
Il caso Moro: Romano Prodi, via Gradoli e la seduta spiritica
ANTEFATTO: Il 3 aprile 1978, nel corso di una seduta spiritica a cui partecipa il futuro presidente dell’Iri, Romano Prodi, una “entità” [nella fattispecie, e come risulterà dal verbale, gli spiriti di Don Sturzo e La Pira, n.d.r] avrebbe indicato “Gradoli” come luogo in cui era tenuto prigioniero Aldo Moro. E’ la seconda volta che viene fuori il nome “Gradoli”. La prima fu una manciata di giorni prima. Il 18 marzo, alle 9 e 30 del mattino, gli agenti del commissariato Flaminio Nuovo si presentano al terzo piano della palazzina al numero 96 di via Gradoli, una stradina residenziale sulla via Cassia. Una “soffiata” molto precisa, forse proveniente da ambienti vicini ai servizi segreti, ha segnalato che lì, all’interno 11, c’è un covo delle Br. Gli agenti bussano alla fragile porta di legno, ma nessuna risponde. Apre invece l’inquilina dell’interno 9, Lucia Mokbel, e racconta di aver sentito provenire dall’appartamento sospetto dei ticchettii simili a segnali Morse. Secondo le disposizioni vigenti i poliziotti dovrebbero a quel punto sfondare la porta, o quantomeno piantonare il palazzo. Invece vanno via. Al processo Moro presenteranno un rapporto di servizio grossolanamente falso, costruito a posteriori, stando al quale i vicini avrebbero fornito “rassicurazioni” sull’onestà dell’inquilino dell’interno 11, il ragionier Borghi, alias Mario Moretti. Saranno sbugiardati pubblicamente, ma mai puniti. Il 18 aprile la porta dietro cui forse era stato nascosto, fino a qualche giorno prima, lo stesso Aldo Moro, viene finalmente sfondata. Non da polizia e carabinieri però, ma da pompieri; che ci arrivano a causa di un allagamento. Anche se i brigatisti lo hanno sempre negato, si tratta di una messinscena organizzata perché il covo venga scoperto: il telefono della doccia è sorretto da una scopa e puntato contro una fessura nel muro aperta con uno scalpello in modo da far filtrare meglio l’acqua lungo i muri fino all’appartamento dei vicini, che infatti daranno l’allarme. Il 10 giugno 1981 Romano Prodi viene chiamato a testimoniare davanti alla Commissione Moro per rispondere degli avvenimenti che sarebbero occorsi durante la seduta spiritica. Il 5 aprile 2004 Romano Prodi viene ascoltato come testimone dalla “Commissione parlamentare d’inchiesta concernente il dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana”. Secondo il presidente della commissione, Paolo Guzzanti, Prodi “non ha avuto il coraggio di pronunciare le parole seduta spiritica, piattino o tazzina”. Nel corso della seduta, l’On. Fragalà ha ricordato all’ex presidente dell’Iri un articolo del settimanale “Avvenimenti“, secondo il quale Giuliana Conforto, figlia di Giorgio Conforto, agente del Kgb con nome in codice Dario, aveva ospitato Valerio Morucci e Adriana Faranda, brigatisti contrari al sequestro di Moro. Un’amica di Conforto, Luciana Bozzi, aveva affittato la casa di via Gradoli al commando delle Br. Secondo questa tesi, non commentata da Prodi, fu il Kgb a far sapere del covo di via Gradoli e la messinscena della seduta spiritica fu organizzata per coprire la vera fonte. (fonti: S. Flamigni, M. Gambino, “Il Caso Moro“; Wikipedia; AUDIZIONE DI ROMANO PRODI PRESSO LA COMMISSIONE MORO – 10 GIUGNO 1981 PRESIDENTE: Debbo richiamare la sua attenzione sul fatto che la Commissione assume le sue dichiarazioni in sede di testimonianza formale e sulle conseguenti responsabilità in cui ella può incorrere, anche in relazione al dovere della Commissione di comunicare all’Autorità giudiziaria eventuali dichiarazioni reticenti o false (…) ROMANO PRODI: Ripeto quanto ho già scritto nella mia lettera. In un giorno di pioggia in campagna, con bambini e con le persone che penso vedrete successivamente, perchè sono tutte qui, si faceva il cosiddetto «gioco del piattino» (…) Uscirono Bolsena, Viterbo e Gradoli. Naturalmente, nessuno ci ha badato; poi, in un atlante, abbiamo visto che esiste il paese di