Cinque anarchici del Sud
di Angela D'Amelio

Era il 26 settembre 1970 quando una Mini Minor si schiantò contro un camion. Il caso fu frettolosamente archiviato come incidente. Ma un filo nero collega la scomparsa di quei ragazzi con la strage della Freccia del Sud, i fascisti e la 'ndrangheta

REGGIO CALABRIA.
Antonella Scordo ha la voce bassa, un po' roca e con quell'aspro che lascia l'accento calabrese. Mostra le mani e racconta delle 22 ore passate
in piedi alla caserma di Bolzaneto, prima di finire al carcere di Vercelli. Dice, un po' divertita, che hanno avuto difficoltà a prenderle le impronte
e che all'inizio, per via dei capelli corvini e ricci e della carnagione scurissima, l'hanno scambiata per una nera e lei, quando ancora aveva voglia
di scherzare, si è guardata bene dal chiarire l'equivoco. Racconta di come il giorno prima, venerdì, è riuscita a sfuggire al poliziotto che l'inseguiva lanciandogli contro lo zainetto dove era la fotografia che aveva portato per Diario, che in questo modo è andata persa.
Lungomare di Reggio Calabria fine luglio, in un caffè pieno di delizie inavvicinabili per il caldo, Antonella Scordo parla delle botte di Genova:
ora che si è tolta gli occhiali e i suoi incredibili occhi celesti quasi mandano lampi, è ancora più difficile interromperla. Era venuta a raccontare un'altra storia, una storia della sua infanzia, che le ha segnato tutta la vita. Quando aveva 12 anni, era il 1972, scappò di casa. Due anni prima
era morto suo fratello, Francesco Scordo, insieme ad altri quattro amici anarchici in un incidente stradale poco chiaro. "Franco mi mancava", racconta, "era la prima volta che incontravo la morte e perciò all'inizio non riuscivo neanche a credere a quello che era successo,
per farmi coraggio mi dicevo "vedrai che un giorno o all'altro torna, vedrai che è solo uno dei suoi scherzi".
Mio fratello mi piaceva per le sue idee, perché mi ascoltava anche se ero piccola, ma soprattutto per il suo modo di vivere.
Lui e i suoi amici erano la prova vivente che si poteva cambiare qualcosa anche da noi, anche a Reggio Calabria".

UNA BAMBINA A SUO MODO FAMOSA.
Ma passavano i mesi, gli anni, non si facevano processi, né indagini; nessuno parlava più dei cinque ragazzi anarchici morti in un incidente. E tutti, tranne lei, sembravano rassegnati. Perciò una notte Antonella se ne andò per cercare di scoprire qualcosa. Scoprì solo che la sua famiglia non era molto amata in quel periodo perché diversi giornali, dopo aver scritto parole al veleno sul fratello e i suoi amici, riuscirono a speculare persino su quella fuga di bambina. Tra i pochi che non le dettero addosso c'era un giornalista giovane e allora ancora poco noto: Paolo Mieli, che sull'Espresso approfittò della fuga di Antonella per ricostruire la storia dei cinque giovani anarchici misteriosamente scomparsi e tra i primi scrisse che la loro morte era legata agli attentati e alle attività dei fascisti che agivano in Calabria in quegli anni. Quando tornò a casa Antonella era una bambina famosa, ma di quella notorietà che al Sud non è molto apprezzata. Da allora in poi la vita le ha riservato diversi brutti scherzi, la morte le è passata spesso vicino e adesso, come un naufrago, non parla molto volentieri di tutto quello che ha passato, le è rimasto il corpo asciutto di una quindicenne, la sua bella faccia da Zeudi Araya calabrese e una rabbia che da quando è morto il fratello Francesco nessuno è più riuscito a capire. Poche settimane fa è stata in Consiglio comunale per chiedere una presa di posizione su Genova, "ma che vuoi, siamo partiti in pochi, neanche ci hanno voluti ascoltare".
