
Ciò comporta che il processo organizzativo che non si identifica esclusivamente col partito, sia in grado di riassumere la funzione sociale, politica e militare necessaria a portare a compimento il processo rivoluzionario in forma non delegata: cioè che 1) l’organizzazione di massa del proletariato assuma funzione strategica mentre 2) si afferma una concezione del partito come strumento.
Questo tipo di organizzazione, i cui modelli molto approssimativi potrebbero ravvisarsi nella funzione che i Soviet russi hanno avuto fino al 1917 e in quella delle Comuni cinesi degli anni della rivoluzione, riassume in sé i contenuti strategici del processo rivoluzionario che noi prefiguriamo. Per essere chiari non è il sindacato, non è la diffusione dell’organismo di massa secondo la dizione m-l in cui confluisce anche il proletario senza “partito” e soprattutto non è il luogo di espressione della “medietà” di una coscienza di massa affogata in un gradualismo senza fine, ma è la rete costituita dai proletari coscienti della necessita dell’organizzazione e della costruzione degli strumenti dell’autodecisione proletaria e l’embrione dello “stato” proletario, ovvero della forma di organizzazione sociale che riassume al suo interno le sedi di dibattito e di rappresentatività dei proletari.
Il partito nasce ed agisce laddove questo processo si inceppa, dove lo sviluppo contraddittorio del capitale confonde lazione spontanea delle masse e ritarda la funzione emancipatrice e liberatrice dell’organizzazione autonoma e di massa del proletariato che abbiamo definito. Ciò presuppone una conoscenza delle leggi capitalistiche che non è immediatamente data nei comportamenti di classe del proletariato; essa è una scienza antagonista a quella del capitale perché basata sulla teoria della rivoluzione, ma se esaminata dal di fuori dei termini oggettivi dei conflitti sociali diviene teoria separata dalla coscienza di classe e quindi patrimonio inutilizzabile.
Il proletariato infatti nella lotta per la sua emancipazione, percorre un processo discontinuo proprio perché la spontaneità con cui affronta lo scontro col capitale non sempre riesce a trascendere i meccanismi economici.
E così che l’arte del “divide et impera” trasforma le crisi economiche del capitale in crisi politiche laddove il proletariato, non avendo espresso le sue avanguardie, subisce il terreno difensivo della lotta per la sopravvivenza.
Compito del partito quindi è quello di creare le condizioni per il massimo sviluppo dell’autonomia operaia e in quest’opera deve rimanere in ogni caso subordinato ai contenuti strategici del processo rivoluzionario, pur costituendo lo strumento risolutore del quadro critico del capitale.
Non il partito dell’Autonomia Operaia quindi, né il partito-fine visto come elemento riassuntivo della questione organizzazione, ma il partito-strumento, la cui maturità coincide con la maturità del processo rivoluzionario sociale, che deve contenere fin dallinizio le premesse di estinzione di questa struttura.
Il processo di liberazione, siamo convinti, procede con l’affermarsi dell’autonomia di classe diffusa e il progressivo affermarsi del contropotere comunista, e non solo con la «fabbricazione degli strumenti idonei alla sua realizzazione»; dentro questo quadro, l’autonomia deve avere un programma di militanza e la conquista di quella dimensione direttamente politica che è la strategia, deve condurci a determinare il volume di attacco necessario oppure la qualità delle mediazioni necessarie. Sia chiaro una volta per tutte che a noi non interessa un processo “guerrillero”, tanto meno lo riteniamo possibile in Europa, così come rifiutiamo qualsiasi ipotesi puchista della presa del potere: ciò che a noi interessa e una lotta di logoramento, prolungata e definitiva con il potere borghese.
