Beppe Alfano, vittima di mafia che non si deve ricordare:
La sera dell’otto gennaio 1993 trovò la morte in un agguato a pochi metri da casa.
Insegnante di educazione tecnica con una passione potente, il giornalismo,
è una delle tante vittime dimenticate.

Nicola Biondo, 8 gennaio 2010, Palermo L'Unità
Fa paura anche da morto Beppe Alfano, il giornalista siciliano ucciso dalla mafia 17 anni fa a Barcellona Pozzo di Gotto
in provincia di Messina. Oggi una manifestazione lo ricorda nella sua città ma a qualcuno non va giù.
Un circolo culturale molto chiacchierato minaccia azioni legali. Ucciso due volte:
la prima dal piombo mafioso, la seconda dal silenzio.

Accade da sempre in Sicilia. Alfano, la sera dell’otto gennaio 1993 trovò la morte in un agguato a pochi metri da casa. Insegnante di educazione tecnica con una passione potente, il giornalismo, è una delle tante vittime dimenticate della guerra di dominio di Cosa nostra. Una vittima a cui nel pieno stile mafioso non è stata risparmiata l’onta di essere mascariata dalla
calunnia: ma quale mafia, è solo una storia di femmine si dice ancora. Una memoria che ancora divide.

Perché forti erano i temi di cui scriveva e che denunciava anche come militante politico di destra.
Affari sporchi e truffe, mafia militare e colletti bianchi, cronaca nera e appalti. Era di questo che scriveva.
E per anni lo ha fatto in quella che la vulgata voleva fosse solo la provincia «babba» - stupida - quella di Messina, quella che la mafia non sa nemmeno cosa sia. E che invece di lì a poco, dopo la sua morte, le cronache ci consegneranno come una delle
roccaforti di Cosa nostra, dove strettissima era ed è la commistione tra poteri criminali e poteri legali. Una vittoria postuma per Alfano. Che ancora oggi però non è patrimonio comune e coscienza collettiva della sua terra. Lo testimonia una lettera
che il sindaco di Barcellona, Candeloro Nania, ha ricevuto il 5 gennaio scorso da un circolo culturale della città - Corda Fratres - riferendosi proprio alla commemorazione del giornalista assassinato. «Tali cerimonie - dice la lettera - sono diventate occasione per lanciare ingiuste e gratuite invettive anche nei confronti della nostra associazione, Corda Fratres».
Per il sindaco Nania c’è anche un consiglio: «Ci permettiamo invitare la SV ad adoperarsi perché analoghi fatti criminosi non abbiano più a verificarsi, pena sue responsabilità personali sia di natura penale che civile».

IL RICORDO
Sonia Alfano, figlia di Beppe - oggi parlamentare europea - è amareggiata ma non sorpresa. «A ricordare mio padre ci saranno un senatore, Beppe Lumia, e un deputato, Antonio Di Pietro. E poi Salvatore Borsellino e Gioacchino Genchi. Di quali
fatti criminosi stiamo parlando? È un’iniziativa intimidatoria e censoria». Le carte giudiziarie riportano una verità, ancora parziale, che ha retto fino in Cassazione. Il mandante dell’omicidio Alfano è Giuseppe Gullotti, capomafia locale ben inserito
nel circuito legale messinese. Così al di sopra di ogni sospetto che dalla fine degli anni ’80 entra a far parte proprio del circolo Corda Fratres.

Un boss moderno Gullotti - chiamato l’avvocaticchio - che si divideva tra i salotti buoni e il rapporto con Giovanni Brusca, il killer di Capaci.

Oggi sconta una condanna a 30 anni ed è stato espulso dal circolo.
Ma per il salotto della Corda Fratres insieme a importanti politici e magistrati - da Domenico Nania al sindaco messinese Giuseppe Buzzanca al Procuratore Generale di Messina Antonio Franco Cassata - non è passato solo Gullotti ma anche
un chiaccheratissimo uomo d’affari, Saro Cattafi. Ex-estremista di destra, in stretti rapporti sia con Gullotti che - secondo il tribunale di Messina - con il boss catanese Nitto Santapaola e con l’artificiere della strage di Capaci Pietro Rampulla. Una richiesta davvero curiosa quindi quella di Corda Fratres. «In passato a questa manifestazione - ricorda Sonia Alfano - ci sono state turbative proprio di esponenti del circolo, ecco perché non mi sorprendo. Il coraggio di mio padre, semplice cittadino
e cronista di provincia, è un’eredità pesante, non può che dividere».

Intorno all’omicidio Alfano rimangono ancora molte ombre: indagini e perizie balistiche mai fatte, file cancellati - e poi riemersi - dal computer del giornalista che riguardano mafia e massoneria e gli affari di Santapaola nel nord Italia. Rimane ancora aperta un’inchiesta che però segna il passo. In apparenza, un piccolo delitto di provincia, quello di Beppe Alfano,
lontano dai riflettori e ancora pieno di misteri. In realtà un delitto grande che racconta la storia di un’intera provincia, un tempo «babba».
 

La magistratura immobile e complice e il senso dello Stato
Anche all’interno dell’ordine giudiziario, l’ex pm De Magistris ricorda pressioni
messe in atto per difendere amici e grumi di potere.

8 gennaio 2010 LUIGI DE MAGISTRIS 

Sono passati circa due anni da quando, quale magistrato in servizio alla Procura di Catanzaro, mi sono state sottratte illegalmente indagini che avevano ad oggetto
gravi reati commessi da politici, persone ricoprenti ruoli apicali all’interno delle Istituzioni, imprenditori, professionisti vari. Le attività investigative riguardavano – nell’ambito della gestione illegale del denaro pubblico in Calabria – i rapporti tra massonerie deviate e politica, tra crimine organizzato e istituzioni.
Il grumo di potere che soffoca nel crimine una Regione del Sud.

In quegli anni difficili le attività di ostacolo e di interferenza al lavoro svolto non provenivano solo dall’esterno (dalla politica, dal crimine organizzato, da pezzi deviati delle Istituzioni),ma anche e per certi versi soprattutto dall’interno dell’ordine giudiziario. Pressioni ed intimidazioni messe in atto da magistrati che hanno violato la legge e commesso crimini. In virtù di tali gravissimi fatti da parte di un collaudato sistema criminale operante soprattutto in Calabria si avviarono diverse indagini da parte della Procura di Salerno.

Le indagini di quell’Ufficio vennero dirette da alcuni magistrati onesti, capaci e coraggiosi.Hanno accertato che nei confronti del mio Ufficio venne messa in atto una pervicace attività criminale proveniente da settori della politica, da magistrati, professionisti e pezzi delle istituzioni. Un intreccio criminale senza precedenti.
È tutto negli atti, in quei documenti che dovevano essere poi sviluppati con celerità e condurre alla verità.
Il percorso della giustizia è stato interrotto da chi doveva essere dalla parte dello Stato.

Quei magistrati avevano nella loro disponibilità indagini devastanti per i poteri criminali che dominano in Calabria da anni. Documenti, testimonianze, atti, indizi, prove. Uno scenario impressionante per la politica, la magistratura, le istituzioni.
Credo il più grande scandalo politico-giudiziario che abbia mai coinvolto la Calabria.

Come non hanno capito quegli ingenui magistrati che li avrebbero fermati, ad ogni costo. Hanno utilizzato il tritolo della carta da bollo di cui sono molto abili i legulei del potere costituito. Hanno messo in atto il prodotto del laboratorio tanto caro a quella parte della magistratura che desidera stare con il potere, con i più forti, per poi trarne benefici nell’interesse particulare e non generale. I peggiori nemici dell’indipendenza dei magistrati.

La magistratura italiana è a conoscenza da anni che in Calabria vi sono incrostazioni giudiziarie, collusioni, una grave emergenza morale. Quante volte magistrati anche noti, paladini della falsa moralità, sostenevano questi argomenti, ma solo per comodità salottiera, fino a quando non sono stati coinvolti i poteri che loro non osavano contraddire.
Alcuni di questi hanno fatto anche la loro carriera al CSM, magari celebrando la questione morale, ma senza mai brillare in azioni concrete per affrontarla laddove ve ne era bisogno.

Hanno contribuito a produrre un mortale isolamento proprio di quelli che avrebbero dovuto aiutare.
Nonostante questa consapevolezza diffusa è accaduto che i magistrati che hanno indagato per ripristinare un po’ di legalità nella cosa pubblica in Calabria sono stati spazzati via da settori dell’ordine giudiziario che hanno agito in piena sintonia con i poteri forti, realizzandosi un intreccio tra magistratura e poteri intollerabile in un Paese in cui ci battiamo per difendere l’indipendenza e l’autonomia dell’ordine giudiziario.

La violenza morale esercitata nei confronti di servitori dello Stato ha prodotto la mia forzata uscita dall’ordine giudiziario e l’esilio di altri magistrati. Collaboratori, appartenenti alla polizia giudiziaria e testimoni distrutti solo per aver reso servizi di giustizia. Hanno ucciso aspettative e speranze di migliaia di persone. Possiamo più credere che venga resa giustizia?
Il potere illegale ha prodotto effetti devastanti che peseranno in Calabria per i prossimi decenni.

A fronte di ciò, l’altro lato della stessa medaglia ci mostra magistrati indagati per fatti gravissimi, perquisiti con contestazioni di collusioni senza precedenti, artefici di condotte che avrebbero dovuto produrre un immediato loro allontanamento quanto meno dalla Calabria, che sono ben saldi al loro posto. Esercitano funzioni giudiziarie, continuano indisturbati nella loro attività, magari garantiscono gli stessi equilibri criminali. Uno scandalo che si consuma nel silenzio complice di chi avrebbe il dovere istituzionale di intervenire. Una vergogna senza precedenti, resa ancor più nauseante da un oblio diffuso e tipico del vizio della memoria.

A due anni da quegli eventi che hanno segnato per sempre la vita di tante persone che cosa ci resta nella mani, nel ricordo, nelle sensazioni, nel cuore, nella mente? La polverizzazione di inchieste scomode ai poteri; l’insabbiamento di fatti giudiziari; la distruzione di servitori dello Stato; il mantenimento nei loro posti degli artefici
delle deviazioni di Stato.

Non si devono dimenticare tutti coloro che hanno creduto nella giustizia ed hanno operato in modo ostinato nella direzione della verità e nello stesso tempo è necessario mostrare lo sdegno più profondo per quei pezzi delle Istituzioni che hanno offeso la dignità dello Stato.


Uccidete quel cane sciolto
Carlo Lucarelli – L'UNITA' – 03/03/2003

Sono le 22 e 30 dell'8 gennaio 1993. In via Marconi, a Barcellona Pozzo di Gotto, in provincia di Messina, accostata al marciapiede c'è una Renault rossa. E' ferma da un po', come se fosse parcheggiata, ma ha il motore acceso, che romba, su di giri. Dallo scappamento, nel freddo di quella notte d'inverno esce una nuvola di gas di scarico che l'ha quasi avvolta, come se avesse preso fuoco. Arriva il 113 e gli agenti vedono che dentro l'auto c'è un uomo, che sembra essersi addormentato contro il sedile, e col piede sta premendo l'acceleratore. Ma quell'uomo non dorme. Quell'uomo è morto, gli hanno sparato in testa tre colpi di pistola.

L'uomo è un giornalista che si chiama Beppe Alfano. Pochi minuti prima era arrivato a casa con la moglie, aveva parcheggiato e l'aveva accompagnata fino al portone, per salire con lei, ma all'improvviso si era fermato, come se avesse visto qualcosa. Senza dire niente, corre fino all'angolo della strada, per guardare verso una piazzetta che si trovava là dietro. Poi torna indietro, dice alla moglie “vai a casa e chiuditi dentro!”, corre in macchina e parte, svoltando l'angolo. Fa pochi metri, arriva in Via Marconi, e lì gli sparano in testa tre colpi di pistola calibro 22, uccidendolo sul colpo. Perché?

