"Così torturavamo i brigatisti"
Usare ogni mezzo per far parlare i terroristi:
Era il 1982 quando l'Espresso denunciò le sevizie ai responsabili per il sequestro Dozier.
Il cronista dell'Espresso fu smentito e arrestato.
Oggi il commissario Salvatore Genova conferma tutto: "Ricevemmo il via libera per botte e sevizie"
 5 aprile 2012 PIER VITTORIO BUFFA

Sì, sono anche io responsabile di quelle torture. Ho usato le maniere forti con i detenuti, ho usato violenza a persone affidate alla mia custodia. E, inoltre, non ho fatto quello che sarebbe stato giusto fare. Arrestare i miei colleghi che le compivano. Dovevamo arrestarci l'un con l'altro, questo dovevamo fare".
Salvatore Genova è l'uomo il cui nome è da trent'anni legato a una grigia vicenda della nostra storia recente. Quella delle torture subite da molti terroristi tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta.

Una vicenda grigia perché malgrado il convergere di testimonianze concordanti, le denunce di poliziotti coraggiosi e le inchieste giudiziarie la verità non è mai stata accertata. Nessuna condanna definitiva, nessuna responsabilità gerarchico-amministrativa, nessuna responsabilità politica. Solo lui, il commissario di polizia Salvatore Genova, e quattro altri poliziotti arrestati con l'accusa di aver seviziato Cesare Di Lenardo, uno dei cinque carcerieri del generale americano James Lee Dozier, sequestrato dalle Brigate rosse il 17 dicembre 1981 e liberato dalla polizia il 28 gennaio 1982. Evocare il nome di Genova vuol dire far tornare alla memoria l'acqua e sale ai brigatisti, le sevizie, le botte.

Oggi Salvatore Genova non ci sta più. Nel 1997 aveva iniziato a mandare al ministero informative ed esposti senza avere risposte. Adesso ha deciso di fare nomi, indicare responsabilità, svelare quello che accadde davvero in quei giorni drammatici. Ecco il suo racconto.
"Questura di Verona, dicembre 1981. Il prefetto Gaspare De Francisci, capo della struttura di intelligence del Viminale (Ucigos) convoca Umberto Improta, Salvatore Genova, Oscar Fioriolli e Luciano De Gregori. E' la squadra messa in campo dal ministero dell'Interno (guidato dal democristiano Virginio Rognoni) per cercare di risolvere il caso Dozier.

Il capo dell'Ucigos, De Francisci, ci dice che l'indagine è delicata e importante, dobbiamo fare bella figura. E ci dà il via libera a usare le maniere forti per risolvere il sequestro. Ci guarda uno a uno e con la mano destra indica verso l'alto, ordini che vengono dall'alto, dice, quindi non preoccupatevi, se restate con la camicia impigliata da qualche parte, sarete coperti, faremo quadrato. Improta fa sì con la testa e dice che si può stare tranquilli, che per noi garantisce lui. Il messaggio è chiaro e dopo la riunione cerchiamo di metterlo ulteriormente a fuoco. Fino a dove arriverà la copertura? Fino a dove possiamo spingerci? Dobbiamo evitare ferite gravi e morti, questo ci diciamo tra di noi funzionari. E far male agli arrestati senza lasciare il segno.

Il giorno dopo, a una riunione più allargata, partecipa anche un funzionario che tutti noi conosciamo di nome e di fama e che in quell'occasione ci viene presentato. E' Nicola Ciocia, primo dirigente, capo della cosiddetta squadretta dei quattro dell'Ave Maria come li chiamiamo noi. Sono gli specialisti dell'interrogatorio duro, dell'acqua e sale: legano la vittima a un tavolo e, con un imbuto o con un tubo, gli fanno ingurgitare grandi quantità di acqua salata. La squadra è stata costituita all'indomani dell'uccisione di Moro con un compito preciso. Applicare anche ai detenuti politici quello che fanno tutte le squadre mobili. Ciocia, va precisato, non agì di propria iniziativa. La costituzione della squadretta fu decisa a livello ministeriale.

Ciocia, che Umberto Improta soprannomina dottor De Tormentis, un nomignolo che gli resta attaccato per tutta la vita, torna a Verona a gennaio, con i suoi uomini, i quattro dell'Ave Maria. Da più di un mese il generale è prigioniero, la pressione su di noi è altissima.