Reggio Calabria, Napoli, Roma, Milano: ogni città una scheggia di storia e ogni pezzo è una novella.
Perdere il filo è facile, anche perché, diciamolo subito, sono fatti di trent'anni fa. Ma non è una storia vecchia, anche questo va detto subito: molti dei protagonisti sono morti, così come molti dei mestatori e dei testimoni, ma c'è qualcuno che l'ha fatta franca e adesso se ne va in giro ripulito a guardare dall'alto in basso quelli che ha ingannato. Sono cose del passato, che pesano ancora sui nostri giorni, anche perché questa storia - avvenuta quasi tutta nell'immobile periferia Sud del Paese - a un certo punto s'accavalla alle bombe di piazza Fontana ed è attraversata dagli stessi protagonisti del Golpe Tora Tora, meglio conosciuto come il golpe Borghese o "da operetta", gente uscita indenne da un processo e ricomparsa in indagini su stragi come quella di piazza della Loggia a Brescia, che nessuno ha osato mai definire da operetta.
Quando capita, come qualche mese fa, dopo che i giudici hanno condannato tre fascisti per piazza Fontana, che due uomini del governo, gli avvocati Taormina e Pecorella, abbiano commentato così il dispositivo della magistratura: "Una sentenza scritta con la penna rossa", allora viene da pensare che forse anche quelle che sembravano storie vecchie non lo sono più.

DERAGLIAMENTO NON ACCIDENTALE.
Perciò anche se sono passati 30 anni, forse vale la pena di tornare a parlare della scomparsa di cinque giovani anarchici del Sud, e dei documenti che portavano con loro al momento della morte. In quelle carte, in molti concordano oggi, ci sarebbe state le prove di ciò che oggi è assodato anche da un processo e da una sentenza del giugno scorso, che cioè il deragliamento della Freccia del Sud del 22 luglio 1970, che causò la morte di sei persone, non fu accidentale e neppure fu colpa dell'imperizia dei macchinisti che furono messi sotto accusa in un primo momento. Fu l'ennesimo attentato della 'ndrangheta per conto dei fascisti di Avanguardia nazionale che avevano messo a ferro e fuoco Reggio Calabria.
Luglio 2001. A Striano, brutto borgo nella piana dei pomodori e delle frane - confina con Sarno - alla trattoria "'O spuntino" si mangia il migliore arrosto di pecora della zona. Turisti non ne capitano molti, ma evidentemente bastano i camionisti e i ragazzi della zona per far quadrare i conti, perché il ristorante è ben tenuto e in una palazzina moderna, a dare una mano al proprietario Aniello Serafino, 62 anni, oltre alla famiglia al completo, ci sono un paio di belle ragazze polacche. Il 26 settembre 1970 c'era lui alla guida del camion sotto il quale morirono i cinque ragazzi. Ed è l'unico testimone ancora in vita di ciò che accadde. Tra una pizza e un piatto di stoccafisso il signor Aniello non ha nessuna difficoltà a raccontare quello che ricorda a proposito dell'incidente che costò la vita a quella che lui chiama "la banda Valpreda". Lo dice senza acrimonia, quasi cercando il nome giusto nella memoria. Perché in quegli anni solo conoscere Valpreda era una prova di colpevolezza certa.