A dire la verità, Beppe Alfano non è un vero giornalista. O meglio, non lo è ufficialmente, non ha il tesserino dell'ordine, ha 47 anni, è un professore di educazione tecnica in una scuola media di un paese vicino. Ha cominciato con le radio private alla fine degli anni '70, a Messina, poi, negli anni '80, le televisioni locali. E i giornali, anche, da tre anni è il corrispondente locale per un quotidiano di Catania, la Sicilia. Politicamente, Beppe Alfano è un militante che viene dall'estrema destra e poi è approdato all' Msi di Giorgio Almirante, anche se ha spesso dei problemi con i vertici perché è troppo indipendente, troppo allergico ai compromessi, tanto che per un periodo viene anche sospeso dal partito. Un giornalista e un politico tutto d'un pezzo, un uomo di destra, quella di Paolo Borsellino, per esempio, che ha idee precise sull'ordine, sulla legge e sullo stato, e su quelle non scende a compromessi.

Un giorno, però, alla fine del '92, parlando con i familiari di quello che sta succedendo in città, Beppe Alfano dice che succederà qualcosa anche a lui. “Mi uccideranno entro la fine di dicembre”, dice. Dicembre passa, passa Natale, passa Capodanno ma l'incubo non svanisce. “Ormai è questione di giorni, dice agli amici. “Non mi hanno ucciso a dicembre, lo faranno prima della festa di San Sebastiano”.

Beppe Alfano non poteva saperlo, ma aveva detto la stessa cosa anche Pippo Iannello, un personaggio importante della criminalità organizzata di Barcellona, ad un altro pregiudicato, Maurizio Bonaceto. Beppe Alfano, aveva detto Iannello, era da considerarsi un uomo morto. Ma perché? Solo perché era bravo? Cosa succede a Barcellona in quegli anni?

In quel periodo è interessata da una lotta fratricida di mafia. E' la fine degli anni '80, quando inizia Mani Pulite. A Barcellona e nell'hinterland il vecchio sistema di potere comincia a scricchiolare. Intanto viene realizzato il raddoppio ferroviario che porta finanziamenti nuovi e finisce di rompere gli equilibri. E' un posto particolare, Barcellona, come lo è tutta la provincia di Messina. Dal punto di vista criminale Messina è sempre stata considerata una provincia “babba”, un po' tonta, perché lì la mafia non c'è, non ha saputo organizzarsi per sfruttare illegalmente le risorse del territorio. Ma non è vero. La mafia a Messina c'è, eccome, solo che non si vede molto. E come emergerà dalle indagini successive, dal processo “Mare Nostrum”, da quello che verrà chiamato il processo al “verminaio di Messina”, da quello che segue all'omicidio di una ragazzina di paese che forse aveva visto troppo e che si chiama Graziella Campagna, la mafia si è anche messa d'accordo con esponenti politici, ha fatto amicizia con magistrati e uomini delle forze dell'ordine per gestire indagini e processi e per garantire una latitanza dorata a boss ricercati. Si è messa in società con imprenditori per inserirsi nell'economia, anche quella illegale. Si è anche fusa con un'altra cosca, quella del boss Nitto Santapaola, che sta a Catania.

Una mafia così ci tiene a far credere di non esistere, a tenere tutto tranquillo e sottotono, a sembrare “babba”. Ma non è vero. Barcellona, per esempio, è un piccolo centro, ha quarantacinquemila abitanti, ma è sempre stato un posto importante per la mafia e fino dagli anni '70. Da lì passavano le rotte del contrabbando di sigarette che poi si sono trasformate in quelle della droga verso il continente, direttamente gestite dalla mafia di Palermo. Lì c'è una raffineria di eroina gestita dal boss Francesco Marino Mannoia, e sempre lì, a Barcellona, c'è un importante manicomio giudiziario, controllato da Cosa Nostra, in cui, grazie a perizie psichiatriche compiacenti, finiscono boss come Tano Badalamenti, boss della 'Ndrangheta e anche capi della mafia americana. Naturalmente, lì la vita è molto diversa da quella che normalmente ci sarebbe in un manicomio giudiziario, ed è facile anche evadere, quando si vuole. E poi, a Barcellona ci sono i soldi, c'è il raddoppio della linea-ferroviaria da fare, c'è l'autostrada Messina-Palermo, ci sono gli appalti e i subappalti. Tutto questo, tutta questa tranquillità che sembra avere il suo boss in Francesco Rugolo e il suo simbolo e il suo garante in un ricco imprenditore, Francesco Gitto, presidente della squadra di calcio cittadina, amico di politici come l'allora sottosegretario al Ministero degli Interni, parente di gente importante come Mario Cuomo, il governatore di New York, tutta questa tranquillità apparente viene sconvolta a metà degli anni '80.

Nel 1986, a Terme Vigliatore, vicino a Barcellona, torna Pino Chiofalo, detto “u' seccu”. “U' seccu” si è fatto tanti anni di galera, ma adesso è uscito e vuole la sua parte. Pino Chiofalo fa parte della piccola mafia che vuole emergere, fuori dalle regole e dal controllo di Cosa Nostra e quello che compie con i suoi 200 mila uomini, a Barcellona, è un vero e proprio bagno di sangue. Girolamo Petretta, storico referente delle famiglie palermitane, ammazzato nel novembre dell'87, Franco Emilio Iannello in marzo, Carmelo Pagano in luglio, Francesco Ghitto in dicembre. Quindici giorni dopo la morte di Francesco Ghitto c'è un blitz della polizia. Pino Chiofalo è a Pellaro, in provincia di Reggio Calabria , impegnato in un summit con i suoi luogotenenti, praticamente tutto lo stato maggiore della sua “famiglia”. La polizia arriva, a colpo sicuro, e li arresta tutti. “U' seccu” finisce dentro di nuovo, si prende l'ergastolo e resta in carcere fino al '95, quando comincia a collaborare con la giustizia. Ammette la responsabilità di tutti gli omicidi di quella sanguinosa guerra di mafia, ma accusa alcuni magistrati e alcuni esponenti delle forze dell'ordine di essere d'accordo con la cosca avversaria, sostenuta direttamente dal boss catanese Nitto Santapaola, che li avrebbe usati per toglierlo di mezzo in maniera pulita. Tolto di mezzo Chiofalo, la situazione si normalizza. Molti dei suoi passano con lo schieramento vincente e arrivano gli appoggi della cosca di Santapaola. Il capo dell'ala militare, l'uomo forte di Barcellona, il referente di Nitto Santapaola, diventa un giovane di buona famiglia, Giuseppe Gullotti.

Ancora. Dal 25 maggio 1992 anche a Barcellona c'è il Tribunale e c'è un pm che sembra considerarlo una trincea per la lotta alla Mafia. Viene dal nord e ha bisogno di informazioni, così tra il sostituto procuratore Olindo Canali e Beppe Alfano, il giornalista bene informato, il segugio che sa fare il suo mestiere, il cane sciolto che non guarda in faccia a nessuno e si lancia contro tutti per rispettare il suo ideale di verità e di giustizia, tra il giornalista e il magistrato d'assalto si stabilisce da subito un rapporto molto stretto. Poi, succede qualcosa. Beppe Alfano vuole parlare con il magistrato. Ma non c'è tempo.

Prima della festa di San Sebastiano aveva detto. La festa di San Sebastiano si tiene il 20 gennaio. L'8, la sua macchina accosta in via Marconi. Alfano abbassa il finestrino. Un colpo alla mano che si copre il volto, uno in bocca, uno alla tempia destra e uno al torace. Calibro 22, un calibro piccolo, da professionisti, silenzioso e micidiale se saputo usare. Perché? Cosa ha scoperto quel giornalista? Quel “cane sciolto” che sa fare bene il suo mestiere?

In quel periodo Beppe Alfano aveva alcune fissazioni. Una è l'influenza economica di Nitto Santapaola a Barcellona, per esempio. E' anche convinto che il boss di Catania sia nascosto li e ha ragione. Lui non lo sa, perché morirà prima, ma il boss per un po' di tempo è stato nascosto proprio a Barcellona. In via Trento, a pochi metri da casa sua. Un'altra è l'AIAS, un'associazione che si occupa di assistenza agli spastici, ha sedi in tutta la Sicilia e la sede di Milazzo è la più ricca e meglio finanziata, con centinaia e centinaia di dipendenti, un ingentissimo patrimonio immobiliare e un giro di miliardi. Nei suoi articoli, Beppe Alfano scrive di acquisti gonfiati, di assunzioni facili, di interessi privati, provocando un'inchiesta che coinvolge Nino Mostaccio, presidente dell'AIAS. Altra fissazione, Beppe Alfano sembra convinto di aver scoperto una loggia massonica deviata a Barcellona. A Barcellona, però, non c'è una loggia massonica. C'è un circolo, un circolo culturale molto antico che si chiama Corda Fratres, di cui fanno parte molti nomi noti di Barcellona, esponenti di tutti i settori della società e di tutte le parti politiche. Della Corda Fratres fanno parte molte persone note e rispettate, ma c'è anche un personaggio molto particolare, che al momento della sua iscrizione non è ancora salito alla ribalta della cronaca e almeno ufficialmente è ancora un bravo ragazzo di Barcellona, figlio di una famiglia bene. Il boss Giuseppe Gullotti.

Le indagini sull'omicidio di Beppe Alfano si concludono in fretta. Il 18 novembre 1993 il giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Messina emette tre ordinanze di custodia cautelare in carcere. Una è per Nino Mostaccio, il presidente dell'AIAS, accusato di essere il mandante dell'omicidio Alfano. L'altra è per Giuseppe Gullotti, accusato di essere l'organizzatore dell'omicidio. La terza è per Nino Merlino, considerato uno dei Killer del clan di Gullotti. Ad accusarlo è un collaboratore di giustizia, Maurizio Bonaceto, che dice di essere passato per via Marconi la sera dell'omicidio e di aver visto che parlava con Alfano.

Il 15 maggio 1996, la Corte d'Assise di Messina condanna Nino Merlino a 21 anni e 6 mesi e assolve Nino Mostaccio e Giuseppe Gullotti. Bonaceto a ritrattato tutto e così anche un altro testimone chiamato in causa, Lelio Coppolino. Ricorso in appello da parte di pm e difesa di Merlino e nuovo processo.

Il 6 febbraio 1998 la Corte d'Appello conferma la condanna a Merlino e capovolge la sentenza per Gullotti, condannandolo a trent'anni. Mostaccio esce dal processo, completamente scagionato.

La Corte di Cassazione annulla la condanna di Merlino, per cui deve essere rifatto il processo e il 17 aprile 2002, la Corte d'Assise di Regio Calabria cambia ancora e assolve Nino Merlino. In carcere resta soltanto Giuseppe Gullotti, condannato a trent'anni per aver organizzato l'omicidio di Beppe Alfano.