Il 23 gennaio viene arrestato un fiancheggiatore, Nazareno Mantovani. Iniziamo a interrogarlo noi, lo portiamo all'ultimo piano della questura. Oltre a me ci sono Improta e Fioriolli. Dobbiamo "disarticolarlo", prepararlo per Ciocia e i quattro dell'Ave Maria. Lo facciamo a parole, ma non solo. Gli usiamo violenza, anche io. Poi bisogna portarlo da Ciocia in un villino preso in affitto dalla questura. Lo facciamo di notte. Lo carichiamo, bendato, su una macchina insieme a quattro dei nostri. Su un'altra ci sono Ciocia con i suoi uomini, incappucciati. Fioriolli, Improta e io, insieme ad altri agenti, siamo su altre due macchine. Una volta arrivati Mantovani viene spogliato, legato mani e piedi e Ciocia inizia il suo lavoro con noi come spettatori. Prima le minacce, dure, terrorizzanti: "Eccoti qua, il solito agnello sacrificale, sei in mano nostra, se non parli per te finisce male". Poi il tubo in gola, l'acqua salatissima, il sale in bocca e l'acqua nel tubo. Dopo un quarto d'ora Mantovani sviene e si fermano. Poi riprendono. Mentre lo stanno trattando entra il capo dell'Ucigos, De Francisci, e fa smettere il waterboarding.

Dopo qualche giorno l'interrogatorio decisivo che ci porterà alla liberazione di Dozier, quello del br Ruggero Volinia e della sua compagna, Elisabetta Arcangeli.

Io sono fuori per degli arresti e quando rientro in questura vado all'ultimo piano. Qui, separati da un muro, perché potessero sentirsi ma non vedersi, ci sono Volinia e la Arcangeli. Li sta interrogando Fioriolli, ma sarei potuto essere io al suo posto, probabilmente mi sarei comportato allo stesso modo. Il nostro capo, Improta, segue tutto da vicino. La ragazza è legata, nuda, la maltrattano, le tirano i capezzoli con una pinza, le infilano un manganello nella vagina, la ragazza urla, il suo compagno la sente e viene picchiato duramente, colpito allo stomaco, alle gambe. Ha paura per sé ma soprattutto per la sua compagna. I due sono molto uniti, costruiranno poi la loro vita insieme, avranno due figlie.

E' uno dei momenti più vergognosi di quei giorni, uno dei momenti in cui dovrei arrestare i miei colleghi e me stesso. Invece carico insieme a loro Volinia su una macchina, lo portiamo alla villetta per il trattamento. Lo denudiamo, legato al tavolaccio subisce l'acqua e sale e dopo pochi minuti parla, ci dice dove è tenuto prigioniero il generale Dozier. Il blitz è un successo, prendiamo tutti e cinque i terroristi e li portiamo nella caserma della Celere di Padova. Ciascuno in una stanza, legato alle sedie, bendato, due donne e tre uomini. Tra loro Antonio Savasta che inizierà a parlare quasi subito, e proprio con me, consentendoci di fare centinaia di arresti.

Ma le violenze non finiscono con la liberazione del generale. Il clima è surriscaldato. Tutti sanno come abbiamo fatto parlare Volinia e scatta l'imitazione, il "mano libera per tutti". Un gruppo di poliziotti della celere, che si autodefinisce Guerrieri della notte, quando noi non ci siamo, va nelle stanze dove sono i cinque brigatisti e li picchia duramente. Un ufficiale della celere, uno di quei giorni, viene da me chiedendomi se può dare una ripassata a "quello stronzo", riferendosi a Cesare Di Lenardo, l'unico dei cinque che non collabora con noi. Io non gli dico di no e inizia in quell'attimo la vicenda che ha portato al mio arresto. La mia responsabilità esiste ed è precisa, non aver impedito che il tenente Giancarlo Aralla portasse Di Lenardo fuori dalla caserma. La finta fucilazione e quello che accadde fuori dalla caserma lo sappiamo dalla testimonianza di Di Lenardo. Io rividi il detenuto alle docce. Degli agenti stavano improvvisando su di lui un trattamento di acqua e sale. Li feci smettere ma non li denunciai diventando così loro complice.