Una notte guidava il camion, un Fiat 690 col rimorchio, andava a Milano a vendere pomodori pelati, ne trasportava 300 quintali. Autostrada del Sole, 58 chilometri da Roma, notte stellata, asfalto asciutto, salita, il camion carico arrancava a 45 chilometri orari al massimo. L'incredibile è successo che erano passate da poco le undici, Aniello Serafino guidava e Aniello Ruggiero, il padroncino, dormiva in branda. Una botta orrenda da dietro, Aniello Serafino ha pensato che un autocarro avesse sbattuto forte contro il rimorchio, che infatti subito dopo comincia a oscillare. Freccia a destra e piano piano accosta. Senza lasciare segni di frenata, il camion si ferma sulla corsia gialla. Ma quando esce dalla sua cabina quello che vede è probabile che se lo sia sognato per anni. Cinque ragazzi in parte ancora dentro, in parte sbalzati fuori da una Mini Minor, dopo il trattamento lasciato dal rimorchio sotto cui erano finiti. Di quello che ha provato quando ha visto la strage nel verbale d'interrogatorio dell'epoca non c'è traccia. E neanche nelle sfumature della voce, ma sono passati 30 anni. A voler fare i puntigliosi un segnale ci sarebbe, ma vai a capire oggi se le parola battute a macchina nel "sommario verbale" sono farina del suo sacco o del poliziotto che le ha trascritte. Comunque questo è quanto si legge: "Sceso dal veicolo… io non potei che constatare il decesso di tre persone e di altre due che ancora davano segni di vita". Tradotto in termini meno inquietanti si potrebbe dire: quei cinque ragazzi erano comunque spacciati, sia i vivi che i morti. E questo è l'unico punto su cui sono d'accordo tutti, sia quelli che pensano che quest'incidente sia stata una fatalità, sia quelli che giurano che è stato un attentato. E non si tratta solo delle ferite lasciate dal rimorchio; quello che fa più impressione è che Giovanni Aricò, Angelo Casile, Annelise Borth, Luigi Lo Celso e Francesco Scordo la morte ce l'avevano alle calcagna da mesi. Lo sapevano loro e tutti quelli che li conoscevano bene. Ci scherzavano persino. Ma di questo forse è meglio parlare più tardi.

STRANEZZE, IN QUELLA NOTTE.
Per adesso è meglio restare all'incidente stradale, perché qualcosa di strano quella notte è successo di sicuro. Nell'ordine: 1) I rapporti dell'incidente della polizia stradale sono firmati da Crescenzio Mezzina che pochi mesi più tardi si precipiterà a Roma per partecipare al golpe di Junio Valerio Borghese. 2) I cinque ragazzi andavano a Roma a consegnare un rapporto che la federazione anarchica aveva loro chiesto di fare sui fascisti reggini. Avevano scattato foto per mesi durante la rivolta per testimoniare la presenza di fascisti greci. In tasca di Angelo Casile c'era ancora il biglietto con il numero di telefono dell'avvocato Eduardo Di Giovanni di Soccorso Rosso. Di quello che trasportavano non è mai stata trovata traccia. 3) Nei rapporti su ciò che la polizia avrebbe trovato sui resti della Mini Minor si parla invece di "due radio ricetrasmittenti marca "Craig", presumesi di fabbricazione estera tipo Solid State Saven" che nessuno è mai più riuscito a rintracciare. Così come non c'è più traccia, al ministero degli Interni, del rapporto che la polizia stradale promette di inviare proprio per trasmettere i documenti e il materiale trovato nell'auto.