Ma non finisce qui. C'è un collaboratore di giustizia, che si chiama Maurizio Avola. E' di Catania e fa parte della cosca di Nitto Santapaola. E' un uomo importante, che faceva parte del gruppo di fuoco che uccise un altro giornalista, Giuseppe Fava, a Catania, e quando collabora confessa almeno cinquanta omicidi. Parla anche di Alfano. Maurizio Avola dice che Alfano sarebbe stato ucciso su ordine di Cosa Nostra perché aveva scoperto che dietro il commercio degli agrumi si nascondevano gli interessi di Nitto Santapaola e di insospettabili imprenditori legati alla massoneria. Riciclaggio di denaro sporco attraverso i fondi della Comunità Europea, grosse quantità di denaro spariscono nel nulla. Un'attività che farebbe capo a Barcellona. Su questo argomento esiste un'indagine della Procura Distrettuale Antimafia di Messina, ancora in corso e di cui non si conoscono gli sviluppi. Il mistero, per adesso, resta ancora. Chi ha ucciso Beppe Alfano? E perché?
 

Fonte: http://www.ilportoritrovato.net/html/bibliolucarelliart18.html



L' "inciucio antimafia" di Barcellona Pozzo di Gotto
Una lettera dell'avvocato Fabio Repici in merito al mancato scioglimento del consiglio comunale
della cittadina in provincia di Messina. Crocevia di personaggi in odore di mafia e di affari poco leciti.  

"Nessuna vicenda, però,
più di quella dell’omesso scioglimento dell’amministrazione comunale di Barcellona P.G.
è destinata a destare sgomento nella cittadinanza."

Al Presidente del Consiglio dei Ministri
On. Romano Prodi
Al Ministro dell’Interno
On. Giuliano Amato
Ai componenti della Commissione parlamentare antimafia

Monza, 25 gennaio 2007

Oggetto:
centralità di Barcellona Pozzo di Gotto nelle dinamiche mafiose;
capacità della mafia barcellonese di penetrazione nei circuiti  del potere ufficiale;
connessioni in ordine alla procedura di scioglimento dell’amministrazione comunale di Barcellona Pozzo di Gotto.

Chi scrive svolge da quasi un decennio la professione di avvocato nella provincia di Messina, quasi esclusivamente nel settore penalistico. Per scelta umana, ideologica e professionale, in materia di reati di mafia è stato ed è frequentemente difensore di familiari delle vittime, parti civili nei casi in cui siano stati avviati processi o nella minorata veste di persone offese dal reato laddove le indagini preliminari non siano ancora (o non siano state) definite dal P.m. con l’esercizio dell’azione penale.

Fra le altre vicende giudiziarie, l’omicidio di Graziella Campagna (Villafranca Tirrena, 12 dicembre 1985), quello di Roberto Amato (Barcellona P.G., 13 febbraio 
1992), quello di Beppe Alfano (Barcellona P.G., 8 gennaio 1993) ed il probabile (essendo questo un caso ancora aperto) omicidio di Attilio Manca (Viterbo, 12 febbraio 2004) hanno consentito al sottoscritto di affinare le proprie conoscenze sul sistema mafioso dominante nell’area barcellonese, fatto di una ferocissima ala militare (solo negli ultimi vent’anni sono centinaia gli omicidi rimasti privi di responsabili giudiziariamente accertati) e di un potentissimo gruppo di comando 
saldato con gran parte dei poteri ufficiali cittadini: dalla politica agli apparati giudiziari, dalle forze dell’ordine alle pubbliche amministrazioni. Entrambe le caratteristiche hanno fatto del sistema  mafioso barcellonese fino ad oggi un fortilizio inespugnabile, tanto più alla luce del fatto che, proprio a cagione delle liaisons con apparati istituzionali infedeli, le articolazioni dello Stato solo occasionalmente hanno manifestato la reale e sincera intenzione di espugnarlo.

L’ultimo quindicennio della storia di Cosa Nostra è lì a indicare il ruolo centrale assunto da Barcellona P.G. nelle grandi dinamiche criminali (quelle che qualcuno, non a torto, riassume nella locuzione “il gioco grande”).
È stato proprio Giovanni Brusca a rivelare che il telecomando con il quale egli fece esplodere l’autostrada a Capaci il 23 maggio 1992 gli era stato recapitato da Barcellona P.G. e personalmente dal boss Giuseppe Gullotti. Né possono essere sottovalutate le relazioni coltivate per i vent’anni precedenti dall’uomo che di quella strage fu l’artificiere. Pietro Rampulla era stato nella prima metà degli anni Settanta studente universitario di veterinaria a Messina e lì si era legato (a dirlo sono sentenze penali passate in giudicato), nella comune militanza neofascista e nelle violente pratiche criminali, a personaggi barcellonesi, fra i quali basti qui segnalare Rosario Cattafi. Il quale Rosario Cattafi, oltre ad aver operato nei traffici internazionali di armamenti (e per questo essere stato più volte indagato dall’A.G.), è anche stato il testimone di nozze ed uno dei principali sponsor della carriera criminale del boss Gullotti.

Per tutto il periodo comprensivo delle stragi del 1992 e dell’omicidio del giornalista Beppe Alfano, a Barcellona P.G. fece base per la sua latitanza il capomafia catanese Benedetto Santapaola. La sua omessa cattura in quella zona nell’aprile del 1993 (nonostante fosse monitorato in diretta dalle intercettazioni ambientali nei luoghi ove dimorava), dallo stesso R.O.S. dei carabinieri che qualche mese prima aveva omesso di perquisire (come certificato da sentenza) il covo di Riina e che due anni dopo omise la cattura di Bernardo Provenzano, rimarrà senz’altro una delle pagine più imbarazzanti (e per questo tenacemente tenuta nascosta ai più) nella storia delle negligenze e delle compiacenze dello Stato nei confronti della criminalità mafiosa.

Sempre in tema di latitanze dorate e di un nome prima accennato, è ben plausibile che lo stesso Bernardo Provenzano abbia frequentato l’area barcellonese durante gli ultimi anni agiati della sua quarantennale latitanza, naturalmente prima della sua ritirata nella ridotta di Montagna dei Cavalli, accudito da qualche familiare e da qualche pecoraio. È noto, infatti, come Barcellona P.G. e Bagheria (territorio d’adozione del boss corleonese) siano stati e siano tutt’oggi centri importanti di quella “mafia del ferro e delle arance” (ovvero Cosa Nostra provenzaniana) evocata nella relazione di minoranza della Commissione parlamentare antimafia della passata legislatura. Basti segnalare, al riguardo, i nomi dell’uomo forte di Cosa Nostra nella provincia di Messina, Michelangelo Alfano (bagherese di nascita), di 
Luigi Ilardo (che fra Barcellona e Milazzo, anche da latitante, trascorse la maggior parte della sua militanza mafiosa), di Giovanni Sindoni (barcellonese che nel 1987 venne arrestato per le truffe all’Aima compiute dalla I.D.A. del noto bagherese Michelangelo Aiello) o dell’imprenditore mafioso Drago Ferrante (che a Barcellona P.G. nacque per poi, in un percorso inverso a quello di Michelangelo Alfano, impiantarsi a Bagheria). Ed altrettanto note sono le dichiarazioni del 
pentito messinese Antonino Giuliano (non un criminale di strada, bensì un piccolo imprenditore), che riconobbe in Provenzano il soggetto da lui più volte incontrato a Messina nella casa di Michelangelo Alfano fra il 2000 ed il 2001.

La presa dei poteri criminali sulla politica e sulla società barcellonese fu evidenziata fin dal 1993, allorché la Commissione parlamentare antimafia del tempo approvò apposita relazione all’esito della missione barcellonese decisa nell’immediatezza dell’assassinio di Beppe Alfano (sul quale episodio esiste condanna definitiva per il già citato boss Gullotti e per il killer mafioso Antonino Merlino). E destò sconcerto, a quel tempo, scoprire che Gullotti, mentre concorreva alla 
strategia stragista di Cosa Nostra e inondava di sangue le strade cittadine, era riverito socio, al pari di Rosario Cattafi, di un circolo culturale, Corda Fratres, che accoglieva al proprio interno magistrati, come il dr. Antonio Franco Cassata, politici di peso, come l’allora senatore Santalco e l’attuale senatore Nania, e rappresentanti della più elevata borghesia barcellonese. Sarà capitato a Gullotti, interloquendo con i suoi compagni di circolo, di commentare nella sede di Corda Fratres la catena omicidiaria che, fra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta, fece precipitare la città nel terrore?

Le condizioni sopra sintetizzate quanto meno rimasero immutate (se non, addirittura, peggiorarono) negli anni seguenti, sia quanto alla cifra della violenza dispiegata alla bisogna dalla mafia barcellonese sia quanto alla perpetuazione delle sue alleanze con i poteri ufficiali. Ai primi di maggio del 1999 venne ritrovato il cadavere di un ragazzo in uno scenario da incubo: al giovane, Antonino Sboto, era stato sparato alla nuca un colpo di pistola a bruciapelo ed entrambe le mani gli erano state orridamente mozzate. Si disse che la mafia aveva emblematicamente condannato un povero ladruncolo che aveva tentato di svaligiare le case sbagliate: sarebbe servito da lezione a tutti. Un’informativa dei carabinieri denunciò che quel ragazzo, insieme ad altri, si era reso responsabile, qualche giorno prima, di un furto ai danni di tale Pietro Arnò, noto compare del boss Gullotti e noto pregiudicato, oltre che in passato presidente della locale squadra di calcio. Vennero anche arrestati i due presunti killer ma poi il processo finì nel nulla, fra assoluzioni e archiviazioni. Ancora oggi quel tremendo delitto è senza colpevoli. La plateale promiscuità fra delinquenza e istituzioni fu suggellata da una fotografia, comparsa sul quotidiano locale pochi giorni dopo l’elezione plebiscitaria (l’81 per cento dei suffragi) del sindaco Candeloro Nania, avvenuta il 25 novembre 2001: quella foto ritraeva il sindaco in festa innanzi al palazzo municipale, incatenato in un abbraccio vigoroso da quel Pietro Arnò.

L’evidenza del condizionamento mafioso nell’agire dell’amministrazione comunale divenne incontestabile ed incontestata nel 2003: non solo perché erano ancora attuali alcune importanti concessioni pubbliche denunciate nella relazione della Commissione antimafia del 1993 (quella per la raccolta dei rifiuti, ad es., che nel 2004 avrebbe portato all’arresto del consigliere comunale più votato, Andrea Aragona) e non solo per le oscene pubbliche frequentazioni del sindaco, di alcuni assessori e di alcuni consiglieri comunali (con Giovanni Sindoni, con Rosario Cattafi, con i boss Salvatore Di Salvo e Salvatore Ofria, oltre che con tanti altri criminali dal pedigree ufficiale) e non solo per il fatto che Rosario Cattafi stazionava stabilmente all’interno del municipio e che, addirittura, un lavoratore socialmente utile del comune gli fungeva di fatto da autista (lavoro socialmente utile davvero, se si pensa che dal 2000, a causa dell’irrogazione a suo carico della misura di prevenzione della sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno, a Rosario Cattafi era stata ritirata la patente). Accadde, infatti, che venne eseguita l’operazione c.d. “Omega”, che portò all’arresto di decine fra mafiosi e imprenditori e che definitivamente rivelò a Barcellona P.G. la nuova figura del mafioso imprenditore: era il boss Salvatore Di Salvo, controllore di un’estesissima rete imprenditoriale dedita a turbare gli appalti pubblici con il sistema preventivo dell’accordo sulle buste da presentare agli enti appaltanti. Si ufficializzarono nero su bianco così (ai più, però, erano già note) le vergognose relazioni di Di Salvo con molti storici imprenditori barcellonesi e con l’amministrazione comunale. L’impresa da lui gestita (Sud Edil Scavi) aveva avuto commesse dal comune di Barcellona; il vicepresidente del consiglio comunale (che tuttora ricopre quella carica), Maurizio Marchetta, imprenditore edile a sua volta, gli faceva da servile garzone (il boss lo chiamava “ragazzo” e lui scodinzolava ossequioso). In indagini collegate, questa volta condotte dalla D.d.a. palermitana, venne raggiunto da misura restrittiva altro imprenditore, Andrea Caliri, anch’egli aggiudicatario di commesse dal comune.