Gradoli. Abbiamo chiesto se qualcuno ne sapeva qualcosa e, visto che nessuno ne sapeva niente, ho ritenuto mio dovere, anche a costo di sembrare ridicolo, come mi sento in questo momento, di riferire la cosa (…) CORALLO: Per farla sentire meno ridicolo, dato che questa sensazione è un po’ comune a tutti … Mi scusi, professore, vorrei dirle che la scrupolosità della Commissione parte da un’ipotesi che dobbiamo accertare essere inesistente, e cioè – non credo molto agli spiriti – se ci possa essere stato qualcuno capace di ispirarli (…) Chi partecipò attivamente al gioco? Voi eravate tanti, però un ditino sul piattino chi lo metteva? ROMANO PRODI: A turno tutti: c’erano 5 bambini; era una cosa buffa. Non crediamo alla atmosfera degli spiriti e che ci fosse un medium. Io le dico: tutti; anch’io ho messo il dito nel piattino (…) PRESIDENTE: Non c’era un direttore dei giochi? |
Un bel pasticcio. Altro che Marrazzo. A complicare il tutto emerse poi che quell’appartamento, affittato dal capo delle BR sotto falso nome, era di proprietà nientemento che dei servizi segreti italiani. Con la scandalo Marrazzo – il “trans gate” – è tornata clamorosamente alla ribalta una strada, Via Gradoli, tristemente nota per il sequestro Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse. Durante il sequestro, le BR avevano in quella via nella zona nord di Roma, una base logistica di primo piano (mentre Moro, fisicamente, era rinchiuso in Via Montalcini); da qui operavano molti brigatisti (Balzerani, Morucci, Faranda tra gli altri) ma soprattutto il loro capo, Mario Moretti, che aveva preso in affitto quell’appartamento nel 1975 sotto il falso nome di Mario Borghi e che lì andava a dormire la sera mentre faceva la spola con la prigione di Moro in via Montalcini. La polizia si presenta in Via Gradoli per la prima volta il 18 marzo 1978, appena all’inizio del sequestro Moro, solo due giorni dopo la strage di Via Fani. I cinque poliziotti vi vengono inviati dalla Direzione Generale di Pubblica Sicurezza ma si limitano a bussare alla porta, andandosene dopo la mancata risposta degli inquilini. Il secondo episodio data 2 aprile 1978, la famosa seduta spiritica officiata da Romano Prodi nella campagna bolognese, a Zappolino, durante la quale alcuni commensali attorno a un tavolo invocano gli spiriti di Giorgio La Pira e Don Sturzo, facendo muovere un piattino su un tavolo alfabetico e ricavandone le parole: Gradoli, via Cassia, Viterbo, 6, 11. Prodi, solo dopo due giorni dalla rivelazione – i weekends sono sacri – riferisce l’informazione alla segreteria della DC, la quale la trasmette a sua volta al ministero dell’Interno che scatena, per risposta, perquisizioni a tappeto nel paesino di Gradoli (non la via) in provincia di Viterbo senza trovare nessuna traccia, ne di brigatisti, ne di Aldo Moro. A nessuno verrà in mente di perquisire Via Gradoli sulla Cassia (che tra l’altro sta al civico 96, interno 11) non ai dirigenti che avevano ordinato la perquisizione il 18 marzo e nemmeno al ministro dell’Interno, Cossiga, anche perché, spiega, la via non era nelle pagine gialle della capitale. Ultimo capitolo, il 18 aprile, il covo viene scoperto dai vigili del fuoco che intervengono su richiesta dell’inquilino sottostante per una perdita d’acqua che filtra attraverso il soffitto. Il motivo? E’ stata lasciata aperta la pistola della doccia, che allaga il bagno del covo BR. Invece di tenere segreta la scoperta, dato che gli inquilini non sono ancora rientrati, la notizia viene diramata a giornali e TV ed è lo stesso Cossiga a telefonare alla Rai, a Sergio Zavoli, perché sia informato dell’accaduto. Di Moretti e compagnia nessuna traccia. Passeranno ancora 21 giorni prima che Aldo Moro venga ucciso, il 9 maggio 1978, dal commando dei brigatisti. Un bel pasticcio. Altro che Marrazzo. A complicare il tutto emerse poi che quell’appartamento, affittato dal capo delle BR sotto falso nome, era di proprietà nientemento che dei servizi segreti italiani. |