Cosa si nasconde dietro la guerra in Afghanistan?
06.10.2009 Speciale Peace Reporter scritto da Enrico Piovesana
Perché, esattamente otto anni fa, gli Stati Uniti e i loro alleati hanno invaso e occupato l'Afghanistan?
Quali interessi si celano dietro le spiegazioni ufficiali di questa guerra?
Le ipotesi avanzate in questi anni sono molteplici, ma nessuna abbastanza convincente.
Tranne una, che però è alquanto difficile da dimostrare.

Risorse energetiche.
Secondo un rapporto pubblicato nel dicembre del 2000 sul sito Internet dell'Eia, l'agenzia di statistica del dipartimento
per l'Energia degli Stati Uniti (e poi rimosso), l'Afghanistan viene presentato come un paese con scarse risorse energetiche
(mai sfruttate) che, secondo i dati risalenti ancora al tempo dell'occupazione sovietica, consistono in riserve petrolifere
per 95 milioni di barili (concentrati nella zona di Herat), giacimenti di gas naturale per 5 trilioni di piedi cubi (nell'area
di Shebergan) più 400 milioni di tonnellate di carbone (tra Herat e il Badakshan). Risorse troppo esigue per giustificare un'invasione militare costata finora, ai soli Stati Uniti, quasi 230 miliardi di dollari. Molti in Afghanistan parlano di
giacimenti di uranio nel deserto della provincia meridionale di Helmand, il cui controllo e sfruttamento sarebbe al centro
di un'aspra contesa tra forze britanniche e statunitensi. Ma per ora questa storia non avuto alcuna conferma.

La pipeline Trans-Afghana.
Questa è considerata da molti la vera motivazione che ha spinto gli Stati Uniti ad invadere l'Afghanistan nel 2001.
Il progetto di costruire una condotta lunga 1.680 chilometri per portare il gas turkmeno di Dauletabad fino in Pakistan attraverso l'Afghanistan occidentale (Herat e Kandahar) viene avviato nel 1996 dalla compagnia petrolifera statunitense
Unocal (per la quale lavoravano sia Hamid Karzai che Zalmay Khalizad) in cooperazione con il regime talebano
(nel 1996 la Unocal apre una sede a Kandahar e l'anno dopo esponenti del governo talebano vengono ricevuti negli Usa).
L'idea viene accantonata alla fine degli anni '90 in attesa che "la situazione politica e militare dell'Afghanistan migliori"
(fonte Eia, dicembre 2000). Vista l'impraticabilità del corridoio sud-asiatico, l'Occidente decide di puntare su quello
sud-caucasico, aprendo nel 2006 un gasdotto che porta il gas turkmeno in Turchia via Mar Caspio, Azerbaigian e Georgia
(e che dal 2015 verrà collegato al gasdotto Nabucco). Il progetto della pipeline trans-afgana, però, non viene abbandonato.
I tre paesi coinvolti riprendono a discuterne dal 2002 in poi, e nell'aprile 2008 firmano un accordo, anche con l'India,
che prevede l'apertura del gasdotto entro il 2018 (previsione eccessivamente ottimistica secondo gli analisti di settore).
A finanziare il progetto (7,6 miliardi di dollari) è la Banca per lo Sviluppo Asiatico (di cui gli Stati Uniti sono i maggiori
azionisti assieme al Giappone). Le compagnie petrolifere interessate sono quelle statunitensi, britanniche e canadesi.
Per quanto importante, appare azzardato individuare in questo progetto - di difficilissima realizzazione e surclassato
da altre rotte gasifere - la ragione della prosecuzione dell'occupazione occidentale dell'Afghanistan.