Tutto sparito, non arriverà mai niente né al ministero degli Interni e neppure alle famiglie: nessuno perciò ha mai visto né la radio, né le copie dei giornali sovversivi, né le spranghe (probabilmente il bastone a cui si appoggiava Angelo Casile, che aveva avuto la poliomielite da bambino) e neppure ciò che indossavano o le cianfrusaglie che avevano in tasca. 4) Da un'indagine avviata dalla Direzione investigativa antimafia di Reggio Calabria risulta che Angelo Casile e Gianni Aricò erano "sottoposti dal 1969, proprio a causa della loro attività politica, ad assidua vigilanza di Ps". Si spiega così come mai mezz'ora dopo l'incidente stradale, la Digos di Roma è già sul luogo dell'incidente. 5) Dai verbali d'interrogatorio di alcuni pentiti. Dice l'avanguardista Carmine Dominici, in un interrogatorio del settembre 1974: "In merito al noto episodio del decesso in un incidente stradale di cinque anarchici posso dire che Zerbi (il marchese Fefè, morto l'anno scorso, è stato tra l'altro uno dei finanziatori della rivolta di Reggio ndr) mi ha fatto capire che non era altro che l'epilogo delle azioni che gli anarchici avevano compiuto nei nostri confronti. Fu l'unica volta in cui ne parlò. Personalmente ritengo che si sia trattato di un omicidio e non di un incidente e tale opinione è condivisa anche da altri militanti avanguardisti. Non sono assolutamente in grado di indicare chi avrebbe potuto prendere parte alla presunta azione omicidiaria e, peraltro, era illogico che ci si rivolgesse a militanti calabresi in quanto ciò avrebbe comportato un pericoloso spostamento geografico". Più recenti le dichiarazioni di Giuseppe Albanese: "L'avvocato Barbalace di Pizzo Calabro, durante la comune detenzione nel carcere di Lecce, ebbe a confidarmi che i giovani anarchici erano stati uccisi da una squadra che era alle dipendenze del principe Borghese. Aggiunse che quello stesso sistema era stato utilizzato per eliminare una parente scomoda dello stesso Borghese". 6) Nel novembre scorso Aldo Giannuli, consulente della commissione stragi consegna una relazione al tribunale di Brescia: ha identificato una nuova struttura clandestina parallela ai servizi segreti attiva dal dopoguerra fino ai primi anni Settanta, soprannominata "Noto servizio". Fondata da un gruppetto di ex repubblichini raccolti attorno alla figura di Junio Valerio Boghese, recluterà confidenti insospettabili ed esaltati di estrema destra. Tutti ben finanziati da un gruppo di imprenditori milanesi con lo scopo di tenere i comunisti lontani dal governo. Proprio in funzione anticomunista negli anni Sessanta fanno molta pressione sui socialisti e non si fanno scrupoli, quando è il caso, di fermare un avversario o un "affiliato" scomodo. Possono contare su un gruppetto di "specializzati" in grado di simulare incidenti stradali. La rivelazione è stata accolta da un certo scetticismo sia in Parlamento che fuori, per questo Aldo Giannuli è piuttosto prudente, anche se non nasconde che dal novembre scorso ha fatto molti passi avanti: ora può contare non solo su documenti ma su testimoni.

FANTASCIENTIFICO.
Le coincidenze sono tante, i nomi che si ripetono pure ma alla fine per capire qualcosa di più sull'incidente di Ferentino non resta che prendere tutte le carte e portarle a un perito, anzi, meglio a un amico, che di questa storia ovviamente non sa niente. Si chiama Massimo Evangelisti, adora i suoi figli e le Ferrari, almeno a giudicare dal numero di foto che si è appeso nello studio. Legge le relazioni della polizia stradale, le fotocopie dei rilievi e quelle delle foto dell'incidente. Alza la testa e dice: "Fantascientifico". "Cosa?". "Fantascientifico è il modo in cui i ragazzi sarebbero volati fuori dall'auto. L'incidente è verosimile, per la violenza dell'impatto, la mancanza di frenata, le conseguenze sulla Mini Minor e sull'autocarro, ma il modo in cui i corpi sono disposti sulla strada, quello è molto, e sottolineo molto strano, anzi non riesco a capire come possa essere successo. Vedi, se fossero stati i due ragazzi seduti davanti a volare via, sarebbe stato naturale, e invece sono gli unici due trovati all'interno". "Ma è possibile simulare un incidente come questo?" "Possibile, ma molto elaborato, e poco sicuro. Ci vogliono almeno due auto, una che li tamponi e li spinga sotto il camion, l'altra che impedisca di sterzare a sinistra. Vedo che la Mini Minor è targata Reggio Calabria, se i ragazzi venivano da lì, per simulare un incidente sarebbe stato molto più facile e sicuro spingerli giù da un viadotto. Sarebbero occorse settimane solo per ritrovarli".

LA BARACCA.