Assolvere a questo compito significa allora misurarsi sul terreno del contropotere tenendo presente queste due necessità: 1) far vivere costantemente nel proletariato il terreno della forza; 2) esprimere oggi, dentro i livelli dati dello scontro, il punto di vista generale sui rapporti di forza tra proletari e stato. Tanto più che oggi lo stemperarsi delle forme di lotta – la discontinuità e la localizzazione dell’insubordinazione proletaria va messo in rapporto con l’evidente assenza di un soggetto sociale e politico all’interno della classe che sia trainante e di per se ricompositivo. Ma proprio questa multipolarità ormai affermata di soggetti sociali proletari che oggi esprimono comportamenti di rottura e di scontro, rimanda alla necessità di una rappresentatività generale del progetto comunista, perché questo dalle forme più articolate e disperse in cui vive sia rilanciato e ulteriormente perseguito.
Il contropotere quindi non si identifica semplicisticamente solo con la qualità e la quantità del proprio intervento in una fabbrica o in un quartiere, ma è la risultante di tutto l’arco di azioni in cui si disloca lintervento rivoluzionario: destrutturazione della militarizzazione cittadina, fondazione delle condizioni di organizzazione proletaria antirevisionista, agibilità politica del territorio, inchiesta e conoscenza delle strutture di potere, possesso di strumenti e mezzi necessari alla riproduzione dell’organizzazione nella lotta, per affermare soprattutto come il contropotere sia egemonia sociale della classe localmente determinata.
Se stabiliamo infatti che lesito rivoluzionario debba situarsi sul lungo periodo, e che questo esito debba attraversare la fase della guerra tra le classi, allora noi diciamo che per affrontarla abbiamo bisogno di più autorità sociale e politica di più contropotere diffuso.
E nella fase della dualistica dei poteri, una fase di estrema instabilità sociale, in cui è praticamente aperta una guerra tra le classi, che il soviet assume una connotazione propria e distinta dal partito. Organismo di gestione dell’economia di guerra, struttura logistica degli strumenti di combattimento. Sarà poi nella fase della dittatura del proletariato che la struttura del potere di autodecisione proletaria tenderà ad assumere una funzione preminente nella dialettica soviet-partito per giungere sino all’estinzione del partito, collaterale all’estinzione dello stato.
Ora, se la funzione di partito non rimanesse fortemente integrata nelle strutture organizzative dell’autonomia sociale, la possibilità di rovesciare la dialettica soviet-partito a favore del primo elemento, per liberare l’autodecisione proletaria, per garantire il superamento della dittatura del proletariato, per salvaguardare l’obiettivo strategico proletario, quest’ultimo verrebbe meno. Bisogna rendersi conto costantemente della necessità di rimuovere, schiantare, ricostruire dalle fondamenta l’inflessibile strumento partito, adattandolo ai compiti dello scontro.
Ciò che assumiamo come postulato di programma e la cui realizzazione ed articolazione e affidata alla dialettica della lotta di classe ed al rapporto tra comportamenti sociali e organizzazione rivoluzionaria, è che il passaggio dalla democrazia delegata alla democrazia diretta corrisponde all’affermarsi di una società basata sul principio fondamentale dell'”a ciascuno secondo i propri bisogni” contrapposto al principio comune al socialismo ed al capitalismo (almeno teoricamente) che afferma “a ciascuno secondo le proprie capacità e meriti”. Una teoria dei bisogni dunque a fondamento di questo principio e soprattutto una pratica dei bisogni di classe da approfondire in senso rivoluzionario e comunista.
La determinazione del tempo di lavoro socialmente necessario, la scarsità delle risorse, i rapporti tra unita produttive, gli stessi rapporti tra produttori, sono determinati certamente attraverso l’appropriazione sociale dei mezzi di produzione, ma non esclusivamente, se di pari passo infatti non si realizza quel processo di appropriazione ideologica del proletariato capace di trasformare le relazioni sociali fondate sul valore di scambio in rapporti sociali basati sul valore d’uso. Occorre quindi applicare criticamente l’esercizio della pratica dei bisogni sgombrando il campo da tutta una serie di bisogni tipici dell’ideologia consumistica borghese, che pure nella quotidianità nella vita si intrecciano con i bisogni di classe e che spesso soffocano, dietro l’aspetto quantitativo dei rapporti sociali determinati dalla produzione capitalistica più merci e più beni di consumo = più relazioni sociali), le aspirazioni sempre più pressanti verso un aspetto qualitativamente diverso della vita.