Posizione strategica.
L'Afghanistan ha la sfortuna di trovarsi nel cuore del continente asiatico, in una posizione strategica che consente a chi
lo controlla di monitorare da vicino tutte le potenze nucleari della regione, Cina, Russia, India e Pakistan, e di completare
l'accerchiamento dell'Iran, che in caso di guerra con gli Usa si troverebbe a fronteggiare un attacco su due fronti:
quello iracheno e quello afgano. Secondo molti analisti militari la volontà statunitense di controllare l'Afghanistan
va però letta soprattutto in chiave di contrapposizione alla Cina, considerata dal Pentagono come la maggiore minaccia potenziale all'egemonia militare ed economica globale degli Stati Uniti non solo in Asia, ma anche in Medio Oriente,
Africa e America Latina. Una minaccia divenuta più reale dopo la creazione, nel giugno 2001, dell'alleanza politico-militare guidata da Pechino: l'Organizzazione di Shanghai per la Cooperazione (Sco), che riunisce la Cina, la Russia, le repubbliche centroasiatiche e presto, forse, anche l'Iran. E che in futuro, vista la sua progressiva integrazione con l'Organizzazione
del Trattato per la Sicurezza Collettiva (Csto), l'alleanza politico-militare a guida russa, potrebbe estendere la sua influenza fino all'Europa orientale (Bielorussia) e al Caucaso (Armenia), diventando a tutti gli effetti un'alleanza contrapposta alla
Nato a guida Usa. Un Afghanistan sotto controllo statunitense rappresenta una spina nel fianco per la Cina, in particolare
per la sua prossimità allo Xinjang, regione ricchissima di petrolio destabilizzata dal nazionalismo uiguro (tradizionalmente sostenuto dalla Cia). La rilevanza geostrategica dell'Afghanistan è innegabile e ha certamente giocato un ruolo
importante nella decisione statunitense di occupare l'Afghanistan e di impiantarvi basi militari permanenti.

Il business della droga.
Ma forse dietro la guerra in Afghanistan si nascondono interessi ancor più grandi e inconfessabili: quelli legati al controllo
del traffico mondiale dell'eroina, ovvero di uno dei business più redditizi del pianeta, con un giro d'affari annuo stimato attorno ai 150 miliardi di dollari l'anno. Non è un mistero che il boom della produzione di oppio/eroina negli anni '70
nel cosiddetto Triangolo d'Oro (Laos, Birmania e Cambogia) sia stato opera dalla Cia, che con i ricavi del narcotraffico finanziava le operazioni anti-comuniste nel Sudest asiatico. Lo stesso sistema - e questo è altrettanto risaputo - fu adottato dalla Cia negli anni '80 in America Latina, per finanziare (con i proventi della coca) la guerriglia antisandinista dei ‘Contras'
in Nicaragua, e in Afghanistan per finanziare (con i proventi dell'eroina) la resistenza anti-sovietica dei mujaheddin.
In Afghanistan il business continuò anche negli anni '90 e si incrementò con l'avvento al potere dei talebani, notoriamente sostenuti dalla Cia. Fino a quando nel 2000 il mullah Omar, allo scopo di guadagnare sostegno internazionale al suo regime, decise di vietare la produzione di oppio, che infatti nel 2001 crollò a livelli prossimi allo zero. Produzione che nell'Afghanistan ‘liberato' e controllato dalle forze armate e dall'intelligence Usa è ripresa a pieno ritmo fin dal 2002 (quando ancora i talebani non erano tornati) polverizzando ogni record storico e trasformando in pochi anni il paese sud-asiatico nel principale produttore mondiale di eroina (93 per cento della produzione mondiale). Una situazione che le forze Usa presenti
in Afghanistan si sono sempre rifiutate di contrastare dicendo che questo "non era compito loro" e lasciando che
se ne occupasse il governo-fantoccio di Kabul. Secondo un numero sempre maggiore ed eterogeneo di esperti e di persone
‘ben informate', la Cia avrebbe in sostanza appaltato produzione e lavorazione di droga al ‘narco-Stato' guidato da Karzai, proteggendo le rotte di smercio via terra (Pakistan, Iran e Tajikistan) e gestendo direttamente il trasporto aereo all'estero.