Peraltro, tale era la fiducia nutrita verso Caliri negli ambienti dell’amministrazione comunale che egli era stato incaricato di alcuni lavori nella villa del senatore Nania, cugino del sindaco: quella villa che venne dichiarata parzialmente abusiva con sentenza penale nel processo nel quale Caliri fu convocato come testimone a discolpa dalla difesa del senatore abusivista.

A quel punto, peraltro dopo aver visto la nomina degli assessori  Giuseppe Cannata (già arrestato e tutt’oggi imputato per tentata estorsione, truffa e altro: nel corso del processo a suo carico il Giudice dell’udienza preliminare denunciò al C.S.M. le pressioni ricevute, in favore di Cannata, dal dr. Antonio Franco Cassata, sostituto procuratore generale a Messina, affinché il G.u.p. non penalizzasse preventivamente, con il suo rinvio a giudizio, le possibilità che Cannata venisse nominato vicepresidente del consiglio comunale, nella passata consiliatura), Luigi La Rosa (indagato per mafia nell’indagine “Omega” e condannato, insieme a Pietro Arnò, per voto di scambio; nello stesso processo Arnò è stato condannato anche per turbata libertà degli incanti in relazione alla gara per l’acquisto di un autocarro da parte del comune di Barcellona P.G., vinta dalla ditta “New world”, formalmente intestata a Carmela Perdichizzi, nipote e prestanome di Pietro Arnò), Sebastiano Messina (ultimo componente, insieme ad Arnò e La Rosa, della triade che gestisce l’Aias di Barcellona P.G., ente che viene remunerato dal comune di Barcellona P.G. per le prestazioni in favore dei disabili), Luciano Genovese (assessore all’urbanistica e al contempo imputato di abuso edilizio, oltre che già progettista di fiducia della villa abusiva del sen. Nania), dopo aver visto gli incarichi affidati alla ditta gestita dal boss Salvatore Ofria, dopo aver visto i lauti canoni mensili pagati alla famiglia di Rosario Cattafi per l’affitto di alcuni immobili (pure per tutti i cinque anni nei quali a Cattafi fu imposta la misura di 
prevenzione antimafia), i cittadini onesti iniziarono a chiedersi quali fossero le ragioni per le quali il Prefetto di Messina non disponesse un’ispezione al comune di Barcellona P.G. per accertarne il condizionamento mafioso. A quei cittadini le risposte vennero dalla lettura della relazione di maggioranza della Commissione antimafia dell’ultima legislatura, laddove comparvero le imbarazzanti giustificazioni addotte dal dr. Scammacca nel giugno del 2005. Probabilmente quel documento, insieme ai dati analiticamente riportati nella relazione di minoranza, costrinse il Prefetto a disporre, obtorto collo, l’ispezione.

Da molti, troppi, mesi si conoscono le conclusioni stilate dalla commissione ispettiva guidata dal dr. Antonio Nunziante (il quale nelle more è stato promosso a Prefetto di Forlì, evidentemente in conseguenza della positiva valutazione del lavoro svolto): secondo quella relazione il livello di condizionamento mafioso nell’operato dell’amministrazione comunale barcellonese è “inquietante”.

Da agosto scorso intorno alla procedura di scioglimento dell’amministrazione comunale si sono rincorse fughe di notizie, mai smentite: ai primi di settembre il decreto di scioglimento era già stato predisposto dal Ministro dell’Interno ed era pronto per essere portato al voto del Consiglio dei Ministri; a fine settembre il sindaco Nania (cioè il vertice dell’amministrazione infiltrata dalla mafia) veniva ricevuto al Viminale per consentirgli di difendere l’operato della sua giunta; da ottobre ad oggi si sono sviluppate le trattative sottobanco fra i garanti di quell’amministrazione comunale (primi fra tutti, il senatore Nania ed il dr. Antonio Franco Cassata) ed importanti esponenti dell’attuale maggioranza parlamentare di centrosinistra, con l’indicazione più o meno nominativa, fatta dai giornali, della senatrice Finocchiaro (che a Barcellona P.G. fu presente nella campagna elettorale per le ultime elezioni politiche ad un incontro pubblico nel quale intervenne il dr. Cassata), del viceministro Minniti e dell’on. Crisafulli (indagato dalla D.d.a. di Messina insieme a compagni di partito del senatore e del sindaco Nania); dieci giorni fa, infine, durante un comizio in piazza il sen. Nania ha dichiarato di aver ricevute parole confortanti direttamente dal ministro Amato.

Nei giorni scorsi si è appreso dalla stampa (ma i frequentatori occasionali del palazzo municipale di Barcellona P.G. hanno assistito dal vivo a scene di giubilo nella mattina di martedì 16 gennaio, allorché il sindaco Nania ha dichiarato apertamente di aver ricevuto notizie definitivamente rassicuranti dal Viminale) che il ministro 
Amato avrebbe infine concluso che non ricorrerebbero i presupposti per lo scioglimento dell’amministrazione comunale barcellonese e ciò - così si è detto - in ragione di una nota del Prefetto Scammacca, redatta su sollecitazione dello stesso ministro al fine di aggiornare la situazione al momento attuale, come se fosse possibile che un’amministrazione che per quasi cinque anni ha patito il condizionamento della mafia potesse liberarsi da ogni vincolo in ragione del semplice 
decorso di qualche mese. Senza tacere, peraltro, che i sei mesi sono decorsi inutilmente per colpa esclusiva dello stesso ministro. 

Eppure, il Prefetto Scammacca proprio in questo senso si sarebbe espresso, valorizzando il più possibile il fatto che uno stravagante pronunciamento del Gup di Messina ha ritenuto che per il vicepresidente Marchetta, il boss Di Salvo e gli altri non si dovesse procedere per associazione mafiosa ma soltanto (si fa per dire) per associazione a delinquere semplice finalizzata alle turbative d’asta (ma non avrà creduto – ci si augura – il prefetto Scammacca che quel provvedimento 
giurisdizionale possa cancellare l’intimità di rapporti fra Marchetta ed il boss Di Salvo, la incredibile crociera dai due allegramente trascorsa insieme alle rispettive famiglie, i lavori aggiudicati dal comune al boss o le sopravvenute dichiarazioni del pentito Lenzo circa il ruolo imprenditoriale di Marchetta come proiezione della famiglia mafiosa barcellonese) o il fatto che con una pantomima degna di migliori palcoscenici il sindaco Nania qualche settimana fa ha revocato la delega assessoriale a Cannata, ottenendo in sovrapprezzo la posticcia reazione del partito di Cannata, Forza Italia, con le dimissioni (a pochi mesi dal voto) degli assessori Messina e Genovese, sui quali gli ispettori si erano pronunciati. Se così fosse, davvero questa sarebbe la prova, risibile e drammatica al contempo, delle manovre poste in essere sulla scorta di inconfessabili accordi sotterranei. 

Naturalmente, il Prefetto si sarà ben guardato di segnalare al ministro gli elementi sopravvenuti che corroborano le conclusioni degli ispettori: avrà segnalato, ad esempio, il Prefetto che Mario Calderone ed il dipendente comunale Giulio Massimo Calderone (quest’ultimo, con un passato da latitante, opera nel settore delle 
ricerce anagrafiche), fratelli del consigliere comunale Sergio Calderone, sono stati nelle more condannati per associazione mafiosa? E avrà segnalato il Prefetto l’inerzia del sindaco nel promuovere, in ragione della condanna per mafia, la sospensione di Giulio Massimo Calderone, che continua imperterrito a prestare servizio quale dipendente comunale? Ancora, avrà segnalato da ultimo il Prefetto quanto riportato dalla Gazzetta del Sud di ieri circa il sequestro al municipio di Barcellona P.G., disposto dalla D.d.a. di Messina il giorno prima, degli atti concernenti il servizio di assistenza agli anziani?

Non possono tralasciarsi in questa sede alcune considerazioni sulla figura del Prefetto Scammacca, sulla credibilità delle cui parole si è fondato il ministro per denegare lo scioglimento; su colui, cioè, che per quattro anni ha impedito strenuamente l’ispezione al comune di Barcellona P.G.. A Messina non lascerà certo un grande ricordo: di lui si rammenteranno l’attitudine a compiacere i desiderata del sen. Nania e le gaffes pubbliche, come quella di presentarsi allo stadio in 
occasione della partita Messina-Juventus della passata stagione in compagnia dell’ex deputato Giuseppe Astone, che in quel momento era indagato dalla D.d.a. di Messina, insieme all’on. Crisafulli, al Presidente Cuffaro ed a personaggi legati al sen. Nania, in un’inchiesta di mafia relativa al servizio di raccolta dei rifiuti solidi 
urbani nella città di Messina. Certo, nulla al confronto di quanto lo stesso dr. Scammacca aveva fatto, a partire dal 1993, da commissario straordinario del comune di S. Giovanni la Punta, cittadina a monte di Catania nella quale Scammacca a lungo aveva abitato e la cui amministrazione era stata sciolta per mafia. In quell’occasione il dr. Scammacca creò, per farsi collaborare nelle scelte amministrative, una “consulta cittadina”, all’interno della quale personalmente inserì l’
imprenditore multimiliardario Sebastiano Scuto.

Con quest’ultimo Scammacca instaurò anche rapporti di frequentazione personale, allargata anche alle rispettive mogli. Sennonché, quando nel 2001 Scuto 
finì in carcere per concorso esterno in associazione mafiosa, gli investigatori, oltre alle prove dei contatti telefonici intercorsi fra i due, trovarono tracce del passaggio di somme di denaro da Scuto a Scammacca. Interrogato in proposito in un’udienza del processo Scuto, il dr. Scammacca (che al momento della testimonianza era già Prefetto di Messina), con grande impaccio e infarcendo i suoi racconti con un numero davvero inaccettabile di “non ricordo”, ammise di aver ricevuto denaro da Scuto, aggiungendo che si trattava del pagamento di una vecchia auto da collezione che egli aveva ceduto all’imprenditore legato ai capi del clan Laudani, imperante a S. Giovanni la Punta.

Il nome del comune di S. Giovanni la Punta, che marchiò le vicende del “caso Catania” ai primi anni del Duemila (in relazione alla presunte coperture giudiziarie sulle faccende mafiose di quella cittadina ed all’acquisto in un complesso residenziale, da società riconducibile ai mafiosi Laudani, di unità immobiliari da parte di un alto magistrato catanese, il dr. Giuseppe Gennaro, e del cognato della senatrice Finocchiaro), nel frattempo sembra calare come un’ipoteca insormontabile sui lavori futuri della Commissione parlamentare antimafia. Quando ancora i lavori non sono stati in concreto avviati, infatti, si è appreso che la Commissione ha accolto quale suo consulente il dr. Giuseppe Fonzo, nell’ultimo decennio sostituto procuratore della Repubblica a Catania (e per tale ragione soggetto dal 
sottoscritto personalmente conosciuto e con il quale, nelle rare occasioni di incontro per ragioni professionali, chi scrive ha avuto rapporti più che cordiali). 