In questo senso va vista la funzione estensiva della teoria dei bisogni, quella cioè di non legarli semplicemente alla sfera economico-materiale, bensì a quel complesso di aspirazioni sociali che nella loro sintesi rappresentano oggi la contraddizione fondamentale tra crisi capitalistica e antagonismo di classe, tra vecchia società in declino e nuova società emergente.
Continuare dunque a scegliere la pratica degli obiettivi estesa, di massa o d’avanguardia, purché inserita nel progetto, in ogni caso autodifesa ai livelli necessari, perché questo è il terreno privilegiato dello sviluppo della coscienza proletaria. Anche se ciò non può esaurire quella che è la metodologia e lo stile di lavoro dell’Autonomia Operaia organizzata.
Quando i padroni puntano apertamente, fra l’altro, ad una operazione su vasta scala di disarticolazione e scorporo della produzione, chiaro è il pericolo costituito dal radicarsi in settori sociali naturalmente antagonisti di una accettazione della marginalizzazione come condizione produttiva di vita. D’altra parte l’allargamento della sfera dei bisogni è un’istanza classica delle società capitalisticamente mature, riconducibile all’interno di processi di ristrutturazione che non può essere contrabbandata invece come comportamento conflittuale.
Abbiamo detto che la riappropriazione e la pratica degli obiettivi costituisce il momento trainante e qualificante delle scelte metodologiche dell’autonomia, ma abbiamo detto anche che nella fase attuale il metodo di intervento non esclude altre forme per la realizzazione del programma che da una parte comprendono la contrattazione stessa e dall’altra il sabotaggio, mentre il metodo costante dell’autonomia operaia si qualifica come ratifica, riappropriazione dei bisogni, autodecisione.
La contrattazione in quanto metodo proprio delle organizzazioni storiche del Movimento Operaio (metodo di per se gradualistico e riduttivo della capacità di lotta del proletariato), può assumere una sua validità solo se usato compatibilmente con una presenza diffusa dell’autonomia operaia e quindi come rafforzamento della sua egemonia nei confronti del revisionismo.
Il nostro compito, il compito dei militanti dell’autonomia operaia, è quello di individuare un corretto rapporto tra la propria prassi politica storicamente e teoricamente determinata e la strategia rivoluzionaria (il programma comunista, l’organizzazione politica e sociale del comunismo). La rivoluzione, il comunismo non sono inevitabili. Questa consapevolezza fa parte della nostra coscienza di autonomi, assieme alla faticosa ricerca di parametri su cui verificare quel rapporto.
La “tendenza” comunista non è un’evoluzione determinata dall’improbabile realizzazione dei nostri bisogni; è una conquista, e un’impresa. In questa impresa non dominano però criteri manageriali o aziendali, perché l’impresa è collettiva, e di classe. Quindi la militanza non è (non può essere) una forma di sottomissione “funzionale”, ma al di fuori di ogni interpretazione mistica l’unica dimensione dove la creatività non è precaria, perché si misura con lo scontro di classe, perché tendenzialmente “fuori del capitale”. Solo una distorsione dei contenuti del movimento del ’77 ha voluto che la tematica dei bisogni si arrestasse incomprensibilmente sulla soglia dell’organizzazione, e che la stessa teoria «bisogni-comunismo» fornisse un alibi agevole ad ogni riemergente individualismo. Al contrario, l’organizzazione comunista è la prima forma di libertà nella terra del capitale, e la prima esperienza reale di cooperazione, di autogestione comunista.