Una nuova Air America?
Secondo un'inchiesta televisiva condotta dal canale russo Vesti l'eroina afgana viene portata fuori dall'Afghanistan
a bordo dei cargo militari Usa diretti nelle basi di Ganci, in Kirghizistan, e di Inchirlik, in Turchia.
Spesso, ha scritto sul Guardian la giornalista afgana Nushin Arbabzadah, nascosta nelle bare dei militari Usa, riempite
di droga al posto dei cadaveri. "Penso che sia possibile che questo avvenga, anche se non lo posso provare",
ha diplomaticamente commentato l'ambasciatore russo a Kabul, Zamir Kabulov. Il giornalista russo Arkadi Dubnov
di Vremya Novostei, riportando informazioni fornitegli da una fonte all'interno dei servizi afgani, ha scritto che
"l'85 per cento di tutta la droga prodotta in Afghanistan è trasportata all'estero dall'aviazione Usa".
Quest'estate il generale russo Mahmut Gareev, un ex comandante delle truppe sovietiche in Afghanistan, ha dichiarato
a Russia Today: "Gli americani non contrastano la produzione di droga in Afghanistan perché questa frutta loro almeno 50 miliardi di dollari all'anno. Non è un mistero che gli americani trasportano la droga all'estero con i loro aerei militari.".
Il giornalista statunitense Dave Gibson di Newsmax ha citato una fonte anonima dell'intelligence Usa secondo la quale
"la Cia è sempre stata implicata nel traffico mondiale di droga e in Afghanistan sta semplicemente portando avanti quello
che è il suo affare preferito, come aveva già fatto durante la guerra in Vietnam". L'economista russo Mikhail Khazin
in un'intervista ha dichiarato che "Gli americani lavorano duro per mantenere in piedi il narcobusiness in Afghanistan attraverso la protezione che la Cia garantisce ai trafficanti di droga locali". "Gli Stati Uniti non contrastano il narcotraffico afgano per non minare la stabilità di un governo sostenuto dai principali trafficanti di droga del Paese, a cominciare
dal fratello di Karzai", scrive il noto giornalista statunitense Eric Margolis sull'Huffington Post. "Le esperienze passate
in Indocina e Centroamerica suggeriscono che la Cia potrebbe essere coinvolta nel traffico di droga afgana in maniera
più pesante di quello che già sappiamo. In entrambi quei casi gli aerei Cia trasportavano all'estero la droga per conto
dei loro alleati locali: lo stesso potrebbe avvenire in Afghanistan. Quando la storia della guerra sarà stata scritta,
il sordido coinvolgimento di Washington nel traffico di eroina afgana sarà uno dei capitoli più vergognosi".

Narcodollari per salvare le banche in crisi?
Antonio Maria Costa, direttore generale dell'Ufficio delle Nazioni Unite per la Droga e la Criminalità (Unodc),
in un’intervista al settimanale austriaco Profil ha dichiarato: “Il traffico di droga è l'unica industria in espansione.
I proventi vengono reinvestiti solo parzialmente in attività illecite. Il resto del denaro viene immesso nell'economia legale
con il riciclaggio. Non sappiamo quanto, ma il volume è impressionante. Ciò significa introdurre capitale da investimento.
Ci sono indicazioni che questi fondi sono anche finiti nel settore finanziario, che si trova sotto ovvia pressione dalla seconda metà dello scorso anno (a causa della crisi finanziaria globale, ndr). Il denaro proveniente dal traffico di droga attualmente
è l’unico capitale liquido da investimento disponibile. Nella seconda metà del 2008 la liquidità era il problema principale
per il sistema bancario e quindi tale capitale liquido è diventato un fattore importante. Sembra che i crediti interbancari
siano stati finanziati da denaro che proviene dal traffico della droga e da altre attività illecite.
E' ovviamente arduo dimostrarlo, ma ci sono indicazioni che un certo numero di banche sia stato salvato con questi mezzi”.


Dossier Italiani in guerra:
Afghanistan, la soluzione cinese
Fine dell'occupazione e ritiro truppe Usa, invio di una forza di pace Onu
e trattative autonome tra Karzai, signori della guerra e talebani.