Si tratta, però, di uno dei tre pubblici ministeri che furono titolari di rilevantissime indagini su omicidi commessi a S. Giovanni la Punta e sugli assetti mafiosi di quel paese (ivi compresi il fascicolo a carico dell’imprenditore Scuto e uno di quelli relativi all’omicidio di tal Rizzo, imprenditore mafioso cointeressato, attraverso la moglie, alla società che aveva edificato il complesso edilizio di cui sopra). Sennonché il lavoro di quei tre magistrati (fra i quali il dr. Fonzo) si caratterizzò per l’inerzia e le lacune investigative, tanto che, rigettata dal G.i.p. la richiesta di archiviazione del procedimento relativo, fra gli altri, a Scuto e Alfio Laudani, si rese necessaria l’avocazione da parte della Procura generale. Ora, la nomina del dr. Fonzo come suo consulente porrà la Commissione antimafia nell’impossibilità di affrontare le più rilevanti faccende catanesi, riguardanti le deviazioni degli apparati giudiziari, che dei fatti del “caso Catania” sono diretta e naturale conseguenza.
Come si vede, sono tante le sfasature che stanno qualificando sul fronte della lotta alla mafia la prima fase della legislatura inaugurata dal voto del 9 e 10 aprile. Esse non inducono certo all’ottimismo per il futuro.

Nessuna vicenda, però, più di quella dell’omesso scioglimento dell’amministrazione comunale di Barcellona P.G. è destinata a destare sgomento nella cittadinanza. Essa appone, già ad inizio legislatura, il peggior distintivo sull’attività di governo e sulla sensibilità degli organi parlamentari, quello del consociativismo, volontariamente o involontariamente, filomafioso. Già non è accettabile la logica dell’inciucio; ma l’inciucio sull’antimafia è davvero spettacolo osceno e foriero di disastrose conseguenze.

Distinti saluti,
Fabio Repici

Fonte: http://www.cuntrastamu.org/mafia/documenti/repici.htm



"Io, Dell'Utri e le stragi”

Signor Avola, il suo passato rappresenta o no un tormento? “Se fossi davvero pentito, sì, lo sarebbe. Ma io sono soltanto un collaboratore di giustizia, il mio unico rimorso è di aver messo nei guai la mia famiglia condannandola a vivere nel terrore della vendetta di . Sono stato egoista con i miei figli. E’ vero, lo Stato dopo la mia collaborazione mi ha scarcerato, ma non era quello che volevo. Avrei desiderato rifarmi una vita all’estero, utilizzando documenti che mi avrebbero regalato una nuova identità. Alla maniera dei collaboratori dell’Fbi. Mi sarebbe piaciuto trasferirmi in Germania o in Olanda. Ma i patti non sono stati rispettati. Le mie confessioni valevano per lo Stato uno stipendio mensile di due milioni e seicentocinquantamila lire. Non pochi, potevo campare bene, ma le promesse erano altre. Mi sono sentito tradito anche perché mi sequestrarono una villa da settecento milioni che non avevo finito di pagare. Volevo andare in Sudamerica e loro niente. Ho così commesso delle sciocchezze, partecipando a quelle rapine romane, ma, ripeto, era un atto di sfida allo Stato che mi aveva profondamente deluso. In più, sono finito in una sezione carceraria con persone immonde: omosessuali, drogati, bruti. Per il mio senso dell’onore, era davvero troppo. Ho pensato addirittura al suicidio. In Cosa Nostra è l’unico modo per salvare la famiglia, come ha fatto Nino Gioè. Però, ho giurato a mia moglie che non tornerò mai più indietro, per questo motivo sto continuando a collaborare”. Ha rimpianti per quei tempi passati? “Sì, perché oggi mi manca il potere decisionale. Una volta ero qualcuno... al ristorante, al supermercato, nel negozio più esclusivo di Catania. Tutti sapevano chi fossi. Nessuno osava sfidarmi scavalcandomi nella fila. Addirittura, quasi si scostavano per lasciarmi il passo. Dottori, ingegneri e politici. Prego - mi dicevano - prego, come se fossi l’invitato speciale di una festa. Un divo del cinema, il numero uno. Adesso mi guardo allo specchio e non so più spiegarmi chi sono io.

Forse sono soltanto uno che spara cazzate a raffica. Come l’ultimo degli infami. Ho tradito quel mondo... sono stato tradito!”. E perché si sente tradito? “Perché io avevo dato tanto alla 'famiglia'. Quindici anni e un sacco di omicidi, sempre pronto a tutto e alla fine hanno cercato di eliminarmi perché sapevo troppe cose della 'famiglia'. Eppure, anch’io ho ucciso un sacco di miei compagni per questo motivo, ovvero perché sapevano tante cose. Ero divenuto 'inaffidabile' e avevo fatto il loro stesso gioco, ero finito nella loro trappola”. Le stragi del ‘92, le bombe dell’estate del ‘93. La nuova strategia della tensione. Lei è stato uno dei primi collaboratori di giustizia a parlarne con i magistrati. “Vorrei chiarire subito che il gruppo Santapaola era fermamente contrario alle stragi. La sera in cui morì Giovanni Falcone mi trovavo all’interno di un bar con Marcello D’Agata che mi ripeteva che era stato un grande errore e che lo Stato ci avrebbe distrutto. Aveva visto bene. Anche Santapaola, che ci raggiunse poco dopo, era convinto dello sbaglio commesso. Ma aveva dovuto abbozzare di fronte alle scelte di Totò Riina. Secondo lui, tutto questo avrebbe portato alla distruzione di Cosa Nostra. Spesso ripeteva: 'Se si voleva uccidere Giovanni Falcone, bisognava farlo subito, all’inizio del 1985'. Santapaola non ha mai voluto combattere lo Stato, neanche uccidere un poliziotto a Catania, non voleva la guerra con i carabinieri che definiva sempre 'educatissimi ragazzi'. Una sola eccezione, e a malincuore, fu quella che portò alla morte dell’ispettore Lizzio... Poi cambiò qualcosa: nelle nostre riunioni si parlava di un vento nuovo. Una volta, nel 1992, Eugenio Galea, una sorta di ambasciatore della 'famiglia' Santapaola, tornò da Enna dove c’era stato un vertice con Totò Riina e ci disse che bisognava appoggiare un partito nuovo. Solitamente i vertici si tenevano ogni lunedì negli autogrill dell’autostrada Catania - Palermo, all’altezza di Termini Imerese. 

Ogni provincia aveva il suo rappresentante”. Un nome che ricorre spesso nelle sue deposizioni è quello del faccendiere barcellonese Rosario Cattafi... “E’ una persona molto potente. Saro Cattafi per noi era più importante degli altri uomini d’onore perché eravamo convinti che fosse legato ai servizi segreti e anche alla massoneria. Cattafi rappresenta l’anello di congiunzione tra la mafia e il potere occulto. Del resto, molti capi mafia sono massoni. Lo zio Nitto diceva di essere un massone e, a quanto mi risulta, anche Totò Riina lo è”. Spesso nei suoi verbali si fanno riferimenti ad un partito nuovo, ai cambiamenti politici definiti necessari. Ma cosa sa dei rapporti tra Cosa Nostra e la classe politica? “Ognuno ha i suoi agganci. Ad esempio, a Catania i contatti li teneva personalmente lo zio Nitto, quindi non ho una conoscenza diretta di quei legami. Però, ricordo benissimo quando ci parlava dei suoi rapporti con i socialisti. Agli inizi degli anni ‘90 appoggiavamo il partito del garofano perché il ministro Claudio Martelli aveva promesso aiuti all’organizzazione. Aldo Ercolano aveva un rapporto con il ministro Gianni De Michelis. Sapevo di alcuni investimenti fatti assieme a Roma in alcuni negozi di via Condotti. 

Rapporti buonissimi persino con Bettino Craxi. Fu proprio per fare un favore a lui che, nel 1992, in piena tangentopoli, avremmo dovuto uccidere l’allora giudice Antonio Di Pietro. L’omicidio si doveva fare a Bergamo, dove viveva Di Pietro. Per lui era pronta un’autobomba come per Giovanni Falcone. L’esplosivo sarebbe arrivato dalla ex Jugoslavia. Si decise il piano in un vertice all’hotel Excelsior di Roma: mi risulta che fossero presenti oltre a Marcello D’Agata ed a Eugenio Galea, anche un trafficante d’armi messinese, Filippo Battaglia, e il faccendiere Francesco Pacini Battaglia, oltre all’uomo dei servizi deviati, Saro Cattafi. Per eseguire l’attentato Marcello aveva scelto proprio me. Quell’assassinio sarebbe servito a togliere dai guai alcuni amici politici e imprenditori che erano indagati dal magistrato”. Perché non uccideste Antonio Di Pietro? “Alla fine non se ne fece nulla perché, secondo lo zio Nitto, i socialisti non avevano rispettato certi accordi. Ricordo in proposito che durante una riunione successiva venne ribadito il concetto: 'Cazzi loro, non facciamo nessun favore ai socialisti dopo che ci hanno tradito...'. In quel vertice ad Enna si era parlato anche di un partito nuovo, formato da persone non compromesse con la politica, però legate a Casa Nostra. Eugenio Galea rimase perplesso. Alla riunione c’era anche Riina. Addirittura si parlò di una Sicilia indipendente. Siamo nel 1992. Di Forza Italia iniziai a sentirne parlare nel ‘93. Me lo disse Marcello D’Agata, allora in carcere per detenzione di armi. Venni a sapere che era nato un partito nuovo: era il mese di maggio. In seguito l’ordine fu di votare Forza Italia. Poi me ne parlò anche il nipote di Giuseppe Pulvirenti, detto u’malpassotu. La strategia era chiara: colpire lo Stato nei punti vitali. Un ricatto. 'Noi la smettiamo, tu Stato cosa ci dai in cambio?'. In realtà, il nostro obiettivo era di spingere questa formazione politica a fare gli interessi dell’organizzazione mafiosa: soprattutto eliminare il 41 bis e screditare i pentiti”. Che strano! 

La mafia doveva votare Forza Italia e intanto metteva le bombe alla Standa. Sembra un controsenso. “La bomba alla Standa di Catania fu un mezzo per costringere Marcello Dell’Utri a patteggiare con la nostra 'famiglia'. Si diceva che avesse dei legami con i palermitani, ma noi catanesi eravamo decisi a stabilire con lui un rapporto autonomo. Santapaola voleva costringere il manager di Publitalia a venire ad un accordo. Così lo zio Nitto autorizzò Aldo Ercolano a bruciare la sede della Standa a Catania. I palermitani non la presero bene. Nacquero dei problemi che si sono risolti solo con l’arresto di Riina e Santapaola. Rapporti strani tra le cosche. Ad esempio, Santo Mazzei, nemico giurato di Santapaola, venne fatto uomo d’onore a Palermo per poi essere infiltrato a Catania. Lo stesso gioco che aveva fatto Nitto Santapaola con Calderone nel 1978”. Saranno anni d’incomprensioni, poi acuite dalla latitanza nel Barcellonese di Nitto Santapaola... Alla fine, come reagì Dell’Utri? “Scese a patti. 