Per questo l’autonomia operaia deve aumentare lo spessore della propria rappresentanza politica, deve avere vita propria in quanto moderna alternativa rivoluzionaria, in quanto proposta vincente di abolizione dello sfruttamento e dell’oppressione. Per farlo deve moltiplicare i propri canali di comunicazione, deve occupare tutti gli spazi, tutte le sacche di resistenza all’iniziativa capitalistica, deve costruire e fondare nel movimento l’egemonia della sua proposta politica. Per farlo deve innanzitutto sciogliere problemi di merito, e di metodo; riformulare quell’interpretazione della realtà di classe che ha sorretto fino ad oggi costantemente l’iniziativa autonoma, ma che spesso si è anche erosa o degradata fino a generare il suo contrario.
L’organizzazione dunque si caratterizza come un processo, uno sforzo, una lotta per continuare a fare emergere la necessità della rivoluzione comunista nella coscienza delle masse proletarie. Ciò a significare che la forma e la struttura dell’organizzazione è mutabile a seconda della fase politica che il proletariato si trova ad affrontare.
Noi pensiamo che la forma organizzativa che deve assumere l’autonomia operaia, in questa fase, sia quella di un Movimento. La scelta di un Movimento, ovvero di un’organizzazione che è insieme promozione e direzione dell’Autonomia Operaia, è imposta non solo dalle nostre cognizioni politico-ideologiche, non solo dal fatto che lautonomia operaia è in espansione in modo direttamente proporzionale alle lotte e che il suo “tetto” non sarà raggiunto se non dopo aver tolto l’egemonia al Pci, ma anche dalla domanda politica che oggi massicciamente i lavoratori indirizzano allautonomia operaia rompendo con l’attuale politica di sacrifici e austerità. I limiti attuali dello sviluppo del contropotere, le forme ancora non del tutto stabili dei collettivi, la scarsa presenza dell’autonomia operaia organizzata in alcuni territori importanti dello scontro di classe, costituiscono altri elementi che ci impongono come forma attuale dell’organizzazione, quella di un Movimento. Uno strumento cioè che sia insieme «soviet» «partito», ovvero anticipazione dell’uno e dell’altro nella misura in cui il processo che dovrà tendere alla costruzione di questi due poli strategici della rivoluzione comunista, e appena avviato e la solidificazione dell’uno rispetto all’altro rischierebbe di ritardare l’apertura del terreno rivoluzionario.
Il Movimento dell’Autonomia Operaia, Mao, è la struttura organizzativa che questa sezione dell’Autonomia Operaia propone ai collettivi, comitati, nuclei e coordinamenti territoriali, settori di lavoro, singoli compagni, quale superamento di queste forme iniziali di organizzazione affinché possano rapppresentarsi le singole volontà di lotta e di attacco sotto la forma del progetto politico capace di affrontare con le armi giuste l’attuale fase politica.
Il Movimento è la singola volontà che si fa progetto, che si fa forza per realizzare con rinnovata energia la costruzione dell’unita di classe e la lotta per l’alternativa comunista.
La costruzione e la partecipazione al Mao è aperta a tutti i compagni che si riconoscono nei concetti che abbiamo fin qui espresso e che li hanno già tradotti, praticamente, nella militanza in un collettivo, comitato, nucleo d’intervento, etc. Ciò per indicare che non c’è spazio in questa organizzazione per “rivoluzionari di professione” o per “fornitori di servizi o prestatori d’opera”, tanto meno per intellettuali schizzinosi che non intendono sporcarsi le mani con l’attività di tutti i giorni.
Il collettivo di intervento è il centro della formazione della volontà e dell’azione politica; teoria e prassi nascono dalla elaborazione del collettivo, fino a diventare, attraverso il confronto con la teoria e la prassi degli altri collettivi, la teoria e la prassi del Mao.