La voglia di emulare, di menar le mani, di far parlare quegli "stronzi" non si ferma a Padova. Di Mestre so per certo. Al distretto di polizia vengono portati diversi terroristi arrestati dopo le indicazioni di Savasta. I poliziotti si improvvisano torturatori, usano acqua e sale senza essere preparati come Ciocia e i suoi, si fanno vedere da colleghi che parlano e denunciano. Ma l'inchiesta non porterà da nessuna parte.
Quando i giornali cominciano a parlare di torture e scatta l'indagine contro di me e gli altri per il caso Di Lenardo mi faccio vivo con Improta, gli dico che non voglio restare con il cerino in mano, che devono difendermi. Lui promette, dice di non preoccuparmi, ma solo l'elezione al Parlamento propostami dal Partito socialdemocratico mi toglie dal processo. Gli altri quattro arrestati con me vengono condannati in primo grado e, alla fine, amnistiati.

Noi non siamo mai stati in prigione. Io venni portato all'ospedale militare di Padova e lì mi venivano a trovare funzionari di polizia per informarmi delle intenzioni dei magistrati. Tra le mie carte ho ritrovato un appunto dattiloscritto che mi venne consegnato in quei giorni. E' una falsa, ma dettagliatissima, ricostruzione dei fatti che dovevamo sostenere per essere scagionati. Suppongo che lo stesso foglio venne dato anche agli altri arrestati perché non ci fossero contraddizioni tra di noi.
Io me ne sono restato buono per tutti questi anni perché non volevo far scoppiare lo scandalo, fare arrestare tutti quanti.

Oggi, guardandomi indietro, vedo con chiarezza che ho sbagliato, che non avrei dovuto commettere quelle cose, né consentirle. Non dovevo farlo né come uomo né come poliziotto. L'esperienza mi ha insegnato che avremmo potuto ottenere gli stessi risultati anche senza le violenze e la squadretta dell'Ave Maria".


I protagonisti

Gaspare De Francisci 
Capo dell'Ucigos, come allora si chiamava la centrale investigativa della polizia. Fu lui a coordinare le indagini sul sequestro del generale Dozier.

Umberto Improta
Morto nel 2002, Improta è stato uno dei poliziotti più noti e attivi durante gli anni del terrorismo.
E' stato questore di Roma e Milano, prefetto di Napoli. Fu lui a dare il soprannome di "professor De Tormentis" a Nicola Ciocia.

Nicola Ciocia
Poliziotto di lungo corso venne nominato questore nel 1984 e lasciò la polizia.
E' lui il "professor De Tormentis", come ha confermato al "Corriere della Sera" pur senza ammettere esplicitamente di aver praticato la tortura.

Oscar Fioriolli
E' stato questore ad Agrigento, Modena, Palermo, Genova (subito dopo il G8) e a Napoli. Adesso, come prefetto, è al ministero dell'Interno.
Non vuole fissare un incontro per parlare di quei giorni ("Non ho mai rilasciato interviste", dice) e al telefono, rispondendo alle domande,
nega che ci sia mai stata la riunione in cui venne dato il via libera alle "maniere forti" raccontata da Genova e nega anche che lui o qualcuno
della sua squadra abbia esercitato violenza su Elisabetta Arcangeli o su Ruggero Volinia.

Luciano De Gregori
Venne anche lui aggregato all'Ucigos per l'inchiesta Dozier. Ma il suo ruolo, ricorda Genova, fu prevalentemente amministrativo.




Nicola Ciocia, il "prof. De Tormentis": «Sono io l’uomo delle torture ai brigatisti»
fonte: il Corriere della Sera 10 febbraio 2012

Per chi lavorava in polizia non c’era niente da scherzare negli anni a cavallo tra la fine dei Settanta e l’inizio degli Ottanta, quando le Brigate Rosse sparavano e lo Stato combatteva contro i gruppi della lotta armata la sua battaglia più difficile. E non scherzava certo l’allora vicequestore Umberto Improta — che del nucleo speciale di investigatori formato dal Viminale per indagare sulle Br fu il capo operativo — quando affibbiò a un suo collega specializzato nel condurre gli interrogatori, il soprannome di professor De Tormentis. Sapeva quello che diceva, Improta, e stando alle denunce (tutte archiviate) presentate in quegli anni da alcuni brigatisti interrogati dal professore, il soprannome sintetizzava bene i suoi metodi di lavoro.
 