Per risolvere la vicenda Standa piombò subito in Sicilia In cambio - mi raccontò Marcello D’Agata - la 'famiglia' fece un grosso investimento di un centinaio di miliardi in attività della Fininvest. I contatti li prese Salvatore Tuccio, nostro rappresentante. Ci furono diversi incontri. Non è un caso che gli attentati terminarono dopo l’incontro tra Dell’Utri e lo zio Nitto. Diciamo che è vicina alla massoneria per alcuni ricevuti e fatti. Mi spiego meglio: certi omicidi sono compiuti per regalare favori alle logge. Per quanto mi risulti anche lo zio NItto era un massone. Tutti i capi mafia sono massoni. I collegamenti tra mafiosi e la massoneria sono necessari per garantirsi le coperture giudiziarie e per pianificare gli investimenti dell’organizzazione. Un esempio è la strategia del 1990. Fu Marcello D’Agata a confidarmi che Santapaola era entrato nella massoneria. Come Salvatore Riina. Poi c’era quel personaggio importante per la 'famiglia' che si chiama Saro Cattafi. Lui non è 'uomo d’onore', ma per Cosa Nostra rappresenta il collegamento tra politici e l’organizzazione. Io sapevo che apparteneva ai servizi segreti deviati. Mi risulta fosse anche lui un massone”. Lei ha dichiarato ai magistrati che il frutto di queste riunioni furono le stragi e le successive bombe. “Nel gennaio del 1992 trasportai 200 chili d’esplosivo a Termini Imerese con Marcello D’Agata all’interno di una Fiat Uno bianca. Non posso certo dire che siano serviti per la strage di Capaci. Sapevo, tramite Aldo Ercolano, che Cosa Nostra stava preparando degli attentati. Ero a conoscenza, inoltre, che c’era uno bravo a maneggiare l’esplosivo, credo che si riferissero a La Barbera. Già si parlava d’altri attentati. Uno di questi era quello del giornalista Maurizio Costanzo. 

Sarà tutto vero perché questa è la strategia che usa Salvatore Riina. Nessuno avrebbe potuto contraddirlo, neppure Santapaola che è pur sempre secondo a Riina. Non dimentichiamo che il capo di Cosa Nostra è Totò Riina. Così, anche se capisce che Riina gli sta facendo le scarpe, deve stare al gioco. Altrimenti bisognava attaccare i corleonesi e noi non eravamo in grado di far loro la guerra. Già, perché loro sono tutta la Sicilia Occidentale”. In ogni caso, Benedetto Santapaola aderì alla strage. “Sì, ma con la morte nel cuore. Capiva che sarebbero poi accadute cose da pazzi. Decise così di non inviarmi all’appuntamento. Fu Marcello D’Agata ad avvertirmi che era troppo pericoloso anche perché meno persone mi conoscevano in faccia, meglio era per la nostra . Agli incontri per gli altri attentati del ‘93, invece, partecipai personalmente. Fui io, ad esempio, a verificare la possibilità dell’attentato di Firenze. Nella mia mente c’era il David di Donatello. Volevo mettere una bomba senza colpire le persone”. Non sono tardive queste sconvolgenti rivelazioni? “Ho sempre parlato di Marcello Dell’Utri ai magistrati fin dall’inizio della mia collaborazione. E vi ricordo che collaboro dal 1994. All’inizio avevo paura di parlare di certe cose perché conosco la forza di ed i suoi collegamenti con le Istituzioni. Chiunque avrebbe potuto tradirmi. Anche un capitano dei Carabinieri o un colonnello. Io non ho molto fiducia nello Stato. Avevo paura che parlando di certi personaggi o riunioni mi avrebbero ucciso anche in carcere. Anche se ho sempre messo in conto che uscendo da casa avrei potuto trovare la morte in qualsiasi momento. La morte ha sempre camminato con me! Non ho finito il mio lavoro di collaboratore e, interrompendolo ora, mi sembrerebbe di lasciare qualcosa d’incompleto”. Si rende conto che le sue dichiarazioni potrebbero aver firmato la sua condanna a morte? “Per questa mia scelta di collaborare con lo Stato, mi ha già condannato a morte. Però, loro sanno che non devono uccidere i familiari di Avola perché a quel punto sarei pronto ad uccidere i loro. Sono sempre un killer! L’obiettivo deve essere Maurizio Avola e basta. L’organizzazione sa che in ogni caso dal carcere esco prima io di loro. Se i miei capi prendono trent’anni, a me ne toccheranno ventinove, dunque uscirò prima... Io mi ricorderei sempre di chi ha ucciso mio figlio. Conosco i loro segreti e come agiscono. Per loro è facile attaccare una famiglia mafiosa. Ma difendersi da una persona sola è molto più difficile. Prendete Ferone, quello che ha ammazzato la moglie di Santapaola. 

E’stato scoperto perché ha chiesto aiuto ad altre persone. Se avesse agito da solo non lo avrebbero mai individuato. Che fosse stato un pentito ad uccidere la moglie di Santapaola, lo avevo intuito subito. Lo dissi immediatamente al giudice Amedeo Bertone. Sbagliai solo il nome del sicario. Il fatto è che nessuno dell’organizzazione si sarebbe potuto permettere di uccidere la moglie di Nitto. La decisione di Ferone maturò solo per un desiderio di vendetta. La mafia catanese gli aveva ucciso il padre ed il figlio! Oggi sono tremendamente incazzato con lo Stato che ha tradito la mia fiducia. Mi hanno lasciato senza documenti di copertura, hanno abbandonato al loro destino mia moglie e i miei figli. Mi hanno trattato male. Sono convinto che certi atteggiamenti siano stati provocati dal fatto che abbia parlato di stragi, fatto nomi importanti, richiamato in gioco i servizi segreti, di aver coinvolto le logge massoniche. I giudici di Catania che mi hanno gestito, però, sono degli onesti. Su tutti, il dottor Amedeo Bertone e Nicolò Marino. Lo stesso non posso dire delle Istituzioni di Roma”. Anche lei si è pentito di essere un pentito? “Forse sì. Io ho iniziato a collaborare perché Nitto Santapaola mi voleva uccidere. Era già toccato al mio amico fraterno Pinuccio DI Leo.

Dopo “Pinuccio” era arrivato anche il mio turno. Se sono ancora vivo, lo devo al mio sangue freddo ed alla presenza di un poliziotto. I killers che mi dovevano sparare hanno avuto paura della polizia. Quei giorni hanno segnato la mia vita... Tutto era iniziato perché Pinuccio Di Leo non c’era più con la testa. Aveva paura di essere arrestato dopo il pentimento di Claudio Severino Samperi. Voleva scappare da Catania. E questi segni di debolezza all’interno dell’organizzazione alla fine li paghi. Non puoi lamentarti, né mostrare la tua paura se vuoi rimanere vivo dentro . Su ordine della 'famiglia', lo convocai a casa mia. Lo eliminò un amico poliziotto sparandogli due colpi alla nuca. Nel nostro gruppo c’erano carabinieri e poliziotti che la mattina facevano finta di indagare sugli omicidi da loro commessi. Una volta ci anticiparono una perquisizione nella zona dove si nascondeva lo zio Nitto e riuscimmo ad avvertirlo. Sono stati tutti arrestati e condannati all’ergastolo. Dopo aver eliminato Pinuccio, presi a schiaffi il suo cadavere. Gli urlai, quasi disperato: 'E’ stata solo colpa tua. Mi hai costretto ad ucciderti!'. A conti fatti, devo ammettere di aver sbagliato a pentirmi. Ho messo a repentaglio la vita dei miei figli, di mia moglie, quella dei miei genitori, sono io stesso a rischio. Adesso vivono sotto protezione in una località segreta, ma non basta. La famiglia di Avola potrebbe rimanere uccisa se lo Stato decidesse di rispedirla a Catania. Spero che almeno questo patto lo Stato lo mantenga. La giustizia sa cosa ha riferito Maurizio Avola.

Ho raccontato tutti gli affari di Cosa Nostra. Ho verbalizzato per tre mesi ininterrottamente dal lunedì al venerdì, dalla mattina alla sera. Da luglio del ‘97 sono senza protezione per via delle rapine compiute a Roma. Dopo la mia scelta di sfidare lo Stato con quelle rapine, avrei voluto mandare tutti a quel paese. Io spero che lo Stato mi dia un’altra possibilità”. Nonostante tutto, nutre ancora la speranza di potersi rifare una vita? .”Sì. Continuo a ripetermi che domani uscirò... sarà difficile ma io devo vivere con questa speranza. Non è facile sopportare certe umiliazioni. Minchia, come vorrei tornare indietro... Quando vado a deporre ai processi e vedo dietro le gabbie i ragazzi cui ho insegnato a sparare, mi sento una carogna, vorrei essere al posto loro con quelle facce fiere che non hanno nulla di cui pentirsi. Un giorno, Salvatore Barcella, un ex poliziotto che faceva il killer per conto di Santapaola, gridò in aula: 'Signor Presidente, mi vergogno per Avola!'. Credetemi, sentire quelle parole uscire dalla bocca di un poliziotto, per giunta corrotto, mi ha fatto sentire una merda... Guardate questo dito, è quello che premeva il grilletto della pistola, vedete è ancora consumato. Ora, altro che pistola: sparo solo cazzate. Se sono ancora disponibile a collaborare lo devo a mia moglie che mi ha convinto a tenere duro. E’ solo per merito suo se sto continuando a parlare con i giudici”.

Da: IMGpress

Antonino Giuffrè e la legge sui pentiti

Antonino Giuffrè fu catturato nelle campagne vicino a Cacciamo, un paesino a 40 chilometri da Palermo. A Cacciamo, Giuffrè era capo mandamento, un mafioso di altissimo livello, molto vicino a Bernardo Provenzano, che aveva incontrato un mese prima di essere arrestato. Giuffrè si era assunto il delicato compito di ricostruire Cosa nostra dopo i danni inflitti da polizia e magistratura con la cattura e i processi di molti affiliati. Due mesi dopo l’arresto, Giuffrè disse ai magistrati di essere disposto a collaborare con loro. Il pomeriggio del 20 gennaio 3003, Giuffrè depose al processo contro Marcello Dell’Utri, senatore siciliano di Forza Italia accusato di concorso esterno in associazione mafiosa, condannato in prima istanza con sentenza dell’ 11 dicembre 2004. Berlusconi e Dell’Utri erano amici intimi da molto tempo ( si erano conosciuti all’Università), e Dell’Utri in seguito aveva lavorato per Berlusconi ed era diventato la forza trainante che stava dietro al suo ingresso in politica. Giuffrè non si trovava a Palermo al momento di deporre. Si trovava in prigione: la sua testimonianza da una località segreta è stata ascoltata grazie ad una videoconferenza. Il grande schermo nell’aula di tribunale di Palermo mostrava le spalle arrotondate di un uomo quasi calvo, con indosso una giacca biancastra. Giuffrè parlava lentamente, a volte passando le dita sul bordo del tavolo, altre volte giocherellando con una penna nella mano sinistra.

In aula Dell’Utri, vestito elegantemente, con occhiali dal bordo d’oro, stava seduto impassibile, a braccia incrociate. I suoi avvocati avevano obiettato che la deposizione di Giuffrè era inammissibile, ma la corte aveva rigettato l’istanza e aveva deciso di acquisire la deposizione del pentito.

L’obiezione degli avvocati di Dell’Utri si basava su una legge approvata nel 2001, che fissava un tempo limite di sei mesi entro il quale i collaboratori di giustizia dovevano raccontare ai magistrati tutto quello che sapevano. Dal momento in cui decidevano di vuotare il sacco,  i collaboratori di giustizia avevano sei mesi per dire tutto, fino in fondo. Una volta esaurito questo periodo, qualsiasi fatto, o informazione, venva considerata ininfluente ai fini processuali tanto da non venire neanche acclusa al processo.

<< Il limite di sei mesi dimostra che lo Stato non è interessato a quello che hanno da dire i collaboratori di giustizia>>, ha osservato Gozzo, che faceva parte del gruppo di magistrati che hanno messo sotto processo Dell’Utri. Giuffrè era stato un criminale per trent’anni, e sei mesi non erano sufficienti. Era impossibile per Giuffrè raccontare tutto entro la meta di dicembre del 2002 ( entro il quale scadevano i sei mesi)

Uno dei problemiera organizzare gli incontri con tutti quei magistrati ( non sono in Sicilia ma in tutta ltalia) che volevano interrogarlo.