La formazione della volontà politica non è un processo per linee interne e poiché il Mao opera con altre forze politiche e sociali alla costruzione dei soviet, il terreno di conquista della linea politica è interno al dibattito anche con queste forze tramite assemblee locali, regionali, nazionali; conferenze, convegni, congressi, ai vari livelli, ma soprattutto aperte al contributo di tutte le componenti del movimento rivoluzionario.
Il collettivo, quale fondamento della proposta dell’Autonomia Operaia, deve tendere attraverso l’azione politica, alla omogeneità dei suoi militanti: identità di linea e comportamento, costruzione dell’uno e dell’altro, trasformano la militanza in una dimensione di vita quotidiana che supera l’imposizione e l’insofferenza e fa emergere la qualità dell’autodisciplina che vede in ciascuno la responsabilità di tutti e la responsabilità di tutti nei comportamenti di ciascuno: «ognuno di noi è il partito e tutti insieme formiamo la linea politica». Ma anche l’omogeneità tra militanti è una conquista: essa si realizza attraverso un processo di lotta capace di battere «anche» i limiti del lavoro nel proprio collettivo, quali il localismo, il settorialismo, l’esclusivismo, che costituiscono remore da eliminare se non vogliamo portare nel Mao falsi temi e contrapposizioni o, peggio ancora, favorire l’insediarsi di gruppi di potere. Ogni istanza collettiva, dunque, pur partendo dal lavoro nel proprio settore deve portare nella risoluzione dei problemi il punto di vista dell’intero movimento rivoluzionario, sia in termini economici e sociali che militari e internazionali; ciò vuol dire che alla base della proposta dell’Autonomia Operaia, sta la costruzione di una coscienza critica che si forma attraverso la militanza, intesa non come misura della quantità di lavoro politico svolto, ma come approfondimento e conquista della propria identità politica e sociale. Non il militante a tempo pieno, dunque, né il tappa-buchi della situazione che sa “sfruttare” la sua acquisita esperienza, bensì quel livello di coscienza che da classe si fa progetto, egemonia, potere, che sa usare le armi della critica e dell’autocritica, che fa comandare la politica sul fucile, ma che sa prendere il fucile quando occorre.
Lavoro collettivo e divisione dei compiti sono quindi i poli di una dialettica organizzativa che usa i suoi strumenti in funzione della crescita e della omogeneità politica dei militanti.
Assemblea aperta
Attivo dei militanti
Organismo di direzione collegiale
sono gli strumenti che il Mao si da per articolare ed esprimere la sua volontà politica ai diversi livelli; queste tre istanze rappresentano il punto di arrivo obbligato del processo di costruzione del Mao in relazione al rapporto dialettico che si può prefigurare tra autonomia della classe e funzione di partito.
I meccanismi interni di convocazione, di validità delle decisioni, di numero dei partecipanti, sono decisi non in funzione dei giochi politici o della liturgia delle votazioni, bensì con il criterio della rappresentatività effettiva al di la della consistenza quantitativa delle singole istanze collettive.
Costruire l’organizzazione come un continuo processo di conquista che si evolve nella forma, nelle strutture e negli strumenti a seconda delle fasi politiche dello scontro di classe, ci porta a considerare oggi che questo iniziale processo di centralizzazione, articolato a diversi livelli, lascia aperta costantemente la possibilità a nuove istanze di confrontarsi e centralizzarsi secondo l’evoluzione dinamica che intendiamo immettere nel Mao.
Per far questo il Mao provvederà alla costituzione di un Centro nazionale (provvisorio) con funzioni di promozione dell’Autonomia Operaia ed esecuzione dei compiti imposti dal processo di centralizzazione, processo che questa sezione dell’Autonomia Operaia intende mettere in discussione e verificare praticamente, per cui invita tutti i compagni rivoluzionari a confrontarsi sulla proposta di costruzione del Mao nella prima Assemblea nazionale dell’Autonomia Operaia, che si terrà nel mese di novembre.