Metodi che, per come li raccontarono i brigatisti che li subirono, e per come li conferma oggi l’ex dirigente della Digos Rino Genova nelle testimonianze rilasciate prima a Nicola Rao, autore del libro «Colpo al cuore» (Sperling & Kupfer), e poi alla trasmissione «Chi l’ha visto?», che l’altro ieri si è occupata del professor De Tormentis, hanno un solo nome: torture. Con la tecnica del waterboarding, per la precisione, e cioè la somministrazione forzata di acqua salata che provoca nella vittima la sensazione dell’annegamento e in qualche caso anche gli effetti.
Il programma condotto da Federica Sciarelli ha raccolto anche la testimonianza di Enrico Triaca — br che nel 1978 subì il trattamento della squadra guidata dal professore —. Inoltre ha preferito per ora non diffondere il nome di De Tormentis. Il Corriere sceglie invece di farlo dopo aver avuto conferma di quel soprannome dal diretto interessato.
Il professor De Tormentis si chiama Nicola Ciocia, ha 78 anni, è pugliese di Bitonto ma vive a Napoli, città in cui negli anni Settanta diresse prima la squadra mobile e poi la sezione interregionale Campania e Molise dell’Ispettorato generale antiterrorismo. Dalla polizia si dimise nel 1984 con il grado di questore (non accettò la sede di Trapani) e fino a pochi anni fa ha fatto l’avvocato. Ora si è ritirato del tutto, esce raramente dalla sua casa sulla collina del Vomero, e di sé dice: «Io sono fascista mussoliniano. Per la legalità».
Lo si capirebbe anche se non lo dicesse, fosse solo per il busto del duce che tiene sulla libreria. Ciocia non ammette esplicitamente di aver praticato la tortura, anche se a dire il contrario non sono soltanto Genova e Triaca: agli atti di inchieste mai portate avanti ci sono le denunce di molti brigatisti, come per esempio Ennio Di Rocco, che con la sua confessione consentì vari arresti tra cui quello di Giovanni Senzani e per questo fu condannato a morte dalle Br e ucciso in carcere.
Se — come dicono — era bravo a estorcere ammissioni, Nicola Ciocia lo è altrettanto a schivare le domande dirette. Lo stato italiano praticò la tortura attraverso lei e la sua squadra per sconfiggere le Brigate Rosse? «Le Br hanno fatto stragi, e avrebbero continuato se non fossero state debellate da una azione decisa dello stato». Una azione che si concretizzò anche attraverso i suoi interrogatori? «Bisogna avere stomaco per ottenere risultati con un interrogatorio. E bisogna far sentire l’interrogato sotto il tuo assoluto dominio. Non serve far male fisicamente. Io in vita mia ho dato solo uno schiaffo a un nappista che non voleva dirmi il suo nome».
Ciocia sostiene che «non si può affermare che torturavamo i brigatisti, facendo passare noi per macellai e loro per persone inermi». Arriva a dire che «Di Rocco si mise spontaneamente a disposizione della giustizia», e su Triaca si lascia scappare un ambiguo «lui non ha parlato, quindi quei metodi non sempre funzionavano». E insiste pure: «La lotta al terrorismo non si poteva fare con il codice penale in mano, ma io ho fatto sempre e solo il mio dovere, ottenendo a volte risultati e a volte no. Perché non è vero che quei sistemi, quelle pratiche sono sempre efficaci».
«Quei metodi», «quei sistemi», «quelle pratiche»: sembrano tutti modi per non pronunciare la parola tortura. E Ciocia non la pronuncia: «Lo Stato si attivò per difendere la democrazia. I macellai erano loro, non noi».



Il commissario di polizia Salvatore Genova, nel 1982, partecipò alle indagini
sul caso James Lee Dozier, il generale americano sequestrato dalla brigate rosse.
Dopo il blitz che portò alla liberazione del generale si diffusero voci su torture inflitte ai terroristi.
L’Espresso allora raccolse precise informazioni e le pubblicò, il cronista venne arrestato perché non rivelò le fonti.
Genova e altri quattro poliziotti vennero poi arrestati per le violenze commesse sui detenuti ma hanno sempre respinto le accuse. 
'Quegli interrogatori con botte e sevizie'
- Intervista di Pier Vittorio Buffa -
Oggi, dopo trent’anni, Salvatore Genova, racconta cosa successe davvero in quei giorni e chi diede il via alle torture.