Dal Lussemburgo ai tropici, le offshore del "Cavaliere"
Mentre tuona contro la casa di Montecarlo, Berlusconi mette al sicuro i suoi risparmi
in una costellazione di finanziarie nei paradisi fiscali.

 paradisi fiscali? "Hanno i giorni contati", va dicendo da mesi, anzi, ormai da anni, Giulio Tremonti. "Portare o tenere i soldi nei paradisi fiscali non conviene più", sostiene il ministro dell'Economia, perché "il rischio è massimo, mentre il rendimento è minimo". Sarà. Ma intanto, mentre il governo di Roma annuncia la crociata contro gli Stati canaglia del Fisco, i grandi gruppi finanziari e industriali italiani proprio non riescono a fare meno delle loro filiali nei paesi no tax. Nulla cambia, o quasi, per Intesa e Unicredit, Eni o Generali assicurazioni. Tutti si tengono ben stretta il loro posto al sole dei Caraibi, in Lussemburgo, in Irlanda o negli efficientissimi centri finanziari di Dubai e Singapore. Per dirla con Tremonti, i paradisi fiscali saranno anche moderne "caverne di Alì Baba", peggio, una "nuova Tortuga dove l'unica regola è non avere regole", ma l'offensiva, per lo più verbale, del ministro non sembra fin qui aver scoraggiato le multinazionali made in Italy.

Le filiali offshore servono a intercettare i capitali in fuga dal fisco italiano. Oppure, meglio ancora, a gestire attività particolari ad aliquota zero o poco più, grazie ad esenzioni studiate ad hoc dai governi locali per attirare grandi investitori. Per esempio, il business delle riassicurazioni a Guernsey o a Bermuda, i fondi d'investimento alle Cayman o in Lussemburgo, i servizi finanziari e commerciali all'isola portoghese di Madeira (Portogallo) o a Dublino, in Irlanda.

Gli esperti in materia parlano, usando un soave eufemismo, di ottimizzazione fiscale. In sostanza, i grandi gruppi risparmiano alla grande sulle tasse scegliendo di volta in volta per le loro aziende la sede con le imposte più leggere. E nel supermarket globale del fisco le offerte vantaggiose davvero non mancano. Ecco perché, nonostante i roboanti proclami dei governanti di mezzo mondo, da Barack Obama ad Angela Merkel, l'offensiva contro gli Stati no tax per il momento sembra destinata a cogliere solo sucessi parziali. Perché se in Italia, Germania, Francia, Stati Uniti, spuntano liste con centinaia di presunti evasori recapitate dalla Svizzera o dal Liechtenstein in modo rocambolesco grazie a qualche banchiere infedele, restano per ora fuori portata i redditi milionari incassati o gestiti sulle piazze offshore dalle grandi società.

Così fan tutti, o quasi. Istituti di credito dal marchio blasonato. Compagnie di assicurazioni. Aziende industriali o di servizi dai fatturati miliardari. Senza contare hedge fund e fondi di private equity che vedrebbero ridotti di molto i loro profitti senza le sostanziose esenzioni fiscali garantite ai loro affari dai Paesi caraibici.

Nel suo piccolo (si fa per dire) anche Silvio Berlusconi con la sua Fininvest non scherza. E una volta di più, come è successo frequentemente nel passato, le sue prese di posizione come uomo politico finiscono per essere contraddette dai concretissimi interessi del Berlusconi imprenditore, che ha sempre cavalcato alla grande i vantaggi offerti dalle legislazioni esentasse. A fine maggio al vertice dell'Ocse il presidente del Consiglio si è autonominato portabandiera e capofila dell'offensiva occidentale contro gli Stati canaglia del fisco. Il Cavaliere ha tuonato contro i paradisi societari e bancari ("Da contrastare") e la speculazione finanziaria che minaccia la ripresa economica.
Peccato che, passando dalle parole ai fatti concreti, riesce difficile prendere per buone queste enunciazioni di principio. E non c'è neppure bisogno di scomodare le storie del passato. Come la costellazione di finanziarie offshore attribuite dai pm a Berlusconi e finite sotto processo negli anni Novanta. Un procedimento prescritto nel 2005 grazie alla provvidenziale approvazione, da parte del governo di centrodestra della nuova legge sul falso in bilancio. A ben guardare si scopre che anche adesso il capo del governo si fa amministrare la liquidità di famiglia dalla Trefinance, una società controllata da Fininvest con base in Lussemburgo, affollatissimo centro offshore nel cuore dell'Europa.

Tutto regolare, per carità. Tutto secondo la legge. Il tesoretto berlusconiano parcheggiato nel Granducato vale circa 270 milioni. E su quali titoli hanno puntato i solerti gestori dei soldi del Cavaliere? La risposta arriva dal bilancio 2009 di Trefinance. Ebbene, alcune decine di milioni sono stati investiti in prodotti aspeculativi, come gli hedge fund, i fondi di hedge fund e, indirettamente, anche in Abs, cioè asset backed securities. Insomma, un piccolo campionario degli strumenti finanziari ad alto rischio che a suo tempo hanno acceso la miccia del crack finanziario globale. Niente paura: dopo la débâcle del 2008 quando i mercati globali hanno toccato il fondo, nel corso del 2009, soprattutto nella seconda metà, gli investitori internazionali hanno ricominciato a guadagnare sfruttando il gran rimbalzo delle Borse. E anche Trefinance è tornata a macinare profitti. L'utile dell'anno scorso, segnalato nel bilancio appena depositato, sfiora i 14 milioni, mentre nel 2008 la società lussemburghese di Berlusconi era andata in rosso di 48,5 milioni. Sui profitti del 2009 Trefinance non ha pagato neppure un euro di tasse come previsto dalla favorevole legislazione del Lussemburgo.

Si capisce perché, allora, Berlusconi abbia scelto, già molti anni fa, di parcheggiare una parte del contante di famiglia proprio nel Granducato. I business offshore funzionano come un gigantesco moltiplicatore di profitti. Un business perfettamente legale a cui nessun grande marchio della finanza sembra disposto a rinunciare. Banca Intesa, per dire, mette a disposizioni dei propi clienti una filiale a George Town (Isole Cayman) gestita attraverso la sede di New York. E Unicredit ha ereditato gli sportelli offshore dell'istituto di credito tedesco Hvb, rilevato cinque anni fa. C'è anche chi non si lascia sfuggire l'occasione di moltiplicare l'impegno. Le Generali per esempio negli anni scorsi hanno comprato la Banca della Svizzera italiana (Bsi) a cui hanno aggiunto, fondendole insieme, la Banca del Gottardo. Ovvero due istituti, dotati di attivissime filiali caraibiche, nati e cresciuti con l'afflusso di capitali italiani in fuga dalle tasse. E adesso che parte di questo denaro è rientrato alla base grazie ai ponti d'oro generosamente offerti da Tremonti con il suo scudo fiscale il gruppo assicurativo di Trieste non si è fatto trovare impreparato. Parte dei capitali rientrati dalla svizzera sono affluiti nei forzieri di Banca Generali. Uno scudo tutto in famiglia. Con profitti assicurati.