Altrettanto importante, però, era il tempo necessario per convincere Giuffrè a raccontare ai giudici tutto quello che sapeva. I mafiosi avevano talmente tante riserve a parlare della mafia, prima fra tutte quell’omertà che li lega fra di loro, che all’inizio non offrivano una piena collaborazione. I pentiti dovevano prima completare un percorso psicologico e il limite dei sei mesi non teneva conto  di questo elemento. Inoltre, scaduto il termine dei sei mesi, i pentiti non potevano più dire nulla. 

Per far cambiare la legge, una settimana dopo la morte di Caponnetto, il 6 dicembre 2002, la vedova ottantenne, Elisabetta, scrisse al ministro della Giustizia di Berlusconi per chiedergli di  estendere il dannoso limite dei sei mesi. << E’ strano ritirare fuori la mia macchina da scrivere, con cui tante volte ho battuto lettere e messaggi per conto di Nino. Ma leggere sui quotidiani di ieri le Sue dichiarazioni ha aggiunto al dolore per la morte di Nino un ulteriore forte disagio>>, scriveva. Nonostante il voto unanime della Commissione parlamentare Antimafia e gli appelli del Procuratore Antimafia e dei magistrati di Palermo, il ministro rifiutò ostinatamente di estendere il periodo di sei mesi, dicendo che i pro e i contro di questa proroga si compensavano. << Vorrei che mi aiutasse a rispondere a questa domanda che mi assilla: Ministro, quali sono i contro?, ha chiesto Elisabetta Baldi Caponnetto. Il ministro di Berlusconi non ha cambiato idea, ma la vedova di Caponnetto ha sentito il calore e la solidarietà di tanti italiani per bene, magistrati e gente comune, che si sono recati a Firenze per assistere ai funerali di suo marito e rendergli omaggio. Il governo Berlusconi, oltre a farsi notare per la sua assenza quel giorno, sembrava voler limitare le rivelazioni di Giuffrè

Ecco tutti i procedimenti giudiziari subiti da Dell’utri

False fatture e frode fiscale

È stato condannato in via definitiva a Torino, a due anni di reclusione per false fatture e frode fiscale.

Tentata estorsione

È stato condannato in primo grado a Milano a due anni di reclusione per tentata estorsione ai danni di Vincenzo Garraffa (imprenditore trapanese), con la complicità del boss Vincenzo Virga (trapanese anche lui).

Concorso esterno in associazione mafiosa

Le indagini iniziano nel 1994 con le prime rivelazioni che confluiscono nel fascicolo 6031/94 della Procura di Palermo. 

Il 9 maggio 1997 il Gip di Palermo rinvia a giudizio Dell'Utri, e il processo inizia il 5 novembre dello stesso anno. 

In data 11 dicembre 2004, il tribunale di Palermo, ha condannato Marcello Dell'Utri a nove anni di reclusione con l'accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. Il senatore è stato anche condannato a due anni di libertà vigilata, oltre all'interdizione perpetua dai pubblici uffici e il risarcimento dei danni (per un totale di 70.000 euro) alle parti civili, il Comune e la Provincia di Palermo. 

Nel testo che motiva la sentenza si legge:

"la pluralità dell'attività posta in essere da Dell'Utri, per la rilevanza causale espressa, ha costituito un concreto, volontario, consapevole, specifico e prezioso contributo al mantenimento, consolidamento e rafforzamento di Cosa nostra, alla quale è stata, tra l'altro offerta l'opportunità, sempre con la mediazione di Dell'Utri, di entrare in contatto con importanti ambienti dell'economia e della finanza, così agevolandola nel perseguimento dei suoi fini illeciti, sia meramente economici che politici"

Calunnia pluriaggravata

È imputato a Palermo per calunnia aggravata ai danni di alcuni pentiti. Secondo l'accusa avrebbe organizzato un complotto con dei falsi pentiti per screditare dei veri pentiti che accusavano lui ed altri imputati. Per questa accusa, il Gip di Palermo dispose l'arresto di Dell'Utri nel 1999, ma il Parlamento lo bloccò.

Dell’Utri: bell’amico Berlusconi

Ma pensateci bene. Che cosa direste voi di un amico che, sapendovi ingiustamente accusato, non si presentasse a testimoniare a vostro favore nel processo in cui siete imputati? La vicenda Berlusconi-Dell'Utri-magistrati palermitani presenta anche questo risvolto umanamente inquietante, che illumina da una particolarissima angolazione lo stato morale del paese e di chi lo governa. Su Marcello Dell'Utri pende un'accusa mica tanto da ridere, concorso esterno in associazione mafiosa. Un'accusa che può fare un baffo a chi, anche a sinistra, davvero non resiste alla tentazione di frequentare il mondo che conta (spassosissimo, di recente, un vademecum della poetessa Patrizia Valduga per informare preventivamente chi, non resistendo alle sirene del potere, è - a cose fatte - sempre pronto a spiegare con finto candore di non avere mai saputo che quel luogo o rivista o cenacolo fosse «roba di Dell'Utri»).

Un'accusa che però, sul piano della reputazione politica e civile e morale, qualcosa vuol dire. Ebbene, il presidente del Consiglio è da tempi immemorabili amico dell'imputato-senatore. È stato da sempre suo stretto compagno di avventura, in affari come in politica. Ha con lui rapporti di intimità risaputa. E' Dell'Utri che gli trova il famoso stalliere di Arcore per proteggerlo, si dice, dai sequestri di persona. È Dell'Utri che lo aiuta a costruire Publitalia e Forza Italia. Eppure, quando è il momento di dimostrare sul serio i carati di questa amicizia, il capo del governo tace, sceglie la via del silenzio. Se capitasse a uno di noi di vedere ingiustamente accusato un amico fraterno, ci documenteremmo, consulteremmo con pignoleria le nostre agende, ci presenteremmo spontaneamente dai magistrati per dire che è innocente, l'amico carissimo; e che lo sappiamo per certo, che se hanno dei dubbi possiamo noi provare a fugare i dubbi; nei limiti, si intende, delle nostre conoscenze. Le quali, per quanto circoscritte, potrebbero però essere decisive per discolparlo, per rendergli l'onore. E viceversa, se fossimo noi gli accusati ingiustamente, ci adireremmo di giusto furore verso l'amico che non solo evitasse rigorosamente di presentarsi ai magistrati ma che addirittura, da loro interpellato, si rifiutasse di difenderci.

È davvero stupefacente, a mente un po' fredda, quanto è accaduto sotto gli occhi degli italiani. Un Berlusconi certo, assolutamente certo della persecuzione subita dall'amico. Che tale persecuzione ha denunciato pubblicamente con toni stentorei in mille sedi. E che poi quando può dirlo e spiegarlo nelle sedi decisive sta zitto, rinnovando l'antropologia delle tre scimmiette. Come farà d'ora in poi, il capo del governo, a sostenere l'innocenza del senatore palermitano? Se, come io credo e come con tanta foga sostiene la maggioranza governativa nei suoi programmi, viene prima la persona dello Stato, la comunità prima delle istituzioni, il messaggio che ne arriva sul piano umano è sconvolgente. Quello di un paese dove neanche i valori primari della solidarietà e dell'amicizia tengono più, al di qua della legge.

E la legge? La legge, lei, latita anch'essa in abbondanza. Può darsi infatti che il capo del governo non abbia voluto aprir bocca perché non è poi tanto sicuro dell'innocenza tante volte gridata. Perché sa che l'amicizia tra lui e Dell'Utri è cresciuta in spazi che non possono essere (comunque) descritti senza produrre ombre, senza togliere da una parte quel che si aggiunge dall'altra. La legge latita perché da oggi ogni adolescente a cui si chiede di studiare educazione civica sa che un presidente del Consiglio (così come ai suoi tempi il Cossiga presidente della Repubblica) può non testimoniare davanti ai magistrati. Sa che il comportamento dei vecchi contadini in coppola di Corleone - più e più volte mandati in onda da tivù maramalde mentre spiegavano di non sapere niente e di non avere visto niente - è andato al governo del paese. Chissà anzi se di fronte a questi pesantissimi silenzi che tornano nella vita della Repubblica, vi sarà ancora qualcuno che avrà voglia di spiegarci con fare da maestrino saccente che questo Paese ha una storia tutta alla luce del sole. Chissà se saremo ancora bruscamente catechizzati da chi non vuol sentir parlare di storia sotterranea, da chi scomunica l'idea di una storia complementare (non «parallela») che scorre ai limiti o fuori della legalità.

La legge. Strana e astratta entità in questa Italia che ha promesso il grande cambiamento che ci farà felici. Precaria e nemica perfino quando può onorare i rapporti umani. Nemica quando si fanno affari. Nemica quando si fa politica. Quando si fa la Cirami. 

Ma anche quando si riscrive la Costituzione, la nostra legge principale, la legge delle leggi. Cambiata, la Costituzione, con uno schioccar di dita, pochi giorni e via, c'è fretta - onorevoli - c'è fretta. Cassando come furie gli emendamenti. C'è in discussione una sequenza di emendamenti che iniziano con la locuzione «fermo restando»? Facile, si mette ai voti il «fermo restando», lo si boccia, et voilà, saltano tutti gli emendamenti che iniziano con quella locuzione. In blocco. Direte: ma «fermo restando» che cosa? E che cosa si propone dopo il «fermo restando»? Non importa. Il potere emendativo del parlamento, potere costituzionale, non è più un vincolo da rispettare neanche per cambiare la Costituzione. 
Giorni fa - insisto, insisto, perché a nessuno è sembrato grave - un senatore della opposizione è stato sostituito da un senatore della maggioranza con un voto, ovviamente, a maggioranza: dichiarato «ineleggibile» non dopo un conteggio più accurato dei voti ottenuti nel maggio del 2001, ma dopo un'analisi «probabilistica» di un campione di voti. Come se con questi criteri (ossia conteggiando i voti per campioni) si potessero da domani eleggere i rappresentanti del popolo.
Su questo sfondo si agitano e parlano e declamano Baldassarre e Albertoni (assessore regionale, cose da pazzi…), e gli altri, i tanti altri della colorita carovana. Fra alluvioni, terremoti, crisi e venti di guerra la Berlusconi Band continua a suonare. Nell'anarchia rivendicata dalle legioni di orchestrali c'è del metodo. Questo bisogna ammetterlo. 

Nando Dalla Chiesa



 Mafia, al via il processo d'appello a Dell'Utri

L'imputazione è concorso esterno in associazione mafiosa. Il senatore di Fi, condannato in primo grado a nove anni: ''Contro di me accusa politica'' 

''L'accusa del processo di primo grado era una accusa politica e oggi lo dico con più certezza di prima''. Così si è espresso il senatore di Forza Italia Marcello Dell'Utri (nella foto) fuori dall'aula della Corte d'Appello di Palermo dove si è aperto questa mattina il processo di secondo grado per concorso esterno in associazione mafiosa. Dell'Utri, in primo grado, aveva subito una condanna a nove anni, emessa nel dicembre del 2004. 
Camicia bianca, cravatta color melanzana e vestito antracite in fresco di lana, Marcello Dell'Utri è apparso tranquillo e sorridente. ''Sto bene - ha detto, sono tranquillo, non ho tic nervosi e dormo benissimo''.
Ma il senatore si è presentato di fronte ai giudici con qualche novità. Fra le fila dei difensori una sola conferma. ''E' un altro campionato e si cambia squadra - ha dichiarato con una metafora calcistica in linea col periodo - poi qualche giocatore rimane''.
Poi ha cominciato a parlare toccando subito il tema del giorno, la decisione della difesa di citare in aula anche l'ex premier Silvio Berlusconi, che in primo grado, interrogato dai pm, si era avvalso della facoltà di non rispondere. ''Berlusconi è un teste come un altro - ha detto Dell'Utri - ed è giusto che venga citato''. E sulla possibilità che si possa avvalere nuovamente della facoltà di non rispondere, ''non ha nessuna importanza - ha dichiarato - era normale citarlo, il processo ha una sua vita con degli episodi che capitano, e questo è uno dei tanti''. A deporre verrà inoltre chiamata la cognata dello stesso Dell'Utri, Maria Pia La Malfa.
Il senatore ha anche negato la conoscenza del mafioso Vito Roberto Palazzolo. Uno dei nuovi capi d'accusa che verranno presentati durante il processo. ''Non conosco questo signore - ha detto Dell'Utri - non so nemmeno chi è, è una pura e santa invenzione, santa per l'accusa naturalmente, perché ormai se non ti trovano delle cose che possono riaccendere il processo non sono contenti. 