Il terremoto che nel 1908 colpì Reggio e Messina fece 100 mila morti, cancellò due città e dette vita alla più straordinaria opera di ricostruzione del secolo scorso. Non accorsero solo da tutt'Italia, si mise in moto la solidarietà internazionale per aiutare le popolazioni locali a riedificare le loro città nel punto esatto in cui si trovavano. Perciò da queste parti qualunque riferimento geografico ha come principale riferimento "prima" e "dopo" il terremoto. Negli anni Sessanta gli alternativi di Reggio si vedevano alla Baracca. Costruita come alloggio d'emergenza subito dopo il terremoto, era, in barba al nome, una deliziosa villetta liberty. Qui c'era lo studio d'arte di Angelo Casile, che era la vera anima di tutto il gruppo, mentre Francesco era il musicista e Gianni Aricò il politico, quello che scriveva per Umanità Nova. È dalla Baracca che la domenica mattina Angelo si muoveva, con terrore delle signore dirette alla messa, portando a spasso amabilmente una gallina. È alla Baracca che venivano ospitati gli amici e soprattutto le amiche conosciute all'estero, in Olanda, in Belgio, in Francia. È alla Baracca che ci si poteva rifugiare quando le incomprensioni in famiglia superavano la linea di sicurezza. È la Baracca che i fascisti presero d'assalto a sprangate quando capirono che quel gruppetto si era spinto troppo avanti. È alla Baracca che si scrivevano testi o venivano in mente le cose da fare, (una manifestazione per protestare al passaggio di navi militari americane la contestazione alla proiezione del film Berretti verdi), per dare uno schiaffo a una città dove proprio in quegli anni i neri e la 'ndrangheta stavano stringendo accordi di ferro. Un patto a cui per molti fu impossibile sottrarsi. Ecco come lo racconta Giacomo Lauro, il pentito che ha permesso di riaprire il processo sull'attento alla Freccia del Sud: "All'epoca io fui costretto … diciamo ad aderire a questo patto tra la destra eversiva e la mafia perché nella mia posizione di malandrino non mi potevo permettere di dire di no. A me risulta che la stipula del patto e quindi la richiesta che la mafia aiutasse la destra eversiva che intendeva fare un colpo di Stato, avvenne attorno al millenovecento… fine '68 o inizio '69".
Quando non erano all'estero o alla Baracca gli anarchici reggini erano a Roma perché lì c'era il movimento, l'Università, la politica. Erano a Roma anche il 12 dicembre 1969. E infatti furono arrestati insieme a tutti gli altri anarchici del circolo di Valpreda e accusati di aver messo le bombe all'altare della patria. Rimasero in prigione una settimana e quando tornarono a casa erano cambiati. Dopo il 12 dicembre avevano visto con i loro occhi che contro di loro non c'erano solo i fascisti reggini, ma anche la polizia e i giudici e adesso la posta in gioco era troppo alta. Testimoniano a favore di Pietro Valpreda. Il 17 dicembre 1969 Angelo Casile dichiara al magistrato Ernesto Cudillo: "In merito alle bombe, io rifiuto ogni responsabilità sia per quanto riguarda la mia persona, sia per quanto riguarda il movimento anarchico". Una settimana prima, il 9 dicembre, una bomba era scoppiata davanti alla questura di Reggio Calabria, la polizia accusa gli anarchici, saranno invece condannati Aldo Pardo e Angelo Schirinzi, due fascisti di Avanguardia nazionale che avevano partecipato l'anno precedente a un viaggio premio in Grecia organizzato da Pino Rauti. Un viaggio che secondo gli studiosi del periodo servì a istruire i fascisti italiani sulle tecniche di infiltrazione e destabilizzazione. I due fascisti al ritorno dalla Grecia avevano proposto a più riprese al gruppo della Baracca di fondare insieme un circolo XX marzo. Il 12 dicembre Gianni Aricò e Angelo Casile incontrano Schirinzi a Roma, lo ripetono inutilmente ai giudici che li interrogano. Tornano a casa spaventati. Scoppiano i moti di Reggio, scoppiano le bombe sui treni. Il 26 agosto, un mese esatto prima di morire, Angelo Casile si presenta dal giudice Cudillo e chiede sia messo a verbale: che fascisti di Ordine Nuovo nell'autunno 1968 tentarono di costituire a Reggio Calabria un circolo XX marzo. Uno di tali fascisti finì poi in galera per un certo tempo per attentati in Calabria: è Angelo Schirinzi lo stesso incontrato a Roma il 12 dicembre.