Un commento del 29 settembre di China Daily,  passato abbastanza inosservato, si occupa della guerra in Afghanistan.
E' attribuito a Li Qinggong, vicesegretario del China Council for National Security Policy Studies, è lecito quindi
supporre che rappresenti una sorta di posizione ufficiale cinese. E' stato in seguito ripreso e analizzato da Asia Times,
 nella persona di M K Bhadrakumar, ex diplomatico indiano.

In una fase in cui Obama cerca di condividere il peso della "guerra diseguale" con più alleati possibile, in cui la situazione sul campo è nella migliore delle ipotesi di stallo e in cui si vocifera anche di pressioni Usa affinché la Cina offra qualche tipo di contributo, va detto che il commento ribadisce tutto il disaccordo cinese sulle ragioni stesse della guerra e sulle possibilità di uscirne sconfiggendo gli insorti afghani.
Ma il Dragone offre anche una sua "exit strategy", esposta per punti salienti. Eccoli.

* Per promuovere la fine della guerra, gli attori principali devono adottare un “approccio pacifico e riconciliatore“.

* Gli Usa devono porre fine alla “guerra al terrore” voluta da Bush nel 2001, che si è rivelata “fonte di disordine  e violenza senza fine”.

* Per promuovere la riconciliazione, gli Stati Uniti devono arrestare la propria azione militare. La guerra non ha portato pace e sicurezza agli afghani né dato vantaggi tangibili agli Usa. Al contrario, la legittimità dell’azione militare americana suscita sempre più dubbi: la stessa opinione pubblica statunitense sembra ormai in maggioranza contraria alla guerra e Obama avrebbe indubbi vantaggi politici e d’immagine se riuscisse a uscirne.

* La riconciliazione deve avvenire tra governo afghano, talebani e i “signori della guerra“, cioè gli attori principali (Usa eclusi) del conflitto. Oltre ai danni provocati dall’intervento americano, l’Afghanistan sconta troppi anni di conflitti interni tra le diverse fazioni. Le elezioni del 20 agosto non hanno provocato alcun risultato apprezzabile e lo stesso presidente Karzai sta cominciando a smarcarsi dalla tutela Usa in direzione di colloqui a tre con talebani e signori della guerra. Ma il presupposto irrinunciabile di tali abboccamenti è che gli Usa terminino le operazioni militari.

* E’ necessario l’appoggio della comunità internazionale. Germania, Francia e Gran Bretagna hanno già annunciato una conferenza per parlare di exit strategy, le pressioni internazionali potrebbero favorire ulteriormente il disimpegno Usa, offrendo una “scusa” a Obama. Il consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, su pressione dei tre membri europei, potrebbe stendere una roadmap per la questione afghana. Tra i problemi da affrontare, l’accettazione dei talebani come controparte e il destino dei combattenti legati ad al Qaeda.

* In assenza degli americani, è necessaria una missione di peacekeeping per l’Afghanistan. Con la collaborazione di questa forza neutrale, è plausibile che il governo afghano e le sue forze di sicurezza riescano a esercitare un effettivo controllo sul territorio, mantenendo “pace e sicurezza”.

Su Asia Times, M K Bhadrakumar osserva che l'articolo di fatto sollecita un abbandono di tutta l'Asia centrale da parte degli Usa, Pakistan compreso, e che punta sul "pragmatico" Karzai - sganciato dai suoi protettori americani - come uomo della mediazione. Assegna inoltre al consiglio di sicurezza dell'Onu il compito di occuparsi della pace futura. Rinuncia quindi a una soluzione regionale, con Cina stessa, India, Russia, Iran e Paesi centroasiatici come protagonisti.

Si può aggiungere che Cina e Russia sono membri del consiglio di sicurezza. L'articolo di China Daily sembrerebbe quindi offrire un aiuto cinese, ma non alle condizioni Usa, bensì nel quadro di un multilateralismo che, dal punto di vista del Dragone, allontanerebbe l'esercito americano dai propri confini occidentali ristabilendo al contempo stabilità alla regione.

Gabriele Battaglia

http://it.peacereporter.net