Una cosa allucinante, semplicemente allucinante''.
''Mi aspetto che venga fatta giustizia. Come tutti gli imputati. Mi aspetto, soprattutto, che sia un processo meno pesante e meno lento di quello di primo grado'' ha poi aggiunto il senatore, che ha anche ammesso di non aver mai letto la precedente sentenza che lo riguarda. ''Non sono mica un avvocato, anche se leggo la sentenza non ci capisco niente. Non mi interessa leggere le accuse che mi riguardano''. Ha anche annunciato che sarà sempre presente durante il processo di secondo grado. ''E' giusto - ha detto - che l'imputato sia sempre presente''.
Riferendosi alle dichiarazioni spontanee rese pochi giorni prima della sentenza di primo grado, Dell'Utri ha detto seccamente: ''Sono pentito di tutte le dichiarazioni spontanee che ho fatto. Sono inutili perché non servono a niente, l'ho capito dopo, tanto non ti stanno neanche a sentire. Puoi solo aggravare la tua posizione, non certo migliorarla. E' un errore che non ripeterò mai più''.
Per l'avvocato Alessandro Sammarco, uno dei nuovi legali del senatore di Forza Italia, il castello accusatorio ''è una costruzione virtuale''. Anzi, ''una storia basata su illazioni, sospetti e congetture''. ''Di prove - ha insistito Sammarco - non c'è neanche l'ombra. Questo processo è il monumento a quello che avrebbe potuto essere, ma il processo non si fa su storie virtuali. Tutto questo non può portare ad una condanna''.

 Ma in apertura, il giudice a latere, Salvatore Barresi - affiancato da Sergio La Comare - ripercorrendo le tappe del processo ha ricordato ''i contatti personali di Marcello Dell'Utri con alcuni personaggi di Cosa Nostra come Stefano Bontade (boss ucciso nell'81, ndr), ''l'assunzione di Vittorio Mangano nella tenuta di Arcore di Silvio Berlusconi'', e gli interventi dello stesso Dell'Utri ''nei momenti di crisi tra la Fininvest e Cosa Nostra''.
Il giudice Barresi, ha proseguito quindi nel pomeriggio con la lettura della relazione introduttiva, durante la quale ha ripercorso tutti i momenti del processo di primo grado e dei motivi d'appello della sentenza. La relazione introduttiva proseguirà anche mercoledì prossimo 5 luglio quando è stato appunto rinviato il processo, passando poi alle richieste di accusa e difesa.

 La “strepitosa carriera di un allenatore - La sua storia, da amante del calcio a braccio destro di Berlusconi

Leggendo la biografia di Marcello Dell’Utri - che, condannato a 9 anni in prima istanza per concorso esterno in associazione mafiosa è tornato ieri (arrivando in ritardo) in aula a Palermo dove si celebra il processo d’appello, in attesa che il suo amico-padrone Silvio Berlusconi, citato dalla difesa, venga a testimoniare - la domanda che sale spontanea ma prepotente potrebbe apparire fuori tema: chissà che cosa pensa di Moggi? Perché tutto cominciò proprio da lì, da un pallone, in uno dei tanti campetti periferici di Palermo.

Cosa ci faceva Marcello Dell’Utri, laureato in giurisprudenza alla Statale di Milano, già amico di Berlusconi che aveva smesso di cantare sulle navi da crociera e il cui cervello snocciolava cifre e dividendi, in quel campetto da calcio? Allenava la squadra dell’Athletic Club Bacigalupo, in qualità di direttore sportivo. E curava amicizie. Come quella di Gaetano Cinà, proprietario di lavanderie e boss della famiglia di Malaspina, il cui figlio giocava nella squadra della quale Cinà, per oltre dieci anni, era stato dirigente. Come quella con Vittorio Mangano, giovane emergente del clan mafioso di Porta Nuova, che poi Dell’Utri porterà ad Arcore come stalliere di Berlusconi.

Si dirà: ma che razza di carriera può essere, per un brillante giovanotto siciliano laureato in giurisprudenza a Milano, amante dei classici, quella di allenatore di squadrette di calcio? Eppure è proprio il pallone che pone le basi di una carriera che porterà il giovanotto ambizioso ad essere l’ideatore della società di pubblicità che riempie le casse di Berlusconi di miliardi come granelli di sabbia, e ad essere con Berlusconi il co-fondatore di Forza Italia, di cui diventa parlamentare, poi parlamentare europeo.
 
Tutto da lì ha inizio. Prima, nel 1964, accanto a Berlusconi, il quale, probabilmente già sognando il Milan, sponsorizza la squadretta di calcio di cui Dell’Utri è allenatore. Poi a Roma, dove si trasferisce nel 1965, e dove fonda e dirige il Centro Elis, una scuola di formazione sportiva dell’Opus Dei; Si, nessun errore, proprio Opus Dei. Nel 1967 è di nuovo a Palermo, ad allenare l’Athletic club Bacigalupo. Se è un trampolino, funziona.

Nel 1970 Dell’Utri è in banca a Catania, Cassa di Risparmio per le province siciliane, poi alla filiale di Belmonte Mezzano. Appena due anni (1973) ed è promosso alla direzione generale della Sicilcassa a Palermo, servizio di credito agrario. Se come allenatore di calcio ha curato amicizie che torneranno, nella sua carriera, sarebbe interessante conoscere le amicizie curate da bancario. 
Sembrerebbe la traccia di una sicura ascesa. E, invece, dopo appena un anno si interrompe. Finito il praticantato? Stufo di conti? Pronto per il gran salto?

E’ Berlusconi a richiamarlo a Milano nel 1974. Diventa il segretario, l’uomo di fiducia. Cura le prime scalate dell’Edilnord, la primogenita da cui – e ancora non si sa bene come – nasce l’impero di Silvio. Fedelissimo. Paziente. Cura persino la ristrutturazione della villa di Arcore, che Berlusconi ha comprato a prezzo stracciato, grazie all’intermediazione di “Cesarone” Previti, dall’erede orfana del marchese Casati. E ad Arcore, il 7 luglio 1974, porta Vittorio Mangano come stalliere. 

A questo punto un nuovo salto della quaglia. Molla la Edilnord di Berlusconi e va alla Inim di Rapisarda. Bel personaggio, il Rapisarda, con relazioni in odore pericoloso, ma potente: Ciancimino, la “famiglia” dei Cutrera-Caruana. Il nostro vaga qua e là: amministratore delegato di una società che finisce in bancarotta, trafficante di “cavalli” – il termine usato nelle telefonate intercettate dalla Criminalpol di Milano – con quel bel figuro di Vincenzo Mangano, ospite a Londra al matrimonio di Jimmy Fauci. Otto anni un po’ qua e un po’ là.

Poi, nel 1982, ce lo ritroviamo come dirigente di Publitalia ’80, la società di raccolta pubblicitaria della Finivest, presidente e amministratore delegato. Due anni dopo (1984) è amministratore delegato della Finivest. Ancora qualche anno (1993) e fonda Forza Italia assieme a Silvio Berlusconi. Nel 1995 primo arresto a Torino, con l’accusa di aver inquinato le prove nell’inchiesta sui fondi neri Publitalia. E comincia l’indagine per mafia a Palermo.

 Mentre le inchieste procedono, viene eletto deputato nelle liste di Forza Italia. Nel 1999 viene condannato a 2 anni e 3 mesi per frode fiscale e false fatture, ma nello stesso anno viene eletto parlamentare europeo, e due anni dopo, nel 2000, è senatore. Sempre per Forza Italia.

E il pallone? Se non ci fosse stato il pallone, non ci sarebbe stato Gaetano Cinà. E, senza Cinà, non sarebbe stato prima imputato e poi condannato per associazione esterna mafiosa, una inchiesta cominciata in gran segreto proprio nel lontano 1994 e in cui non si fa neppure il suo nome, ma solo “imputato M”, per timore di fuga di notizie, e per la quale viene rinviato a giudizio nel 1997 e condannato sette anni dopo, nel 2004. Nove anni a lui, sette a Cinà. Che in appello non c’è, perché nel frattempo è deceduto. Secondo i giudici di primo grado Dell’Utri è stato il tramite, “consapevole e volontario”, con Cosa Nostra, “agevolandola nel perseguimento dei suoi fini illeciti, sia meramente economici che politici”.

Un processo fiume. Una quarantina i collaboratori di giustizia ascoltati, un dossier di centinaia di migliaia di pagine, Berlusconi indagato per cinque volte, e per cinque volte le accuse archiviate, una requisitoria durata 18 udienze, che ha prodotto una memoria conclusiva dei pm di 2500 pagine, una memoria difensiva di 1280 pagine, illustrata in 25 udienze. Tutto vero per l’accusa e il tribunale, tutto falso e indiziario per la difesa.

Adesso gran parte della squadra di difesa è cambiata. Memore dei ricordi del pallone, Dell’Utri lo ha spiegato con un paragone calcistico: è un nuovo campionato, la squadra si cambia, anche se qualcuno resta. Ed ha poi aggiunto di sperare in un processo “meno pesante e meno lento”. Lui comunque ci sarà, a tutte le udienze. E Berlusconi? “E’ un teste come un altro. 

Non so se si avvarrà della facoltà di non rispondere, come ha fatto in primo grado. Sarà lui a deciderlo”. “Berlusconi – sottolinea l’Economist, che ha dedicato una ampia anticipazione al processo – non è direttamente coinvolto”. Ma poi il quotidiano inglese induge sulla strategia dei magistrati, e parla di nuovi elementi che verrebbero presentati nell’appello. Tra questi una testimonianza nell’ambito dell’inchiesta sulla morte, sotto il ponte dei Frati Neri a Londra, del banchiere Roberto Calci. I giudici palermitani – sostiene l’Economist –vogliono accertare se Calvi, che avrebbe beneficato di investimenti della mafia, nella prima metà degli anni '70, abbia effettuato investimenti nella Fininvest. Una delle operazioni estere di Calvi, aggiunge l’Economist, riguarda la società Capitalfin International e una propria sussidiaria, la Fininvest Limited-Gran Cayman nel 1947. Risulterebbe poi che il Banco Ambrosiano di Roberto Calvi avrebbe acquistato una consistente quota della Capitalfin. L’economist ricorda anche, però, che la Fininvest ha avviato, nei confronti del consulente che ha trovato queste tracce, una azione legale, sostenendo che il suo lavoro per i magistrati dell’inchiesta sulla morte di Calvi è stato negligente ed ha causato danni alla società.

Un processo meno pesante e meno lungo? Se questo nuovo materiale è solo un assaggio, difficile che le speranze di Dell’Utri possano avverarsi. 

Andrea Santini 

Fonte: http://www.rifondazione-cinecitta.org/dellutri.html