LA STORIA SOPRAVVIVE.
L'inverno scorso è uscito un piccolo libro si chiama Cinque anarchici del Sud e l'ha scritto un ragazzo di trent'anni, Fabio Cuzzola, che nel 1970 non era ancora nato. Ne aveva sentito parlare le prime volte nei campeggi organizzati dalla parrocchia sull'Aspromonte. E così, curiosamente, questa storia dimenticata da quasi tutti, continuava a sopravvivere nei ricordi dei preti che avevano conosciuto quei ragazzi ribelli. O in quelli dei parenti dei ragazzi come Tonino Perna, cugino di Gianni Aricò, professore universitario, impegnato con la cooperazione internazionale. Quindici anni fa si presentò alla direzione antimafia di Reggio Calabria e chiese una mano: da anni, per conto suo raccoglieva ricordi, impressioni, elementi che sperava avrebbero aiutato a riaprire le indagini. E poi ci sono quelli che non hanno potuto parlare, prendi il padre di Angelo Casile, Antonino. Questo è il ritratto che s'intuisce dalla testimonianza di un'altra figlia, Francesca, sorella maggiore di Angelo, agli investigatori dell'Antimafia: "Tra mio padre e mio fratello", dice, "c'era una continua lotta, perché mio padre era cattolico praticante e non condivideva le sue idee. Era per sottrarsi a tali contrasti che mio fratello cercava di rendersi completamente autonomo e si spostava spesso in altre città del Paese o all'estero". Poco prima Francesca ha confidato che degli amici del fratello non ha molto da dire perché "mio padre non mi consentiva, come donna, di frequentarli". E adesso che vi siete fatti un'idea di che razza di tradizionalista tutto d'un pezzo fosse il signor Antonino, leggete più avanti perché Francesca in poche righe dirà quale è stato il dramma della sua vita: "Ricordo che mio padre si recò a Frosinone per parlare col procuratore della Repubblica allo scopo di sollecitare l'inchiesta, essendo sua intenzione di costituirsi parte civile nel relativo procedimento penale. Rimase particolarmente sconvolto dal dialogo avuto col Procuratore, il quale disse nella circostanza a mio padre che secondo lui si trattava di quattro giovani che magari hanno avuto un colpo di sonno e magari prima avevano bevuto".
Il processo per la morte dei cinque ragazzi non è mai stato celebrato, il caso è stato archiviato velocemente, la Mini Minor è finita in fretta e furia da uno sfasciacarrozze, mentre l'autotreno di Aniello Ruggero è stato riconsegnato dopo una settimana al proprietario. Un mese più tardi l'autista Aniello Serafino è rimasto coinvolto in un clamoroso incidente stradale (8 morti e 13 feriti) causato da un autotreno fantasma che dopo aver fatto il massacro è sparito.
Un modo convincente per consigliare a uno dei pochissimi testimoni della fine dei cinque ragazzi che era meglio dimenticare quello che aveva visto?
Sarà difficile dimostrarlo, resta il fatto che dopo il secondo incidente Aniello Serafino e il fratello Pietro ottengono un posto pubblico all'azienda dei trasporti di Napoli, dove hanno lavorato fino a che non hanno aperto "'O spuntino". I genitori dei cinque ragazzi sono quasi tutti morti pochi anni dopo l'incidente, sembra che le malattie abbiano la strada spianata dal dolore. Alcuni dei fascisti calabresi invece sono morti ammazzati, altri hanno fatto carriera fino a candidarsi in parlamento. Altri ancora vanno in giro proprio come trent'anni fa, come se i padroni fossero ancora loro.